Avrei dovuto conoscerne la storia, le difficoltà in patria per il colore bianco della pelle, gli anni da griot, le collaborazioni con i più grandi artisti, perché SALIF KEITA, principe albino del Mali, discendente degli antichi Mandingo, è un personaggio che affascina prima ancora di salire sul palco; invece la sera del concerto io mi preparavo ad ascoltare soltanto della buona musica etnica. La gente nera fuori dal locale sembrava sapere qualcosa di più, ad esempio che quello a cui stavamo per assistere non sarebbe stato un semplice concerto, ma una festa da preparare con cura. Avevano formato tanti capannelli, come la domenica a Porta Palazzo, e avevano indossato i vestiti più ricchi. Sorridevano, senza entrare di corsa nella sala, o spazientirsi, come me, perché il concerto iniziava in ritardo.
Dentro occupavano lo spazio davanti al palco, ma non erano in maggioranza come mi era sembrato all'inizio. IL locale era pieno, anche ai lati e al piano superiore. Spente le luci e la musica di sottofondo, appena è entrato il gruppo ho capito subito di avere sbagliato l'approccio alla serata: era evidente che non si stava comunicando una cultura, ma lo sforzo di unire culture diverse, messe allo stesso piano, senza folklorismi o nostalgie etniche.
Del gruppo fanno parte uno spagnolo alle tastiere elettroniche, un brasiliano al sax e clarinetto, due francesi alla batteria e alla chitarra e africani sono il percussionista, il bassista e le due coriste; la loro musica è il risultato di questo difficile sincretismo; inizia con un lento assolo di chitarra blues su un tappeto di musica elettronica, supportato con magnifica discrezione dalla parte ritmica. Prima che io mi rimetta dallo stupore parte il sax, e ritmo e stile della musica cambiano nuovamente. Dopo qualche minuto entra il principe, africano nei vestiti, nel cappello, nella forma del viso, ma bianco, a piedi nudi; si inginocchia, giunge le mani, come per pregare, poi la sua voce, che rompe ogni schema di battute, che dilata i tempi rock della chitarra, per portarla nei tempi più lunghi e antichi delle preghiere, delle litanie. Sembra che venga da un altro tempo quella voce acuta e profonda, davvero avevo i brividi addosso. A volte il rincorrersi degli strumenti, il frenetico aumentare del ritmo delle percussioni e delle danze eleganti delle coriste, l'urlo di Keita, a volte l'atmosfera sottilmente dolce disegnata alla chitarra o al clarinetto, sempre mi colpiva la novità del suono. Ammiravo quella bellezza rara, la facilità e la gioia con cui musicisti straordinari eseguivano un compito così difficile, unire in totale armonia le tecniche e i ritmi più disparati, stavo fermo; ma il modo giusto di partecipare all'evento era senz'altro farsi coinvolgere dalle danze e dal ritmo. Salif Keita alzava a volte le mani al cielo, e con lui i componenti del gruppo e gli africani in sala; forse era solo un saluto, ma non ho osato partecipare.
Seduto su una sedia, dopo aver suonato un pezzo con la chitarra acustica, ha scambiato alcune parole con chi sapeva intendere la sua lingua. Non so cosa abbia detto, ma è stato molto apprezzato. Molti di loro sono saliti sul palco, prima che finisse il concerto; alcune donne ballavano i passi di danza afro insieme alle coriste, altri accompagnavano il canto, parole che sapevano a memoria. Non ho potuto partecipare alla festa ma anche da spettatore esterno è stata una bellissima festa.

n.r.