Luglio-Agosto 1995
ALT!! Fermi la`! Uhm... la valigia in mano, il panama in testa, gli
occhiali da sole, la camicia a fiori... si direbbe che stiate partendo
per le vacanze! Ma vi abbiamo beccato appena in tempo, proprio sulla porta
di casa! Non avrete pensato di squagliarvela senza Interferenze Blu? Se
e` cosi` avete fatto male i conti! Eccoci qua a proporvi l'ultimo numero
ricco di proposte interessanti, tra le quali una maglietta veramente strepi-
tosa! Lo so che siete di fretta perche' state partendo, ma lasciatemi ag-
giungere un'ultima cosa. Quando avrete raggiunto le vostre mete: al mare
o in montagna o in qualsiasi altro posto dove avete deciso di trascorrere
le vacanze, non dimenticatevi di noi: MANDATECI UNA CARTOLINA per favore,
ve ne saremo eternamente grati, e poi la o le piu` belle e spiritose potreb-
bero trovare uno spazio su Interferenze Blu. Quindi sbizzarritevi, nel
limiti della decenza mi raccomando! L'indirizzo lo sapete, e se non lo
sapete lo trovate in ultima pagina, il francobollo... non facciamo i furbini
eh?, e la cartolina non venitemi a raccontare che dove siete andati non
le vendevano! Quelli che le vacanze le hanno gia` fatte oppure rimangono
in citta` dovranno far lavorare un po' di piu` la fantasia. Adesso viene
quella parte in cui io dovrei augurarvi qualcosa... ma mi sono dimenticato
cosa... va be', fa lo stesso arrivederci a Settembre!
Marziobarbolo
RECENSIONI - 360 gradi
ALMAMEGRETTA
Sanacore
(1995, CNI/BMG)
Quando erano apparsi sulla scena nel 1991, qualche critico pigro non
aveva trovato di meglio che inserirli nel gran calderone delle <<posse
italiane>>, in compagnia di gente che, nella stragrande maggioranza dei
casi, non sarebbe andata al di la` di un rap appena decente. E dire che
anche agli albori gli ALMAMEGRETTA non facevano rap, bensi` originalissimo
reggae cantato in italiano, come testimoniato dal singolo Figli di Annibale,
diventato un inno alternativo grazie anche al passaggio in tv su Avan-
zi (all'epoca persino gli Africa Unite, oggi meritatamente campioni del
reggae italiano, cantavano ancora in inglese). Il primo album li aveva
gia` visti alle prese con una dilatazione dub del loro suono, che aveva
dato ottimi risultati. Oggi con SANACORE questa mutazione puo` dirsi comple-
tata, ma questo non va a scapito delle radici mediterranee della loro produ-
zione, che risultano anzi ancor piu` evidenti. Innanzitutto i testi sono
quasi interamente in dialetto napoletano stretto, ma il contrasto con la
musica di derivazione giamaicana e` solo teorico: al gruppo partenopeo
riesce talmente bene questo connubio da farlo apparire perfettamente natura-
le. Esempi ne sono la title-track, in cui non vi e` niente di forzato nel
far convivere una tipica tammurriata impreziosita dalla voce della cantante
tradizionale Giulietta Sacco e una base quasi da ragamuffin; 'Pe'Dint'E
Viche Addo` Nun Trase'O Mare', con un poeticissimo testo di Salvatore Palom-
ba (autore di canzoni classiche stile Sergio Bruni) e una musica che parte
dai Quartieri Spagnoli e approda in Arabia passando per Trenchtown in Gia-
maica.
'Nun Te Scurda`' e 'Se Stuta'O Ffuoco' possiedono una vena melodica
capace di farle apprezzare anche ai fans di Nino D'Angelo (!), mentre
in 'Tempo' la voce simil-telegiornale della speaker introduce un tema por-
tante del disco: la necessita` di lentezza per riprenderci la nostra vita
stritolata dalla frenesia del sistema di vita occidentale. <<Il cuore batte
a 60 battiti al minuto, e nessuno puo` andare piu` veloce del proprio cuore
senza perdere la propria umanita`>>: gli ALMAMEGRETTA mettono in pratica
le proprie parole rallentando i ritmi (mai piu` di 80 battute al minuto)
e avvolgendoci in un'atmosfera seducente e contrassegnata dal trasognato
pulsare del basso e dagli echi del dub.
Che altro dirvi? E' un disco contro tutte le discriminazioni: 'Scioscie
Viento' narra l'incendio del ghetto per extracomunitari di Villa Literno
e 'Nun Te Scurda`' denuncia i tre stereotipi di <<mamma, puttana e brutta
copia d'uomo>> in cui le donne continuano ad essere rinchiuse. A Napoli
sono gia` i beniamini di un vastissimo pubblico: non facciamoci spaventare
dal dialetto e accattiamoci quest'album, veramente <<bello lento>>.
Corvo Rosso
STANDARTE
Standarte
(Black Widow, Italia, 1995)
H. G. Wells, maestro precursore della letteratura fantastica, con
il suo celebre romanzo <<La macchina del tempo>> seppe mostrare a tutti
noi che le barriere spazio-temporali potevano in qualche modo essere abbat-
tute. Oggi, moltissimi anni dopo, cambiato lo scenario (niente paura, non
siamo ad una lezione di storia!) ed il periodo storico, ci prova - o meglio,
ci riprova - anche Daniele Caputo. Per chi non lo conoscesse, si tratta
di un giornalista/batterista/appassionato di psichedelia degli anni sessan-
ta, che gia` da una decina di anni or sono diede vita ad un progetto (i
Birdmen of Alcatraz) dalla vita piuttosto breve ma intensa. Ora riparte,
con altri compagni di viaggio, in direzione di sonorita` diverse ma sempre
re'tro. Ed e` subito centro. Pur con una strumentazione ridotta, dove una
chitarra tanto fugace quanto geniale appare come un'adorabile intrusa,
il vulcanico batterista/compositore fa da deus ex machina (finezza!) della
situazione. Sua e` anche la voce, molto personale e di grande effetto so-
prattutto negli interludi recitati tra un pezzo e l'altro. Luci puntate
anche sulle tastiere di Michele Profeti, cultore e tramandatore di quel
suono a base di Hammon che rese celebri i vari Rare Bird, Procol Harum
ed Atomic Rooster. A proposito di questi ultimi: il disco e` dedicato alla
memoria di Vincent Crane, loro tastierista e leader nonche' indimenticato
alter ego del <<dio del fuoco>> Arthur Brown nel suo Crazy World del 1968.
Fuori dal tempo? E chi se ne frega. Grazie, Daniele.
io
PINO DANIELE
Non calpestare i fiori nel deserto
(1995)
Adesso tocca a noi!
Dopo varie indecisioni, facendo capolino tra cirrocumuli, questo nordi-
co sole si e` finalmente deciso a percorrere tutta la sua "erta infuocata",
deumidificandoci almeno parzialmente le ossa. Tempo di gite, tempo di vacan-
ze ed ecco puntuali arrivano la chitarra e la voce di Pino Daniele a musica-
re e colorire un altro periodo che sommeremo ai nostri ricordi. NON CALPE-
STARE I FIORI NEL DESERTO e` il titolo del suo ultimo lavoro prodotto e
stampato nel 1995. In questo disco si sente un Pino Daniele innovativo,
sicuramente diverso dai precedenti lavori, che conserva, pero`, la matrice
fondamentale del grande cuore partenopeo. Un cuore blues, un pulsare di
strada che lo ha sempre contraddistinto rendendolo riconoscibile al primo
ascolto. Buon vecchio Pino, sempre aperto a tutte le tematiche, lo sguardo
sempre in avanti, niente lasciato al caso. E questa volta ha chiamato a
collaborare Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti, ai due brani 'Stress'
e 'Deserto di parole', quasi a testimoniare la maturazione artistica di
un personaggio nato quasi per dispetto. Irene Grandi e` la voce femminile
in 'Se Mi Vuoi' e Maria Pia De Vito organizza cori e indecisioni vocali
in 'Fumo nero'. Ovidio Baldassarri, alchimista informatico suona le tastiere
in 'Resta, resta cu'mme' e in 'Se amore sara`', mentre Miki Manieri da
un'impronta jazzistica con le sue vibes in 'Bambina' e 'Stress'. Due batte-
risti d'eccezione si dividono diligentemente in questo album i brani: Manu
Katche' e Lele Melotti; validissimi turnisti che si ha spesso il piacere
di incontrare a fianco dei nomi piu` altisonanti del panorama musicale
europeo. Rita Marcotulli, pianista e arrangiatrice da`, insieme al batteri-
sta Jimmy Earl, il contributo finale, per donare agli ascoltatori vari
momenti rifiniti di calde impulsivita`. Il mediterraneo, questa grande
via di comunicazione, questa girandola di suoni, legni, tamburi, colori,
sapori.
E` proprio lui che da` l'impulso iniziale per la crescita di ogni
lavoro di Pino Daniele, ed e` l'assenza di barriere tipicamente napoletana,
facilmente riconoscibile in ogni momento di questo disco, che fa si che
vada bene per tutte le latitudini.
Buone cose, buone vacanze, buon ascolto!
Stormbringer
MOTORPSYCHO
Timothy's Monster
(2CD, 1995 Flying rec.)
Norvegia. Terra di montagne, ghiacci, foreste e fiordi, ove la natura
ha messo in scena uno dei migliori spettacoli dell'intero pianeta, e anche
la musica rock ivi prodotta pare influenzata dall'ambiente naturale. Il
death/black metal di gruppi come Dark Throne ed Emperor privilegia il timore
e l'adorazione pagana quale unica via di fronte all'immensita` e alla
possenza del Grande Nord che pare ridurre l'uomo a un fuscello in balia
di eventi terribili e incontrollabili. I MOTORPSYCHO invece riescono a
unirvi il senso di armonia e pace diffuso dal respiro delle immense foreste
di abeti e della tundra innevata illuminata dalla luna del grande inverno
boreale. Infatti con il loro precedente DEMON BOX (1993), che li ha fatti
conoscere anche al di fuori della Scandinavia, hanno sublimato una formula
sonora comprendente brani di grunge cupo e dissonante e ariose ballate
psichedeliche. Il loro nuovo lavoro Timothy's Monster si presenta con ancora
maggiori ambizioni, a partire dalla mole (oltre 100 minuti), ma le giustifi-
ca tutte. Qui i MOTORPSYCHO abbandonano quasi completamente il loro lato
piu` <<rumoroso>> e aspro e mettono a fuoco altri due tipi di composizione:
la loro idea di canzone acustica o semiacustica e la lunga suite psichedeli-
ca, a cui dedicano rispettivamente il primo e il secondo cd della loro
monumentale opera. Cosi` la prima parte offre 11 canzoni in bilico tra
refrains melodici sovrastati pero` da una base ritmica <<esagerata>> ('A
Shrug & Fistful', 'Kill Someday'), pop songs acustiche e delicatamente
malinconiche ('Feel', 'Watersound'), divagazioni dissonanti ('On My Pil-
low'), e persino passaggi anni '60 con tanto di tastierine e coretti in
tema ('Beautiful Sister'). E' in loro un certo qual feeling sixties (a
tratti mi ricordano i Jefferson Airplane) ma unito a un gusto per la melodia
dissonante e per una ritmica possente che li rende del tutto originali:
resta difficile incasellare la loro musica in una delle categorie preconfe-
zionate dai discografici. Il secondo cd e` formato da quattro soli brani,
che peraltro hanno una considerevole durata. Si parte con la straordina-
ria 'The Wheel', quasi 17 minuti che mettono assieme i Led Zeppelin di <<No
Quarter>> con i Kyuss. Infatti a un'intro di chitarra arpeggiata e contrap-
puntata dai suoni tremolanti di una tastiera (o forse un'altra chitarra
con qualche effetto?) fa seguito l'entrata in scena della batteria e di
un basso iperamplificato che con il suo incedere poderoso ed ipnotico cambia
totalmente faccia al brano, trasformandolo nell'immagine sonora dell'avanza-
ta lenta e cadenzata di un ciclopico mammuth, mentre la voce rimane quasi
sullo sfondo a ripetere una litania psichedelica. Notevoli anche 'Sungravy',
suadente ballata acustica con contorno di archi, e 'The Golden Core', quasi
sinfonica nelle sue aperture melodiche (specie nel finale, assolutamente
incantevole) e con l'azzeccata sovrapposizione di una voce femminile al
cantato del frontman Bent. Inevitabile a questo punto una piccola caduta
di tono rispetto alle altezze siderali cui ci avevano abituato i pezzi
precedenti: 'Grindstone' ripercorre i territori piu` oscuri del loro suono
con risultati buoni ma non eccezionali.
Fatte le somme, risulta comunque che la band norvegese ha sfornato
un album memorabile, che a mio parere le conquistera` sicuramente un posto
d'onore nella storia del rock anni '90. Per quanto riguarda il grande suc-
cesso di vendite, manca loro quella dose di ruffianeria necessaria per
rivestire le loro godibili melodie con una base ritmica piu` abbordabile.
Ma se i Primus con una musica folle e non classificabile e una voce da
cartoni animati sono giunti al quarto posto delle classifiche USA, non
si puo` mai dire...
Corvo Rosso
WHITE ZOMBIE
<<Astro-Creep: 2000>>
(CD, Geffen, 1995)
PRIMUS
<<Tales from the punchbowl>>
(CD, Interscope, 1995)
Dev'essere stato un vero smacco, per gli affezionati dei Primal Scream,
constatare che nel sound dei propri beniamini, sotto la patina dance, si
celano i Rolling Stones o i caldi gruppi sudisti dei '70. Di fronte al
fenomeno inesauribile dei cloni, diviene scontato presagire un futuro non
troppo roseo per il rock. Manca si` l'inventiva. Ma c'e` pure carenza di
quell'oltraggiosita`, che non sia nominale, alla Frank Zappa, delle bizzar-
rie dei Fungo Mungo, di un modo d'essere sgangherati quanto i Butthole
Surfers. In sostanza, il coraggio di mostrarsi incoscienti. Lo e` in pieno
questo disco dei WHITE ZOMBIE. Il gruppo americano e` straordinariamente
ingenuo, eppure abilissimo a sguazzare nella melma della comunicazione
quotidiana. Adoratori della spazzatura televisiva (MTV, Beavis & Butthead
e - perche` no? - il TG4), si compiacciono di rotolare nel fango del cattivo
gusto e dell'eccesso. Tanto per esemplificare, il cantante ed ex porno-fu-
mettista Rob Zombie trova l'ispirazione soltanto nelle sue giornaliere
otto ore di TV, quasi stesse ricercando una sorta di stato ipnotico e crea-
tivo da artista surrealista. E i risultati si sentono. Non stupitevi se
un certo metal <<rullante>>, qualche schitarrata informe (in 'Real Solution
n.9') o il frequentissimo andamento pseudo-trash sanno, volutamente, di
conformismo. Cio` che conta e` lo sbriciolarsi di questa massicciata
nell'angoscia di ritmi techno, hip-hop, sospiri lascivi, echi tribali,
cori di monaci e melodie orientaleggianti. Ascoltate, in 'Super Charger
Heaven', come il cantante riesca ad espellere tutto lo schifo di immagini
e di suoni ruminati, dentro il verso centrale <<devil man, running in my
head>>. La musica dei WHITE ZOMBIE e` complessa, frantumata, discontinua:
pure lo sono le innumerevoli suggestioni che alterano il nostro cervello.
Per questo, meglio dei piu` talentuosi NINE INCH NAILS o delle incursioni
elettro-noires dei MINISTRY, possiamo dire che e` un rarissimo esempio
di gruppo estremista. Se nei White Zombie e` la societa` che aliena l'uomo,
nei californiani PRIMUS accade curiosamente l'opposto. Questo emerge dal
loro quinto disco. Non e` semplice spiegare il loro pensiero, me ne rendo
conto. Non e` semplice capire questo sound inconfondibile, contaminato,
talvolta scarno, sempre uguale e sempre diverso. Di certo il frutto di
tre menti malate. Sara` l'infernale bassista Les Claypool, che riconoscerete
dal bavoso sorriso inebetitito, sempre intento a giocherellare con la preca-
ria voce nasale. Saranno gli assoli-fiume di Larry <<Bastardo>> Lalonde.
Sara` il lavoro oscuro del tamburino Herb. Comunque sia, il trio ci propone
un cammino sonoro al limite della stonatura e dell'allucinazione. Sensazione
in cui si incastrano perfettamente le loro assurde storie di animali e
di personaggi altamente improbabili, mari di formaggio, panini di vetro
nonche` elefanti bimotore. Ci si accorge presto che la realta` primusiana
non e` solo fantasia, ma un mondo deformato e deformabile a misura dei
nostri diversi ragionamenti. Per questo il disco non trova mai un attimo
di pausa. Si passa rapidi dallo scherzo country ('De Anza Jig') al valzer
decadente ('Wynona's Big Brown Beaver'), dai rumori di una cyber-fattoria
del 3000 ('Space Farm') all'impossibile colonna sonora ('Hellhound 17 1/2').
Pero` e` sempre il basso, anche quando smette di funkeggiare, il vero gene-
ratore di idee: punteggia le proprie ossessioni in 'Prof. Nutbutter', si
distorce in 'On hte Tweek Again', si scarnifica in 'Soutbound Pachiderm' -
forse il pezzo migliore - dove sembra gemellarsi con la chitarra e con
la flebile voce dello stesso Les. In fondo, i PRIMUS non fanno nulla di
straordinario. Solamente, al di la` di facili nostalgie o di consunti schemi
corss-over, musicano il loro folle pensiero. ...ed ora qualcuno provi a
far di meglio!
Vincenzo Capitone
TERENCE TRENT D'ARBY
Vibrator
(1995)
Il trono della musica nera USA, occupato incontrastatamente per anni
da Prince, pare oggi vacante, in seguito ai suoi confusi cambi di nome
ed alle sue ultime prove discografiche, di cui si stenta a tenere il conto:
il principino di Minneapolis ha, nell'ultimo biennio, inflazionato il merca-
to senza peraltro raggiungere i consueti livelli di vendite.
Prende cosi` consistenza la candidatura di TERENCE TRENT D'ARBY, che
si era rivelato verso la fine degli anni '80 con un ottimo album d'esordio
contenente piccole gemme soul-dance come Dance Little Sister o Wishing
Well, ma poi pareva essersi perso per strada, almeno per quanto riguarda
il successo commerciale dei due successivi lavori. Oggi e` tornato sulla
scena con un look ossigenato e un quarto album annunciato come piu` aggres-
sivo, quasi hard rock.
Ed in effetti i primi due brani 'Vibrator' e 'Supermodel Sandwich'
sono belli tirati; la title track in particolare sfoggia un bel riff di
chitarra che spezza l'andamento funky del brano, ed alcuni stacchetti e
rallentamenti dove il suono del sitar costruisce un'atmosfera quasi psiche-
delica. Successivamente il clima si addolcisce ma l'innegabile talento
del cantante e polistrumentista newyorkese trova ancora modo di esprimersi
in pezzi come 'C.Y.F.M.L.A.Y.', in cui suona tutti gli strumenti e <<condi-
sce>> il groove con una voce in falsetto alla Prince. 'Supermodel Sandwich
w/Cheese', funky e languida allo stesso tempo con la voce che passa da
timbriche profonde quasi alla Barry White ad accenti stile Michael
Jackson. 'We Don't Have That Much Time Together' punta invece su ritmi
latineggianti mentre con 'Holding On To You' si vira decisamente verso
il lento, peraltro con gusto, senza eccessive quantita` di miele e con
una chitarra sempre presente e graffiante al momento giusto. Azzeccata
anche la scelta del grande sax di Branford Marsalis in Undeniably, che
riesce a trasformare una ballad statica ed un po' noiosa in un pezzo jazza-
to, pieno di passione e di feeling. Bisogna comunque dire che TTD e` fin
troppo conscio delle sue qualita` e talvolta la presunzione gli gioca un
brutto scherzo, come in 'If You Go Before Me', inutile lento alla Barbra
Streisand.
In definitiva, il maggior pregio di VIBRATOR e` la capacita` di passare
attraverso vari generi musicali mantenendosi comunque piacevole e mai bana-
le; l'eclettismo si manifesta anche nell'ambito di singoli pezzi in cui
sono frequenti cambi di tempo e divagazioni che a volte sommergono il tema
principale (vedi 'Resurrection', con inserti di flauto e voci in timbro
di basso). Purtroppo Michael Jackson, la cui statura artistica e` a mio
parere inferiore, con il suo <<History>> lo surclassera` sicuramente in
tema di vendite: forse queste canzoni sono gia` troppo sofisticate per
un pubblico che cerca solo la facile melodia.
Corvo Rosso
THE ROBERT CRAY BAND
Some Rainy Morning
(Polygram, USA)
Eccoci di fronte all'ultima fatica del golden boy del blues, ladies
and gentlemen, the supreme, the dynamic ROBERT CRAY!! Dopo questa presenta-
zione cosi` roboante, possiamo iniziare a parlare del piu` controverso,
contestato, amato, odiato bluesman oggi in circolazione. Personalmente,
penso che CRAY sia il piu` grande dell'ultima generazione di musicisti,
soprattutto per quanto riguarda la creativita`, senza, tuttavia, trascurare
la sua personale tecnica chitarristica. La fondamentale differenza tra
CRAY e tutti gli altri e` riposta nella sua capacita` di scrivere delle
supreme schifezze ma di farlo con grande classe, qualita` pressoche' assente
tra suoi coetanei (anche perche` ve ne sono alcuni che non ne scrivono,
ascoltate l'ultimo Fernando Jones, giovane e promettente virgulto di Chica-
go, allievo del grande Lefty Dizz, prematuramente scomparso). In ogni caso,
il nostro e`, al giorno d'oggi, il piu` originale compositore di blues
in circolazione e, per quanto lo si possa odiare, nessuno lo puo` negare.
La sua sensibilita` artistica, fortunatamente, lo sta avvicinando sempre
di piu` al blues, quello vero, tralasciando quegli insulsi esperimenti
pop (tipo Eric Clapton, periodo Lori Del Santo), che caratterizzavano i
suoi primi album. Gia` nel suo penultimo 'Shame + a sin' si notava un con-
creto avvicinamento al blues, avvicinamento che, pero`, non puo` dirsi
completato con questo SOME RAINY MORNING. Rimangono, infatti, alcune sbava-
ture (il brano 'Little boy big', per esempio, privo del consueto mordente),
che non ci permettono di festeggiare la "nascita" di un bluesman a tutti
gli effetti. Scherzi a parte, il buon CRAY, in questo suo ultimo lavoro,
e`, come sempre, nostra croce e delizia. Sublime, assolutamente insuperabile
nei lenti come le prime tre tracce del cd, un po' meno in brani quali 'Tell
the Landlord' e la gia` citata 'Little boy big'. Le paludose e intrigan-
ti 'I'll go on' e 'Steppin' out', sinuose e sensuali come le mani di una
bella donna, valgono, da sole, l'acquisto dell'album. Ecco perche' adoro
Robert Cray: ogni sua canzone e` unica e inimitabile, ha una voce densa
e calda, assolutamente strepitosa, un chitarrismo acuto e pungente, tanto
da trafiggervi da parte a parte e, last but not least, le donne si "scalda-
no" (e voi di conseguenza!) quando ascoltano la sua musica, si dimenano,
sospirano, ansimano cosi` tanto da farvi scoppiare le vene. O.k., o.k.,
siete sudati e inquieti, vero? Non indugiate, correte ad ascoltare l'ultimo
lavoro di ROBERT CRAY.
T-Bone Malone
TEENAGE FANCLUB
Grand Prix
(Creation, 1995, LP-CD)
In Scozia ci sono quattro ragazzi che si divertono a suonare e scrivere
ballate che sanno di anni sessanta, di Byrds e di Big Star. Canzoni, niente
di piu`, niente di meno.
Si chiamano TEENAGE FANCLUB e sono arrivati al quarto album, il cui
titolo certamente non illustra, richiamando in qualche modo la velocita`,
il loro modo di fare musica (di sicuro 'Grand Prix' e` stata solo una scusa
per poter mettere un bolide di formula 1 sulla copertina).
Non e` il loro disco migliore (il primo, A CATHOLIC EDUCATION, li
batte tutti), ma c'e` sicuramente stato un grosso passo in avanti rispetto
a THIRTEEN del 1993, soprattutto a livello compositivo. Se il suono infatti
risulta semplice e spoglio di rumori come mai lo era stato nei lavori
precedenti, questa volta la loro capacita` di creare melodie si esalta
in quasi tutti i tredici brani, che si avvicinano alla perfezione pop.
E` veramente difficile scegliere i pezzi migliori: 'About You', i singoli
'Sparky's Dream' e 'Mellow Doubt' (ballad semi-acustica al miele), 'Verisi-
militude', 'Neil Jung', 'Discolite' e 'I Gotta Know' sono tutte estremamente
piacevoli, zucchero per le orecchie.
I limiti di questo ellepi` sono forse la poca originalita` (chi conosce
i Big Star non potra` fare a meno di notarlo) e l'eccessiva ripetitivita`
delle formule che ad alcuni potra` risultare un po' tediosa, ma in quest'e-
poca "grunge" un bel mucchio di canzoni che inteneriscono il cuore e non
vogliono spiegare nulla a nessuno sono proprio quello che ci vuole. La
poesia non e` mai troppa.
Michele Apicella
Punto fugato - IL BUON VECCHIO MARK
(Articolo disperso, sorry)
INTERFERENZE blu
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ANTHONY BRAXTON
A smentire l'opinione che il jazz in generale e quello dei nostri
contemporanei in particolare si possa schematicamente distinguere in due
versanti, caratterizzato il primo dai segni di una continuita` e fedelta`
ai modelli originari, turbato il secondo da un fondo di inesauribile
conversione, interviene ad esempio il brano di Anthony Braxton dall'anonimo
titolo PIECE THREE *. Il movente, ascrivibile a una sorta di grammatica
ironica della musica, ci sembra di poterlo leggere fra le congetture di
Braxton sulla composizione. Composizione come versione compendiata della
braxtoniana ricerca riguardante l'<<open-ended improvisation format>>;
composizione, ancora, come traslazione di eventi a favore di una <<open-en-
ded improvisational situation>>, che torna a risuonarci dentro, attraversata
dai suoni di piu` strumenti fra loro in opposizione; quindi anche composi-
zione quale mezzo di espressione, veicolo di eventi e sequenze secondo
un contesto concettuale post-weberiano ma non 'seriale'. E' cio` che si
avverte soprattutto ascoltando PIECE THREE, una musica da parata che non
essendo conseguente, ci dispone a domandare, forse solo perche' si e` dispo-
sti ad indagare quanto le <<regole>> non sovvengano piu`. L'interesse per
questo tipo di musica, tanto tradizionale, s'intende nella possibilita`
d'uno sbocco estensivo delle sue regole, appunto, e nella concorde parteci-
pazione a legittimare una forma musicale degna in se' di essere perseguita.
Dunque tale l'intento di Braxton. In questo brano, in particolare, risulta
una composizione strutturata su tre estensioni ed anche l'ottavino di John
Faddis rientra in un contesto innovativo rispetto alla notazione tradiziona-
le dell'<<assolo>>. Nell'insieme, pero`, oltre i citati caratteri tecnici
si assiste contenutisticamente a un declinarsi delle forme canoniche della
<<parade music>> in ironia scanzonata quanto raffinata. Non si cerchi dunque
in PIECE THREE un richiamo a arie del passato (John Cage), piuttosto misura
e fantasia, talvolta messaggi subliminali che callidamente s'intrecciano.
Cos'altro, del resto, si puo` chiedere al Jazz <<contemporaneo>> se non
di assomigliare a cio` che tutti vorremmo ascoltare: a un progetto di gra-
tuita bellezza.
DECUS
Schema del brano: PIECE THREE (6:43) ____
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22______________\/___M
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H03
(*) L'idea di scrivere un articolo su un singolo brano potrebbe trarre
in inganno il lettore, facendo passare il titolo della singola realizzazione
per il tutto, ossia per l'intero album del 1976. Creando uno sconcerto
e una sproporzione nell'ambito altamente creativo del Braxton anni settanta.
Pericolo raggirato, spero, con la mia insistenza sulla parola 'brano' e
ricordandovi, ora, il contesto di provenienza. Passando al setaccio quegli
anni, minuziosa e` la cura di Braxton rivolta al singolo brano messo in
musica da un'ampia orchestra che gode indistintamente dei progressi apporta-
ti dal lavoro di Ellington-Henderson-Mingus-Coleman e con essi ci gioca.
Il concetto di musica che se ne ricava e` quindi riassumibile nel motto
'Creative Orchestra Music' tanto caro all'autore. Il brano PIECE THREE
e` contenuto nel CD: ANTHONY BRAXTON <<Creative Orchestra Music>> 1976,
Bluebird.
CASCINA MACONDO Musicarteatro Culture Associate ON THE ROAD MUSIC
Blues della Germania
E` uscito un nuovo Cd, e` un blues sincero, pieno di ritmo, convincente
ed entusiasmante; tradizionale ma consueto. Nel ricordo di Walter Horton,
Robert Johnson, Blind Blake, Sonny Terry, Son House e molti altri della
storia del Blues. Il Cd e` Goodtime Music degli HOOTIN' THE BLUES, gruppo
tedesco. La loro musica ha origini nel blues tradizionale, con influssi
di musicisti come Ry Cooder e Charlie Musselwhite. Il gruppo e` nato nell'88
a Munster. Hanno suonato in varie citta` tra cui Danzica, Varsavia, Torun,
Praga, Vienna, Brno, con partecipazioni radiofoniche e televisive. GERD
Gorke (armonica e voce) suona professionalmente blues dall'83; tra i miglio-
ri in Europa, ha fondato la Q-Blues Band, suona nei Blues Mafia e ha lavora-
to con, tra gli altri, Jeanne Carolle, Luoisiana Red, Angela Brown, Johnny
Hartsman. GUNTER LEIFELD-STRIKKELING (voce, chitarra, banjo, mandolino)
sulla scena da molti anni, ha suonato chitarra e banjo nella Chicken Skin
String Band. Suona molto il Dobro, spesso con la tecnica "slide" del bottle-
neck. RUPERT PFEIFFER (voce, chitarra) ha studiato per cinque anni chitarra
jazz: ha suonato con i Bluespray e con la cantante Meike Kohne. Puo` vantare
numerose registrazioni radiofoniche e discografiche e molti anni di insegna-
mento.
Ottime le interpretazioni dei brani di Robert Johnson con un Walking
Blues che inizia con un assolo di Gerd e la sua voce di basso profondo,
che ha molto di nero e niente di tedesco. Tutti i brani hanno un tiro mici-
diale e la costante del feeling di una band che con tre elementi riesce
a riempire e a convincere. Tre personalita` di spicco e nessuno sotto.
Ecco un gruppo dove non c'e` la star, ma trae la propria forza dal bilancia-
mento dei ruoli. Gunter: il piu` Woody Guthrie, il piu` festaiolo, il poli-
strumentista con una voce molto "rurale". Rupert: il mago della chitarra,
il punto di equilibrio, voce baritonale. Gerd: il pazzo, sicuramente musici-
sta in grado di poter primeggiare in ogni formazione, ma che invece sceglie
il dialogo e il lavoro di squadra. Un album mozzafiato e unico nel suo
genere, diciotto (e non son pochi) brani che scorrono all'ascolto senza
stancare, con continui capovolgimenti di fronte. 64 minuti e 40 secondi
di genuinita` e di vero Blues. Comunque vada ci troviamo di fronte ad una
delle piu` belle realta` del blues acustico europeo composto da musicisti
del circuito degli artisti da strada. Dove e` nato il Blues.
Beppe Finello
Per concerti, dischi o altro materiale telefonate allo 011/9411495
oppure in redazione.
Punto fugato - L'IMPENSABILE CONTAMINAZIONE
Puo` la timida, gentile sinfonia connubiare con l'aspro suono dell'ac-
ciaio? E puo` l'ascetico viandante degli Spazi Onirici incrociare la propria
strada col treno sferragliante che attraversa il pianeta a tutta velocita`?
Sono domande che ricorrono frequentemente, anche se in termini assai piu`
terreni, tra i seguaci di due generi musicali (solo apparentemente?) agli
antipodi: il progressive, cioe` una musica pseudo barocca spesso con marcati
riferimenti classici, e l'heavy metal, decisamente piu` moderno, evoluzione
ancor piu` grintosa del suono hard di due decadi orsono. Da una parte ta-
stiere sognanti, eteree prendono per mano melodie ora spaziali, ora sinfoni-
che; dall'altra chitarre aspre, lancinanti, perennemente impegnate in gare
di velocita` e distorsione e voci sataniche da mettere i brividi. Si`,
paiono posizioni inconciliabili; eppure a qualcuno e` riuscita l'ardua
impresa di coniugarle. Parlo di quel movimento sorto ad inizio anni '90
grazie all'attivita` di gruppi ormai <<quasi>> celebri quali MAGELLAN,
SHADOW GALLERY, DREAM THEATER, etc. Soprattutto questi ultimi, notissimi
in Italia per i molti concerti tenuti nella Penisola, sono ormai ritenuti
i portabandiera del neonato prog metal (o metal prog, a seconda dei punti
di vista...). A dire il vero, l'idea non e` proprio nuovissima, dato che
gia` 15-20 anni fa i canadesi RUSH muovevano importanti passi in tale dire-
zione, e con loro una miriade di altri complessi ormai sepolti nel dimenti-
catoio. Ma torniamo a DREAM THEATER & c. Secondo chi scrive, ci troviamo
dinanzi a strumentisti tecnicamente un po' al di sopra della media dei
gruppi metal (senza offesa per nessuno, beninteso), che gradiscono infarcire
le loro performances live/studio con maestose tastiere e cambi di tempo
estemporanei. Altrettanta disinvoltura non ostentano, tuttavia, qualora
si cimentano con qualcosa di piu` <<ose'>> (come i tempi ritmici dispari,
per esempio, che del progressive sono quasi l'abc). Sull'onda di questi
grandi nomi, anche certi gruppi nostrani - per lo piu` esordienti, come
EVIL WINGS e MIDIAN, ma pure i veterani ASGARD - decidono di dare un'impron-
ta piu` <<cattiva>> alle proprie sonorita` barocche con l'uso di chitar-
re <<pesanti>> e ritmiche sostenute. Ma da qui a vaticinare di nuovo
genere o nuova tendenza (abbiamo gia` visto che tutt'al piu` si puu` parlare
di riproposta, sebbene in chiave piu` moderna) ne passa, eccome. E' opinione
comune che sia sempre piu` difficile creare qualcosa nel campo del rock
che non suoni <<gia` sentito>>; e cosi` ci si lancia sulle contaminazioni,
sugli incroci piu` o meno riusciti tra un suono e l'altro, ciascuno a pro-
prio modo e col proprio stile. Nel frattempo, lo zoccolo duro dei prog
fan (non spingete, ci sono anch'io!) continua a trastullarsi con castelli
incantati, (Troni dei) ricordi delle epoche andate e dotte citazioni latine
marca Deus ex machina; ed i loro alter ego metallofili a frustarsi le trombe
di Eustachio ed a contare i rullanti sfondati dagli emuli degeneri di John
Bonham. De gustibus...
io
JUNIOR WELLS
lo Spirito Blues e` tornato
NOTE DI VITA
Chi e` questo tra i tanti nomi della musica e piu` in particolare
del mondo del blues? Iniziamo dall'inizio, suona bene questa frase. JUNIOR
WELLS, nasce in Arkansas nel dicembre del 1934: trascorre in questo stato
del Sud i primi anni della sua infanzia, qui conobbe i blues dall'armonica
e dal canto di Rice Miller nei campi di cotone: <<Tutti iniziarono a cantare
e in quella condizione il raccogliere il cotone diventava piu` facile.
Io sono fortunato ad aver visto cio` e mai lo dimentichero`>>. Non e` un
fattore da poco come influenza per la musica aver vissuto queste cose,
non e` per me un luogo comune, quando questa generazione di musicisti ci
lascera` il blues perdera` molta della sua vera vita. La vita: nel 1941
si trasferisce a Chicago e conosce nella citta` ventosa tutti i personaggi
che diverranno famosi e importanti per il blues moderno: Muddy Waters,
Buddy Guy, Elmore James e Otis Span e tanti altri. Negli anni '50 entra
come armonicista nella band di Muddy Waters al posto di Little Walter e
parte tutta la sua carriere che lo vedra` armonicista, cantante e autore
molto eclettico che sa dosare il blues di elementi funk, R&B (rithm &
blues) ed anche rock. Negli anni '70 in coppia con il suo amico Buddy Guy
conosciuto nella band di Muddy girera` i piu` importanti teatri rock ameri-
cani e europei a fianco dei Rollig Stones. Il resto dopo un periodo di
pausa e` storia di anni vicini a noi.
L'ALTRO IERI
Non so se l'ho detto chiaro, tanto ora lo ripeto: Junior Wells e`
un bluesman: un armonicista, un cantante e autore di alcuni classici blues
come: <<Missin' with the Kid>> (frase che ripeteva sempre sua figlia all'e-
ta` di cinque anni), <<Come on in this house>>, <<Little By Little>>...
L'uscita di un suo nuovo album EVERYBODY'S GETTIN' SOME e la partecipazione
al Torino blues festival di poco tempo fa sono due buoni motivi per presen-
tarvi chi da tempo non si faceva piu` sentire ed ora torna alla grande.
Il concerto nella prestigiosa sede del Lingotto e` stato un vero evento
con tutto il pubblico anche quello in smoking (che ha pagato la bellezza
di L. 80.000) in piedi ad applaudire un artista che ha dimostrato di cono-
scere tutti i trucchi del frontman che ama stare sul palco con un esprienza
di un mezzo secolo. Il sessantenne JUNIOR si era presentato sul palco dopo
che la band gli aveva preparato un tappeto sonoro con un giubbetto di pail-
lettes, il cappello bianco, una catenina al collo con la scritta... WELLS
lunga 15 cm (circa) e le scarpe alla James Brown. Ne hanno in comune questi
due artisti di cose, infatti sia lo spettacolo che l'album hanno i passi
e il groove di un blues con molto funky: a proposito grande il chitarrista
soprannominato the Funky master. Un blues elettrificato che vive dal vivo
nel suono di un armonica inconfondibile nella semplicita` delle note: soffio
lineare e vibrazione segnalato nella sua essnzialita`. La voce che si diver-
tiva nelle profondita` nei falsetti, nei trilli e anche negli ululi e poi
conoscendo a memoria il ruolo del bandleader, i tempi dello spettacolo
lo spazio era ceduto a turno a tutti gli elementi della band: trombone,
tromba, sax, due chitarre, tastiere e batteria.
Il disco uscito poco fa invece presenta un artista eclettico che con
la sua esperienza sa spaziare tra i vari generi del blues da quello rurale
del Delta in cui la sua voce e` accompagnata dalla sola National Steel
Guitar di Sonny Landreth a brani R&B funkeggianti. E ancora un emozionante
duetto con la cantante bianca Bonnie Riatt: due voci essenziali che si
evidenziano a vocenda. Me ne stavo quasi per dimenticare troviamo come
ospite Carlos Santana che da qualche anno frequenta assiduamente le ultime
uscite dei grandi bluesman: la sua chitarra e il suo ambiente sudamericano
si sente dalle prime note della canzone <<Get Down, War>>. Merito di questo
eclettico disco (quasi una summa delle capacita` espressive) e` da attri-
buirsi al produttore, soprattutto se si ha presente il disco del 1993 BETTER
OFF WITH THE BLUES. John Snyder, il suo nome, ha portato via Junior wells
dalla ventosa Chicago andando a Maurice nella Luisiana terra del Delta
e affiancandogli una nuova band i Legendary White Trash Horn, i chitarristi
che ho detto prima con l'aggiunta di Rico Mc Farland. Cio` dimostra come
per il nostro sia molto importante, direi vitale, la relazione, il feeling
con l'ambiente e le persone che lo circondano e qui e` come la luce del
sole...
DISCOGRAFIA
Voglio indicarvi qui, pochi ma sicuramente fondamentali dischi che
possono sorattutto essere ancora richiesti con una certa facilita`. Il
capolavoro del Chicago Blues elettrico come si suonava nei locali del West
side della windy city: HOODOO MAN BLUES (Delmark, 1965) inciso con Buddy
Guy che ritroviamo anche in GOING BACK (Isabel, 1981; ripubblicato ALONE
AND ACUSTIC per l'Alligator,1992). Ancora con la partecipazione di Eric
Clapton e Bill Wyman (bassista dei Rolling Stones tranne l'ultimo): IN
MY YOUNGER DAYS (Red Lightnin'GB, 1957-63) e PLAY THE BLUES (Atco, 1972).
E... gli ultimi usciti BETTER OFF WITH THE BLUES e l'immancabile EVERYBODY'S
GETTIN SOME per la Telarc. Se a qualcuno non bastassero i dischi qui indica-
ti o volesse saperne di piu` scriva pure alla redazione. Ed ora auguro
a tutti buon ascolto e buone vacanze con il blues sempre presente sulla
nostra penisola, un consiglio andate ai concerti blues non costano molto
e il divertimento e` assicurato.
Johnny
Questo articolo e` dedicato al chitarrista irlandese Rory Gallagher
morto lo scorso mese.
paralleo zero - PROGETTO DI COPERTINA
Meglio il vecchio long playing in vinile o il compact disc? Ma sono
ancora domande da farsi?? Tuttavia, se i nostalgici del vinile appaiono
senz'altro ridicoli quando si aggrappano al <<romanticismo dell'imperfezio-
ne>> (com'era bello quando si sentivano gli scricchiolii dei solchi...
e la puntina arava, arava...), lo sono un po' meno quando sostengono la
mancanza di determinati <<riti>> (veder girare il disco sul piatto, che
e` un fattore psicologico non secondario all'atto dell'ascolto).
Quando poi si arriva all'argomento <<copertina>>, il confronto si
fa impietoso, una volta tanto, per il compact (per non dire della musicas-
setta!): anzi, quella del Cd non e` nemmeno a rigore di termini una <<coper-
tina>>, ma somiglia di piu` a una qualunque <<confezione>> dotata di
<<etichetta>>, e` un involucro di fredda plastica da cui traspare, quasi
accidentalmente, la prima pagina del libretto interno.
Il quale, in virtu` delle sue dimensioni, e` spesso malamente leggibi-
le, poco attraente, quando non graficamente povero. Non e` un fattore di
poco conto, se si pensa a quale veicolo di significati puo` essere e fu
in passato la copertina di un disco, molto piu` di quella di un libro:
la <<cover>> come biglietto da visita, come specchio eloquente del contenuto
musicale, come fonte di invenzioni stilistiche e di suggestioni aggiuntive,
fa parte di un sistema di valori che considera il disco come oggetto dotato
di una sua dignita` complessiva, che trova la sua massima espressione nel
periodo compreso tra la fine degli anni '60 e la meta` degli anni '70.
Sono gli anni del rock psichedelico e soprattutto di quello <<progressive>>,
la cui carica immaginifica cerca una rispondenza ideale al di fuori della
musica stessa: ecco allora i cascami letterari, le citazioni di musica
sinfonica, barocca e medievale, la dilatazione dei tempi, il gusto per
il <<pastiche>> e l'ambizione di un'opera d'arte totale propri del progres-
sive riflettersi in paesaggi bucolici, scenari mitologici, immagini surrea-
li, classicismo scultoreo, pittura d'ogni epoca, gnomi, folletti e altri
personaggi della letteratura fantasy, che sono le icone piu` ricorrenti
in questo genere di copertina.
A questo punto e` necessario fare dei nomi: non tanto di musicisti
quanto di pittori e illustratori, del cui lavoro quei musicisti si avvalse-
ro. A cominciare da Paul Whitehead, responsabile dei complicati intarsi
su <<Pawn Hearts>> (Van Der Graaf Generator) ma soprattutto delle allegorie
orrorifiche che rivestono i dischi dei Genesis degli anni 1970/72, con
aderenza d'atmosfera pressoche' perfetta. I Genesis, del canto loro, con
intricate partiture musicali e testi farneticanti e metaforici, offrono
probabilmente materia prima per le ossessioni visuali di Whitehead, macabre
e inquietanti messe in scena della violenza: di qui il coltello che sfregia
l'interno rinascimentale di "Trespass" (e favole arcane e crudeli sono
le canzoni qui contenute, Da <<White Mountain>> a, appunto, <<The Knife>>);
oppure lo scenario di <<Nursery Cryme>>, un campo da cricket nel quale
una bambina in abiti ottocenteschi gioca con le teste di alcuni bambi-
ni (proprio l'argomento di <<The Musical Box>>, il brano piu` celebre del
disco); infine l'affollato paesaggio di <<Foxtrot>>, con una versione defor-
mata della tradizionale caccia alla volpe (i cacciatori hanno visi mostruo-
si, mentre la preda e` una donna con la testa di volpe), e, sullo sfondo,
palazzi in costruzione (oggetto della storia di sfruttamento cantata
in <<Get'em Out by Friday>>), piu` altri criptici rimandi.
Ad ogni modo, anche senza il contributo di Whitehead, i Genesis si
dimostrano molto attenti all'aspetto visuale delle loro opere: <<Selling
England by the Pound>> (1973) ha in copertina un dipinto di Betty Swanwick
esplicitamente ispirato al brano <<I Know What I Like>>, mentre <<A Trick
of the Tail>> (1976), con quei personaggini che sembrano usciti da un qual-
che romanzo di Swift o di Dickens, opera di un'attenta ricerca iconografica
da parte del celebre Studio Hypgnosis (che lavoro` anche per Pink Floyd
e Led Zeppelin), accentua l'impressione che il mondo musicale dei Genesis,
oltre che molto <<english>>, sia indecifrabilmente sospeso tra l'eta` vitto-
riana e l'eta` contemporanea. A mo' di suggello di questa situazione, biso-
gna ricordare che la casa discografica per cui il gruppo incideva all'epoca,
la <<Charisma>>, aveva come logo, indovinate un po', il famoso <<cappellaio
matto>>, proprio quello disegnato da Sir John Tenniel per la prima edizione
di <<Alice in Wonderland>> di Lewis Carroll... Casualita`? Coincidenze?
Mah... E che dire di analoghi sodalizi musica/immagini promossi da alcuni
ex componenti di quel celebre gruppo, quali Anthony Phillips e Steve Hacket-
t, le cui musiche sognanti e fiabesche sono accompagnate dal lavoro rispet-
tivamente di Peter Cross (pregevolissimo illustratore dal tratto molto
nitido, specialmente in animaletti come scoiattoli e Koala) e di Kim
Poor (moglie di Hackett, pittrice dai toni onirici e velati)?...
Meno implicato in questo tipo di sincretismo artistico, ma pur sempre
abile designer e` Roger Dean, la cui fama e` legata a quella di un altro
grande gruppo di progressive: gli Yes. Sue sono la copertina di <<Fragile>>,
con quel disegno del globo terracqueo visto nella sua totalita`; quella
di <<Close to the Edge>>, completamente verde; il parco acquatico di <<Tales
from Topographic Oceans>>; lo scenario medievale, Quasi camelotiano, di
<<Relayer>>, e quello futuribile/primordiale di <<Yesterdays>> e di <<U-
nion>>; tutti complementi ideali per la musica degli Yes, magniloquente
e sinfonica, meno attenta, rispetto a i Genesis, al valore dei testi,
genericamente affascinante ed evocativa: come i disegni di Dean. Questo
gusto didascalico viene raccolto negli anni '80, in pieno periodo di
riflusso d'interesse, dai Marillion, alfieri forse controvoglia di quella
fioritura denominata <<new prog>>. I quattro dischi e gli svariati singoli
incisi dal gruppo tra il 1983 e il 1987 portano anche la firma di Mark
Wilkinson, che per la musica brillante eppure ricca di malcontento e di
dolore, e per i testi verbosi e letterariamente elaborati del cantante
Fish realizza delle copertine iperrealiste, con simbologie ricorrenti (il
camaleonte, la ragazza), citazioni aggiornate ai tempi (nella stanza
raffigurata su <<Script for a Jester's Tear>> si intravede, per terra,
un certo disco dei Pink Floyd...), riferimenti biografici (i problemi di
alcoolismo patiti da Fish sono sottolineati dal bicchiere rovesciato che
si vede su <<Fugazi>>, o dall'iconografia da pub che riveste <<Clutching
at Straws>>). Ma meglio ancora dei particolari sparsi qua e la` si assume
a traduzione visiva della musica dei Marillon l'onnipresente figura del
<<Jester>>, il giullare dalla cresta colorata e dalla maschera che esprime
dolore e rabbia allo stesso tempo: un segno quanto mai raro di ricerca
di un continuum discorsivo e ispirativo, che promuove i dischi a capitoli
evolutivi di una storia ancora da completare.
Mad Man Moon