APPUNTI DI VIAGGIO

di Paolo Zizich


Raccontare di un viaggio in Mongolia, descrivere la forza di emozioni, colori, profumi e il mistero di spazi immensi viene più facile ad un poeta piuttosto che ad un cantante come me, ma è un gesto dovuto verso chi mi ha accolto con tanto rispetto ed affetto
Quando mi giunse la proposta di essere il primo cantante italiano a recarsi in Mongolia per partecipare al primo Festival dedicato al compositore Giacomo Puccini ed organizzato ad Ulan Bator, capitale di questo Stato, accettai con entusiasmo. Tale invito mi giungeva dal prof. Giorgio Blasco, Direttore del Conservatorio di Trieste e responsabile degli scambi culturali tra l'Italia e la Mongolia e seguiva quello dell'anno precedente quando, in compagnia del prof. Blasco mi ero recato nella Corea del Nord per una serie di concerti. Questa volta però si trattava di interpretare un'opera completa, inserita con "TOSCA" e "TURANDOT" nel cartellone del festival pucciniano, cioè "MADAMA BUTTERFLY", beniamina del pubblico di tutto il mondo.

La Mongolia ! Terra d'aventura, nel nostro immaginario popolata da guerrieri perennemente a cavallo, vestiti di pelli e con un piglio terrificante !

Partii, novello esploratore occidentale, convinto di portare una ventata di cultura musicale e un pò del bagaglio della nostra tradizione interpretativa. Quanta presunzione da parte mia !

Dopo un viaggio aereo, tra scali vari, di circa venti ore, giunsi ad Ulan Bator, ma non vidi ad attendermi nessun guerriero a cavallo vestito come immaginavo, bensì persone assai cordiali vestite all'occidentale. Ciò che mi colpì immediatamente fu la semplicità e la disponibilità di questa gente.

Mi recai quasi subito al Teatro dell'Opera e Balletto di Ulan Bator, bella e severa costruzione che sorge sulla piazza principale della capitale, dedicata all'eroe mongolo Suhbaatar. La piazza era coperta di manifesti con il mio nome scritto in caratteri curiosi e per me quasi illeggibili e tali manifesti non erano stampati, ma dipinti a mano in splendidi e sgargianti colori. Capii allora di essere un ospite atteso e lo capii ancor più quando, accogliendomi in Teatro, il Direttore M° Erdenebulgan mi diede il benvenuto con un brindisi davanti al ritratto di Gengis Khan.

Per un attimo fui catapultato indietro nei secoli e, come in una visione onirica, immaginai di essere un nuovo Marco Polo davanti al Gran Khan ! Attendevo con impazienza l'incontro con le maestranze del Teatro, fissato per il giorno dopo, quando si sarebbe svolta la prima e unica prova, in pratica già una "generale" della "BUTTERFLY". Giunsi in Teatro piuttosto teso, data la responsabilità del ruolo che dovevo affrontare e preoccupato per il fatto che i miei colleghi avrebbero cantato nella loro lingua, mentre io avrei dovuto cantare in italiano.

Ma la tensione, ben presto, si allentò: trovai i miei colleghi preparatissimi e anche l'orchestra, guidata da un direttore cinese, mi sorprese per la cura con cui sapeva di poter interpretare Puccini. La mia presenza suscitava interesse e curiosità. i cantanti osservavano come mi muovevo sul palcoscenico per notare se ci fosse differenza fra la loro gestualità, a dire il vero un pò stereotipata, e la mia, più libera e istintiva. Ma la magia della musica, unico linguaggio universale, fu capace di abbattere ogni barriera e due lingue così diverse, due culture così distanti tra loro si fusero per dar vita alla tragedia della piccola Butterfly, tradita da uno straniero come me in quel momento.

La prima e unica rappresentazione di "BUTTERFLY", che andò in scena la sera successiva, fu un trionfo e nel finale le vere lacrime di Pinkerton e di Butterfly si unirono agli applausi di un pubblico tutto in piedi.

Il Grand Gala, che avrebbe dovuto chiudere il Festival due giorni dopo, fu anticipato di un giorno per darmi la possibilità di esibirmi ancora (il viaggio di ritorno infatti era già stato fissato). Alla fine del concerto, dopo aver cantato "O' Sole Mio", inno nazionale dell'Italia all'estero, fui salutato e ringraziato pubblicamente con l'offerta di latte di cammello in una coppa d'argento appoggiata su una sciarpa di seta turchese, simbolo di amicizia sacra.

Già quella sera ebbi netta la sensazione che non avrei potuto dimentica quei giorni, nè quella breve, intensa cerimonia.

Al mio rientro in italia, alla così detta civiltà occidentale, mi mancava il rumore del vento della steppa e quegli immensi spazi vuoti dove l'occhio può perdersi all'infinito.

Spesso, nel mio studio, ripenso con nostalgia a quegli amici lontani nella speranza di poter presto lavorare con loro.


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