Cinquanta grandi monumenti piemontesi fra Seicento e Settecento
nella originale "interpretazione di Giorgio Jano
di Pierangelo Cavanna
Líetà barocca costituisce, per giudizio sostanzialmente unanime,
una delle più grandi stagioni della cultura artistica e particolarmente
architettonica della regione piemontese, segnata da una serie rilevante
e diffusa di realizzazioni che spaziano dalla reinvenzione degli
spazi urbani - specialmente nella Torino che si avvia ad essere capitale
di respiro europeo - alla distribuzione territorialmente diffusa
di confraternite e parrocchiali, e palazzi in un dialogo affascinante
e continuo tra spazi costruiti o prefigurati della capitale (si pensi alle
tavole del Theatrum Sabaudiae) e spazi polarizzati dei centri minori e
dei luoghi extraurbani, vivificati e accesi, messi in moto quasi dalla
presenza di queste architetture nuove , che si propongono esplicitamente
quali emergenze, poli magnetici che ridefiniscono uno spazio, fisico e
mentale, percettivo nuovo mentre ridisegnano la trama di relazioni
visuali e ne ridefiniscono il significato ed il valore simbolico, in uno
sforzo evidente di abbellimento e magnificenza in funzione di legittimazione
e ostensione del potere civile e religioso ai differenti gradi.
Duomo di Torino, Cappella della Sindone
Bra, Santa Chiara
Questa fioritura architettonica straordinaria, che dura per circa due
secoli, è connessa al nuovo quadro politico ed economico che si
definisce dopo il trattato di Cateau Cambresis (1559), a partire dalla
volontà di Emanuele Filiberto di accentuare la rilevanza dellíarea
piemontese con lo spostamento della capitale a Torino (1563) dando così
avvio al graduale processo di omogeneizzazione interna e di
espansione e consolidamento territoriale che si compirà sostanzialmente
con i due trattati di Utrecht (1713) e di Aquisgrana (1748). È questo
il contesto entro il quale vengono chiamati ad operare (e riflettere) alcuni
degli architetti più importanti dellíepoca da Vitozzi ai Castellamonte,
da Guarini a Garove e Lanfranchi fino a Juvarra, Plantery, Alfieri
e Vittone, attivi anche al di fuori dei confini della capitale in un dialogo
vivo, dal cantiere al territorio, con altri personaggi eccellenti della
scena architettonica piemontese -tra capitale e piccole capitali - quali
Scapitta e Gallo, che rappresentano le figure più note di
quella fitta rete di quadri tecnici (più di 700 tra ingegneri e
architetti) ai quali viene affidato tra Sei e Settecento il ridisegno
della struttura e del paesaggio costruito del territorio piemontese.
La ricca conoscenza attuale di questa stagione della cultura deriva
dalla grande mole di studi che le sono stati dedicati specialmente a partire
dai primi decenni del nostro secolo, ribaltando nei fatti le considerazioni
critiche di matrice settecentesca che identificavano il barocco come
ìpeste del gustoî (Milizia), ancora presenti - specialmente in Italia -
nellíopera di Benedetto Croce (1929), che proponeva una definizione
del termine «barocco» quale ìnon stile.î
Alla rivalutazione critica operata da Burckardt (1860) e Wölfflin
(1888 e 1915) corrisponde in ambito torinese un precoce interesse
per líarte del Sei e Settecento, testimoniato dal volume dedicato agli
Stucchi e affreschi del Reale Castello del Valentino pubblicato nel 1887
da Riccardo Brayda con fotografie di Alberto Charvet. Dopo questo episodio
è la grande Esposizione Internazionale dellíIndustria e del Lavoro
che si svolge a Torino per celebrare il cinquantenario dellíUnità
a riproporre quellíattenzione per le architetture barocche che si innesta
nel più ampio dibattito per la definizione di uno ìstile nazionaleî
, assumendo qui più sottili valenze di orgogliosa rivendicazione
di una identità culturale sostitutiva dellíormai superato modello
medievale (neogotico) di matrice sabauda.
Borgomasino. Parrocchiale
Carrù. Assunta
Nella produzione fotografica gli esiti di questo rinnovato interesse
si ritrovano immediatamente nelle cartelle edite da Giancarlo dallíArmi
(1915) e nelle serie tipologiche che Mario Gabinio dedica alle architetture
barocche torinesi nel corso degli anni Venti, così come nella
documentazione fornita da Augusto Pedrini agli studi di Augusto Telluccini
dedicati a Stupinigi (1923) e più in generale allíopera di Filippo
Juvarra (1926), inaugurando di fatto quella lunga stagione di studi ed
occasioni espositive che giunge sino alla serie recente di volumi curati
da Giovanni Romano.
Líapparato fotografico che correda la maggior parte di questi testi
si presenta ricco e dettagliato, ma ancora sostanzialmente legato ad una
concezione puramente documentaria dellíimmagine fotografica, di puro strumento
referenziale; la fotografia come schermo trasparente, come finestra dalla
quale osservare senza inquietudini i dinamici volumi barocchi ridotti al
più ragionevole spazio bidimensionale della stampa fotografica,
della pagina stampata; fotografie - in fondo - che non si discostano dalla
tradizionale impostazione ottocentesca di matrice Alinari che
-nelle parole di Rudolf Wittkower sono ìun mezzo ideale per
comprendere líarchitettura di Brunelleschi, poiché vi compare un
punto di vista fisso e una proiezione sul piano della piramide
ottica che corrisponde perfettamente agli intenti brunelleschianiî, fotografie
quindi che possiamo supporre inadeguate alla restituzione di spazi architettonicamente
dinamici quali quelli barocchi.
Già Paolo Portoghesi nel volume dedicato a Borromini (1967)
aveva percorso una strada diversa, rinunciando contemporaneamente ai canoni
della ripresa frontale ed alla impaginazione neutra delle immagini nellíintento
di restituire e suggerire una lettura visualmente problematica di queste
architetture; sulla stessa traccia si era posto il precedente lavoro
fotografico di Giorgio Jano dedicato alle Architetture Barocche in Piemonte
( 1988) firmato con Domenico Prola ed Enrico Peyrot , in cui il lavoro
fotografico mostrava esplicitamente la volontà di sondare
i limiti dellíapparato fotografico e di ìrivedere, ripensare e, spesso,
rifiutare gran parte dei dogmi su cui poggia la prassi e la norma della
tradizionale ripresa fotografica díarchitetturaî .
Qui infatti, come nelle più recenti immagini che presentiamo
e che costituiscono la prosecuzione e líampliamento di quel primo
progetto, la fotografia di architettura si interroga sul suo stesso farsi
e mette ogni volta in discussione i propri presupposti e modi operativi,
i propri strumenti, che sono scelti (e progettati a volte) per consentire
líapertura di unëindagine condotta sul filo di una consonanza profonda
con la logica di questi spazi.
Ecco allora queste anamorfosi fotografiche che trascrivono sulle grandi
pellicole piane la complessa volumetria ed il sinuoso andamento delle trabeazioni
degli interni barocchi, caverne rigorosamente fantastiche che si
trasformano a volte in camere di luce e come tali vengono colte da uno
strumento - quello fotografico - che discende direttamente da quella
camera obscura così strettamente legata alla cultura seicentesca.
Ecco le riprese zenitali portate alle conseguenze estreme dallíuso del
grandangolare: immagini totalmente coinvolgenti che non pretendono di restituire
la percezione consueta, umana dello spazio, ma generano una esperienza
nuova, possibile solo per il tramite della macchina ma ciononostante feconda
di stimoli ulteriori che ritornano a noi, disponibili per nuove suggestioni
ed elaborazioni critiche.
Torino. Palazzo Carignano
Torino. Cappella della Sindone
Líuso del fish-eye poi, con le sue deformazioni sferiche tanto aberranti
quanto geometricamente determinate, si allontana ancora di più da
questo intero mondo di convenzioni rappresentative fino a mettere in discussione
la nostra capacità di riconoscere e leggerne il contenuto in un
solo colpo díocchio; immagini che mostrano un mondo di curve che si contrappone
violentemente alla nostra esperienza, culturale e consueta, di spazi riconducibili
alla chiarezza cartesiana delle ortogonali.
Ci troviamo di fronte ad un uso non convenzionale del linguaggio fotografico,
ad una tendenza ad organizzare la ri-presa in funzione della sua capacità
(che nasce dalla coscienza progettuale del fotografo, naturalmente) di
modificare la nostra percezione dello spazio architettonico, in un parallelo
niente affatto casuale con líuso antidogmatico del linguaggio architettonico
classico operato dagli architetti barocchi, per produrre figure in cui
ìle regole delle proporzioni non sono rispettate e tutto è rappresentato
secondo il capriccio dellíartistaî (1771), realizzando quella apparente
contraddizione in termini che possiamo chiamare ìfotografia baroccaî, nella
quale temi e modi della rappresentazione aderiscono tra loro in un continuo
dialogo e sfida, dove la regolarità ottico geometrica del sistema
fotografico rivela la sua natura di prodotto storicamente e culturalmente
determinato, passibile di esplorazioni individualmente differenti, qui
apparentemente ìirregolari, bizzarre, inegualiî (1740) ma sempre legittime
e culturalmente motivate, vive. La sua supposta neutralità documentaria
svela infine in modo preciso e chiaro la sua funzione più complessa
e vera di strumento di visione, dando corpo alle precise parole di
Ernst Gombrich: ìIl mondo dellíesperienza visiva è infinito, nella
sua varietà e ricchezza. Líarte può correttamente riprodurre
in codice la realtà, eppure , paradossalmente, non cíè nulla
che possa farci temere che gli artisti debbano un giorno smettere di rivelarci
sempre nuovi aspetti di questa esperienza inesauribile.î