Luglio-Agosto 1995

     ALT!!  Fermi  la`! Uhm... la valigia in mano, il panama in  testa,  gli
occhiali da sole,  la  camicia  a  fiori...  si  direbbe che stiate partendo
per  le vacanze! Ma vi abbiamo beccato appena in tempo, proprio sulla  porta
di casa! Non  avrete  pensato  di  squagliarvela  senza Interferenze Blu? Se
e`  cosi`  avete fatto male i conti! Eccoci qua a proporvi  l'ultimo  numero
ricco di proposte interessanti, tra le quali una maglietta veramente strepi-
tosa!  Lo so che siete di fretta perche' state partendo, ma  lasciatemi  ag-
giungere un'ultima cosa. Quando  avrete  raggiunto  le  vostre mete: al mare
o  in montagna o in qualsiasi altro posto dove avete deciso  di  trascorrere
le vacanze, non dimenticatevi  di  noi:  MANDATECI UNA CARTOLINA per favore,
ve ne saremo eternamente grati, e poi la o le piu` belle e spiritose potreb-
bero trovare  uno  spazio  su  Interferenze  Blu.  Quindi sbizzarritevi, nel
limiti  della  decenza  mi raccomando! L'indirizzo lo sapete, e  se  non  lo
sapete lo trovate in ultima pagina, il francobollo... non facciamo i furbini
eh?,  e  la cartolina non venitemi a raccontare che dove  siete  andati  non
le vendevano! Quelli che  le  vacanze  le  hanno gia` fatte oppure rimangono
in  citta`  dovranno far lavorare un po' di piu` la fantasia.  Adesso  viene
quella parte in cui io  dovrei  augurarvi qualcosa... ma mi sono dimenticato
cosa... va be', fa lo stesso arrivederci a Settembre!

                                                               Marziobarbolo




                           RECENSIONI - 360 gradi



                                ALMAMEGRETTA
                                  Sanacore
                               (1995, CNI/BMG)

     Quando  erano apparsi sulla scena nel 1991, qualche critico  pigro  non
aveva trovato  di  meglio  che  inserirli  nel  gran calderone delle <<posse
italiane>>,  in  compagnia di gente che, nella  stragrande  maggioranza  dei
casi, non sarebbe andata al  di  la`  di  un  rap appena decente. E dire che
anche  agli albori gli ALMAMEGRETTA non facevano rap, bensi`  originalissimo
reggae cantato in italiano, come testimoniato dal singolo Figli di Annibale,
diventato  un  inno  alternativo grazie anche al passaggio in  tv  su  Avan-
zi (all'epoca persino  gli  Africa  Unite,  oggi  meritatamente campioni del
reggae  italiano,  cantavano  ancora in inglese). Il primo  album  li  aveva
gia` visti alle prese  con  una  dilatazione  dub  del loro suono, che aveva
dato ottimi risultati. Oggi con SANACORE questa mutazione puo` dirsi comple-
tata, ma questo non va a scapito delle radici mediterranee della loro produ-
zione,  che  risultano anzi ancor piu` evidenti. Innanzitutto i  testi  sono
quasi interamente in dialetto  napoletano  stretto,  ma  il contrasto con la
musica  di  derivazione  giamaicana e` solo teorico:  al  gruppo  partenopeo
riesce talmente bene questo connubio da farlo apparire perfettamente natura-
le.  Esempi ne sono la title-track, in cui non vi e` niente di  forzato  nel
far convivere una tipica tammurriata  impreziosita dalla voce della cantante
tradizionale  Giulietta  Sacco e una base  quasi  da  ragamuffin; 'Pe'Dint'E
Viche Addo` Nun Trase'O Mare', con un poeticissimo testo di Salvatore Palom-
ba (autore  di canzoni classiche stile Sergio Bruni) e una musica che  parte
dai Quartieri Spagnoli e approda  in  Arabia passando per Trenchtown in Gia-
maica.
     'Nun  Te  Scurda`' e 'Se Stuta'O Ffuoco' possiedono una  vena  melodica
capace di  farle  apprezzare  anche  ai  fans  di  Nino D'Angelo (!), mentre
in 'Tempo'  la voce simil-telegiornale della speaker introduce un tema  por-
tante del disco: la necessita`  di  lentezza  per riprenderci la nostra vita
stritolata dalla frenesia del sistema di vita occidentale. <<Il cuore  batte
a 60 battiti al minuto, e nessuno  puo` andare piu` veloce del proprio cuore
senza  perdere  la propria umanita`>>: gli ALMAMEGRETTA mettono  in  pratica
le proprie parole rallentando  i  ritmi (mai  piu`  di 80 battute al minuto)
e  avvolgendoci  in un'atmosfera seducente e contrassegnata  dal  trasognato
pulsare del basso e dagli echi del dub.
     Che altro dirvi? E' un disco contro tutte le discriminazioni: 'Scioscie
Viento'  narra  l'incendio del ghetto per extracomunitari di  Villa  Literno
e 'Nun Te Scurda`' denuncia  i  tre  stereotipi di <<mamma, puttana e brutta
copia  d'uomo>>  in cui le donne continuano ad essere  rinchiuse.  A  Napoli
sono gia` i beniamini di  un  vastissimo pubblico: non facciamoci spaventare
dal dialetto e accattiamoci quest'album, veramente <<bello lento>>.

                                                                 Corvo Rosso



                                  STANDARTE
                                  Standarte
                         (Black Widow, Italia, 1995)

     H.  G.  Wells,  maestro precursore della  letteratura  fantastica,  con
il suo celebre  romanzo <<La  macchina  del  tempo>>  seppe mostrare a tutti
noi che le barriere spazio-temporali potevano in qualche modo essere  abbat-
tute. Oggi, moltissimi anni  dopo,  cambiato  lo scenario (niente paura, non
siamo ad una lezione di storia!) ed il periodo storico, ci prova - o meglio,
ci riprova - anche Daniele  Caputo.  Per  chi  non  lo conoscesse, si tratta
di un giornalista/batterista/appassionato di psichedelia degli anni  sessan-
ta, che gia` da una  decina  di  anni  or  sono diede vita ad un progetto (i
Birdmen  of  Alcatraz) dalla vita piuttosto breve ma intensa.  Ora  riparte,
con altri compagni di viaggio,  in  direzione di sonorita` diverse ma sempre
re'tro.  Ed e` subito centro. Pur con una strumentazione ridotta,  dove  una
chitarra tanto  fugace  quanto  geniale  appare  come  un'adorabile intrusa,
il  vulcanico batterista/compositore fa da deus ex machina (finezza!)  della
situazione. Sua e` anche la  voce,  molto  personale e di grande effetto so-
prattutto  negli  interludi recitati tra un pezzo e  l'altro.  Luci  puntate
anche sulle tastiere  di  Michele  Profeti,  cultore  e tramandatore di quel
suono  a  base  di Hammon che rese celebri i vari Rare  Bird,  Procol  Harum
ed Atomic Rooster. A proposito di  questi  ultimi: il disco e` dedicato alla
memoria  di Vincent Crane, loro tastierista e leader  nonche'  indimenticato
alter ego del <<dio del fuoco>> Arthur  Brown  nel suo Crazy World del 1968.
     Fuori dal tempo? E chi se ne frega. Grazie, Daniele.

                                                                          io



                                PINO DANIELE
                     Non calpestare i fiori nel deserto
                                   (1995)

     Adesso tocca a noi!
     Dopo varie indecisioni, facendo capolino tra cirrocumuli, questo nordi-
co sole si e` finalmente deciso  a percorrere tutta la sua "erta infuocata",
deumidificandoci almeno parzialmente le ossa. Tempo di gite, tempo di vacan-
ze ed ecco puntuali arrivano la chitarra e la voce di Pino Daniele a musica-
re  e colorire un altro periodo che sommeremo ai nostri ricordi. NON  CALPE-
STARE I FIORI NEL DESERTO  e`  il  titolo  del  suo ultimo lavoro prodotto e
stampato  nel  1995. In questo disco si sente un  Pino  Daniele  innovativo,
sicuramente diverso dai precedenti  lavori,  che conserva, pero`, la matrice
fondamentale  del  grande cuore partenopeo. Un cuore blues,  un  pulsare  di
strada che lo ha  sempre  contraddistinto  rendendolo riconoscibile al primo
ascolto.  Buon vecchio Pino, sempre aperto a tutte le tematiche, lo  sguardo
sempre in avanti, niente  lasciato  al  caso.  E  questa volta ha chiamato a
collaborare  Lorenzo  Cherubini, in arte Jovanotti,  ai  due  brani 'Stress'
e 'Deserto di parole',  quasi  a  testimoniare  la  maturazione artistica di
un  personaggio nato quasi per dispetto. Irene Grandi e` la  voce  femminile
in 'Se Mi Vuoi' e  Maria  Pia  De  Vito  organizza cori e indecisioni vocali
in 'Fumo nero'. Ovidio Baldassarri, alchimista informatico suona le tastiere
in 'Resta, resta cu'mme'  e  in 'Se  amore  sara`',  mentre  Miki Manieri da
un'impronta jazzistica con le sue vibes in 'Bambina' e 'Stress'. Due  batte-
risti d'eccezione si dividono diligentemente  in  questo album i brani: Manu
Katche'  e  Lele Melotti; validissimi turnisti che si ha spesso  il  piacere
di incontrare a  fianco  dei  nomi  piu`  altisonanti  del panorama musicale
europeo. Rita Marcotulli, pianista e arrangiatrice da`, insieme al  batteri-
sta Jimmy Earl,  il  contributo  finale,  per  donare  agli ascoltatori vari
momenti  rifiniti  di  calde impulsivita`. Il  mediterraneo,  questa  grande
via di comunicazione,  questa  girandola  di  suoni, legni, tamburi, colori,
sapori.
     E`  proprio  lui  che da` l'impulso iniziale per la  crescita  di  ogni
lavoro di Pino Daniele, ed  e` l'assenza di barriere tipicamente napoletana,
facilmente  riconoscibile  in ogni momento di questo disco, che  fa  si  che
vada bene per tutte le latitudini.
     Buone cose, buone vacanze, buon ascolto!

                                                                Stormbringer



                                 MOTORPSYCHO
                              Timothy's Monster
                           (2CD, 1995 Flying rec.)

     Norvegia. Terra di montagne, ghiacci,  foreste  e fiordi, ove la natura
ha  messo in scena uno dei migliori spettacoli dell'intero pianeta, e  anche
la musica rock  ivi  prodotta  pare  influenzata  dall'ambiente naturale. Il
death/black metal di gruppi come Dark Throne ed Emperor privilegia il timore
e l'adorazione  pagana  quale  unica  via  di  fronte  all'immensita` e alla
possenza  del  Grande Nord che pare ridurre l'uomo a un  fuscello  in  balia
di eventi  terribili  e  incontrollabili.  I  MOTORPSYCHO  invece riescono a
unirvi il senso di armonia e pace diffuso dal respiro delle immense  foreste
di abeti e della tundra  innevata  illuminata  dalla luna del grande inverno
boreale.  Infatti con il loro precedente DEMON BOX (1993), che li  ha  fatti
conoscere anche al di fuori  della  Scandinavia, hanno sublimato una formula
sonora  comprendente  brani  di grunge cupo e dissonante  e  ariose  ballate
psichedeliche. Il loro nuovo lavoro Timothy's Monster si presenta con ancora
maggiori ambizioni, a partire dalla mole (oltre 100 minuti), ma le giustifi-
ca tutte. Qui i  MOTORPSYCHO  abbandonano  quasi  completamente il loro lato
piu` <<rumoroso>> e aspro e mettono a fuoco altri due tipi di  composizione:
la loro idea di canzone acustica o semiacustica e la lunga suite psichedeli-
ca,  a  cui  dedicano rispettivamente il primo e il secondo  cd  della  loro
monumentale opera. Cosi`  la  prima  parte  offre  11  canzoni in bilico tra
refrains  melodici  sovrastati pero` da una  base  ritmica <<esagerata>> ('A
Shrug & Fistful',  'Kill  Someday'),  pop  songs  acustiche  e delicatamente
malinconiche ('Feel',  'Watersound'),  divagazioni dissonanti ('On  My  Pil-
low'), e persino passaggi  anni '60  con  tanto  di  tastierine e coretti in
tema ('Beautiful  Sister').  E'  in loro un certo  qual  feeling  sixties (a
tratti mi ricordano i Jefferson Airplane) ma unito a un gusto per la melodia
dissonante  e  per una ritmica possente che li rende  del  tutto  originali:
resta difficile incasellare la loro  musica in una delle categorie preconfe-
zionate  dai discografici. Il secondo cd e` formato da quattro  soli  brani,
che peraltro hanno una  considerevole  durata.  Si  parte con la straordina-
ria 'The Wheel', quasi 17 minuti che mettono assieme i Led Zeppelin  di <<No
Quarter>> con i Kyuss. Infatti a  un'intro di chitarra arpeggiata e contrap-
puntata  dai  suoni tremolanti di una tastiera (o  forse  un'altra  chitarra
con qualche effetto?) fa  seguito  l'entrata  in  scena  della batteria e di
un basso iperamplificato che con il suo incedere poderoso ed ipnotico cambia
totalmente faccia al brano, trasformandolo nell'immagine sonora dell'avanza-
ta  lenta e cadenzata di un ciclopico mammuth, mentre la voce  rimane  quasi
sullo sfondo a ripetere una litania psichedelica. Notevoli anche 'Sungravy',
suadente ballata acustica con contorno di archi, e 'The Golden Core',  quasi
sinfonica nelle  sue  aperture  melodiche (specie  nel finale, assolutamente
incantevole)  e  con l'azzeccata sovrapposizione di una  voce  femminile  al
cantato del frontman Bent.  Inevitabile  a  questo  punto una piccola caduta
di  tono  rispetto  alle altezze siderali cui ci avevano  abituato  i  pezzi
precedenti: 'Grindstone' ripercorre i territori  piu`  oscuri del loro suono
con risultati buoni ma non eccezionali.
     Fatte  le  somme, risulta comunque che la band  norvegese  ha  sfornato
un album memorabile, che a  mio  parere le conquistera` sicuramente un posto
d'onore  nella storia del rock anni '90. Per quanto riguarda il grande  suc-
cesso di vendite,  manca  loro  quella  dose  di  ruffianeria necessaria per
rivestire  le loro godibili melodie con una base ritmica  piu`  abbordabile.
Ma se i Primus con  una  musica  folle  e  non  classificabile e una voce da
cartoni  animati  sono  giunti al quarto posto delle  classifiche  USA,  non
si puo` mai dire...

                                                                 Corvo Rosso



                                WHITE ZOMBIE
                            <<Astro-Creep: 2000>>
                             (CD, Geffen, 1995)

                                   PRIMUS
                        <<Tales from the punchbowl>>
                           (CD, Interscope, 1995)

     Dev'essere stato un vero smacco, per gli affezionati dei Primal Scream,
constatare  che  nel sound dei propri beniamini, sotto la patina  dance,  si
celano i Rolling Stones  o  i  caldi  gruppi  sudisti  dei '70. Di fronte al
fenomeno  inesauribile dei cloni, diviene scontato presagire un  futuro  non
troppo roseo per il rock.  Manca  si`  l'inventiva.  Ma c'e` pure carenza di
quell'oltraggiosita`, che non sia nominale, alla Frank Zappa, delle  bizzar-
rie dei Fungo  Mungo,  di  un  modo  d'essere  sgangherati quanto i Butthole
Surfers.  In sostanza, il coraggio di mostrarsi incoscienti. Lo e` in  pieno
questo disco dei  WHITE  ZOMBIE.  Il  gruppo americano e` straordinariamente
ingenuo,  eppure  abilissimo  a sguazzare nella  melma  della  comunicazione
quotidiana. Adoratori  della  spazzatura  televisiva (MTV, Beavis & Butthead
e - perche` no? - il TG4), si compiacciono di rotolare nel fango del cattivo
gusto e dell'eccesso. Tanto per  esemplificare,  il cantante ed ex porno-fu-
mettista  Rob  Zombie  trova l'ispirazione soltanto  nelle  sue  giornaliere
otto ore di TV, quasi stesse ricercando  una sorta di stato ipnotico e crea-
tivo  da  artista surrealista. E i risultati si sentono.  Non  stupitevi  se
un certo metal <<rullante>>,  qualche schitarrata informe (in 'Real Solution
n.9')  o  il frequentissimo andamento pseudo-trash  sanno,  volutamente,  di
conformismo.  Cio`  che  conta  e`  lo  sbriciolarsi  di  questa massicciata
nell'angoscia  di  ritmi  techno, hip-hop, sospiri  lascivi,  echi  tribali,
cori di  monaci  e  melodie  orientaleggianti.  Ascoltate, in 'Super Charger
Heaven',  come il cantante riesca ad espellere tutto lo schifo  di  immagini
e di suoni ruminati,  dentro  il  verso  centrale <<devil man, running in my
head>>.  La musica dei WHITE ZOMBIE e` complessa,  frantumata,  discontinua:
pure lo sono le  innumerevoli  suggestioni  che alterano il nostro cervello.
Per  questo, meglio dei piu` talentuosi NINE INCH NAILS o  delle  incursioni
elettro-noires dei  MINISTRY,  possiamo  dire  che  e`  un rarissimo esempio
di gruppo estremista. Se nei White Zombie e` la societa` che aliena  l'uomo,
nei californiani PRIMUS  accade  curiosamente  l'opposto.  Questo emerge dal
loro  quinto disco. Non e` semplice spiegare il loro pensiero, me  ne  rendo
conto. Non  e`  semplice  capire  questo  sound inconfondibile, contaminato,
talvolta  scarno,  sempre  uguale e sempre diverso. Di certo  il  frutto  di
tre menti malate. Sara` l'infernale bassista Les Claypool, che riconoscerete
dal bavoso sorriso inebetitito, sempre intento a giocherellare con la preca-
ria voce nasale.  Saranno  gli  assoli-fiume  di Larry <<Bastardo>> Lalonde.
Sara` il lavoro oscuro del tamburino Herb. Comunque sia, il trio ci  propone
un cammino sonoro al limite della stonatura e dell'allucinazione. Sensazione
in  cui  si  incastrano perfettamente le loro assurde storie  di  animali  e
di personaggi altamente  improbabili,  mari  di  formaggio,  panini di vetro
nonche`  elefanti bimotore. Ci si accorge presto che la  realta`  primusiana
non e` solo fantasia,  ma  un  mondo  deformato  e  deformabile a misura dei
nostri  diversi  ragionamenti. Per questo il disco non trova mai  un  attimo
di pausa. Si passa rapidi  dallo  scherzo  country ('De Anza Jig') al valzer
decadente ('Wynona's  Big Brown Beaver'), dai rumori di  una  cyber-fattoria
del 3000 ('Space Farm') all'impossibile colonna sonora ('Hellhound 17 1/2').
Pero` e` sempre il basso, anche quando smette di funkeggiare, il vero  gene-
ratore di idee:  punteggia  le  proprie  ossessioni in 'Prof. Nutbutter', si
distorce  in 'On hte Tweek Again', si scarnifica in 'Soutbound  Pachiderm' -
forse il pezzo  migliore -  dove  sembra  gemellarsi  con  la chitarra e con
la  flebile  voce dello stesso Les. In fondo, i PRIMUS non  fanno  nulla  di
straordinario. Solamente, al di la` di facili nostalgie o di consunti schemi
corss-over,  musicano  il loro folle pensiero. ...ed ora  qualcuno  provi  a
far di meglio!

                                                           Vincenzo Capitone



                            TERENCE TRENT D'ARBY
                                  Vibrator
                                   (1995)

     Il trono della musica  nera  USA,  occupato incontrastatamente per anni
da  Prince,  pare  oggi vacante, in seguito ai suoi confusi  cambi  di  nome
ed alle sue ultime prove discografiche, di  cui si stenta a tenere il conto:
il principino di Minneapolis ha, nell'ultimo biennio, inflazionato il merca-
to senza peraltro raggiungere i consueti livelli di vendite.
     Prende cosi` consistenza la  candidatura  di  TERENCE TRENT D'ARBY, che
si  era rivelato verso la fine degli anni '80 con un ottimo album  d'esordio
contenente piccole  gemme  soul-dance  come  Dance  Little  Sister o Wishing
Well,  ma  poi pareva essersi perso per strada, almeno per  quanto  riguarda
il successo commerciale dei  due  successivi  lavori.  Oggi e` tornato sulla
scena con un look ossigenato e un quarto album annunciato come piu`  aggres-
sivo, quasi hard rock.
     Ed in  effetti  i  primi  due  brani 'Vibrator' e 'Supermodel Sandwich'
sono  belli  tirati; la title track in particolare sfoggia un  bel  riff  di
chitarra che spezza  l'andamento  funky  del  brano,  ed alcuni stacchetti e
rallentamenti dove il suono del sitar costruisce un'atmosfera quasi  psiche-
delica. Successivamente  il  clima  si  addolcisce  ma  l'innegabile talento
del  cantante e polistrumentista newyorkese trova ancora modo di  esprimersi
in pezzi come 'C.Y.F.M.L.A.Y.', in  cui suona tutti gli strumenti e <<condi-
sce>>  il groove con una voce in falsetto alla Prince. 'Supermodel  Sandwich
w/Cheese', funky e languida  allo  stesso  tempo  con  la  voce che passa da
timbriche  profonde  quasi  alla  Barry  White  ad  accenti  stile   Michael
Jackson. 'We Don't Have  That  Much  Time  Together'  punta  invece su ritmi
latineggianti  mentre  con 'Holding  On To You' si  vira  decisamente  verso
il lento, peraltro  con  gusto,  senza  eccessive  quantita`  di miele e con
una  chitarra  sempre  presente e graffiante al  momento  giusto.  Azzeccata
anche la scelta  del  grande  sax  di  Branford  Marsalis in Undeniably, che
riesce a trasformare una ballad statica ed un po' noiosa in un pezzo  jazza-
to, pieno di passione e  di  feeling.  Bisogna  comunque dire che TTD e` fin
troppo  conscio  delle sue qualita` e talvolta la presunzione gli  gioca  un
brutto scherzo, come in 'If  You  Go  Before  Me', inutile lento alla Barbra
Streisand.
     In definitiva, il maggior pregio di VIBRATOR e` la capacita` di passare
attraverso vari generi musicali mantenendosi  comunque piacevole e mai bana-
le;  l'eclettismo  si manifesta anche nell'ambito di singoli  pezzi  in  cui
sono frequenti cambi di tempo e  divagazioni  che a volte sommergono il tema
principale (vedi 'Resurrection',  con  inserti di flauto e  voci  in  timbro
di basso). Purtroppo Michael  Jackson,  la  cui  statura  artistica e` a mio
parere  inferiore,  con il suo <<History>> lo  surclassera`  sicuramente  in
tema di vendite:  forse  queste  canzoni  sono  gia`  troppo sofisticate per
un pubblico che cerca solo la facile melodia.

                                                                 Corvo Rosso



                            THE ROBERT CRAY BAND
                             Some Rainy Morning
                               (Polygram, USA)

     Eccoci  di  fronte all'ultima fatica del golden boy del  blues,  ladies
and gentlemen, the supreme, the  dynamic ROBERT CRAY!! Dopo questa presenta-
zione  cosi`  roboante, possiamo iniziare a parlare  del  piu`  controverso,
contestato, amato,  odiato  bluesman  oggi  in  circolazione. Personalmente,
penso  che  CRAY sia il piu` grande dell'ultima  generazione  di  musicisti,
soprattutto per quanto riguarda  la creativita`, senza, tuttavia, trascurare
la  sua  personale  tecnica chitarristica. La  fondamentale  differenza  tra
CRAY e tutti gli  altri  e`  riposta  nella  sua capacita` di scrivere delle
supreme schifezze ma di farlo con grande classe, qualita` pressoche' assente
tra suoi coetanei (anche perche`  ve  ne  sono  alcuni  che non ne scrivono,
ascoltate l'ultimo Fernando Jones, giovane e promettente virgulto di  Chica-
go, allievo del grande Lefty  Dizz, prematuramente scomparso). In ogni caso,
il  nostro  e`,  al giorno d'oggi, il piu` originale  compositore  di  blues
in circolazione e, per quanto  lo  si  possa odiare, nessuno lo puo` negare.
La  sua  sensibilita` artistica, fortunatamente, lo sta  avvicinando  sempre
di piu`  al  blues,  quello  vero,  tralasciando  quegli insulsi esperimenti
pop (tipo  Eric  Clapton, periodo Lori Del Santo),  che  caratterizzavano  i
suoi primi album. Gia` nel suo  penultimo  'Shame + a sin' si notava un con-
creto  avvicinamento  al  blues, avvicinamento che, pero`,  non  puo`  dirsi
completato con questo SOME RAINY  MORNING. Rimangono, infatti, alcune sbava-
ture (il brano 'Little boy big', per esempio, privo del consueto  mordente),
che non ci permettono di  festeggiare  la  "nascita"  di un bluesman a tutti
gli  effetti.  Scherzi a parte, il buon CRAY, in questo suo  ultimo  lavoro,
e`, come sempre, nostra croce e delizia. Sublime, assolutamente insuperabile
nei lenti come le prime tre tracce del cd, un po' meno in brani  quali 'Tell
the Landlord' e la  gia`  citata 'Little  boy  big'. Le paludose e intrigan-
ti 'I'll  go  on' e 'Steppin' out', sinuose e sensuali come le mani  di  una
bella donna, valgono,  da  sole,  l'acquisto  dell'album. Ecco perche' adoro
Robert  Cray:  ogni sua canzone e` unica e inimitabile, ha  una  voce  densa
e calda, assolutamente strepitosa,  un  chitarrismo  acuto e pungente, tanto
da trafiggervi da parte a parte e, last but not least, le donne  si "scalda-
no" (e voi di conseguenza!)  quando  ascoltano  la  sua musica, si dimenano,
sospirano,  ansimano  cosi` tanto da farvi scoppiare le  vene.  O.k.,  o.k.,
siete sudati e inquieti, vero?  Non indugiate, correte ad ascoltare l'ultimo
lavoro di ROBERT CRAY.

                                                               T-Bone Malone



                               TEENAGE FANCLUB
                                 Grand Prix
                           (Creation, 1995, LP-CD)

     In Scozia ci sono quattro ragazzi che si divertono a suonare e scrivere
ballate che sanno di anni sessanta, di  Byrds e di Big Star. Canzoni, niente
di piu`, niente di meno.
     Si  chiamano  TEENAGE FANCLUB e sono arrivati al quarto album,  il  cui
titolo certamente non illustra,  richiamando  in  qualche modo la velocita`,
il loro modo di fare musica (di sicuro 'Grand Prix' e` stata solo una  scusa
per poter mettere un bolide di formula 1 sulla copertina).
     Non e` il  loro  disco  migliore (il  primo,  A  CATHOLIC EDUCATION, li
batte  tutti), ma c'e` sicuramente stato un grosso passo in avanti  rispetto
a THIRTEEN del 1993, soprattutto a  livello compositivo. Se il suono infatti
risulta  semplice  e  spoglio di rumori come mai lo  era  stato  nei  lavori
precedenti, questa volta  la  loro  capacita`  di  creare  melodie si esalta
in  quasi  tutti  i tredici brani, che si avvicinano  alla  perfezione  pop.
E` veramente difficile scegliere  i  pezzi  migliori: 'About You', i singoli
'Sparky's Dream' e 'Mellow Doubt' (ballad semi-acustica al miele),  'Verisi-
militude', 'Neil Jung', 'Discolite' e 'I Gotta Know' sono tutte estremamente
piacevoli, zucchero per le orecchie.
     I limiti di questo ellepi` sono forse la poca originalita` (chi conosce
i Big Star non potra`  fare  a  meno di notarlo) e l'eccessiva ripetitivita`
delle formule che ad alcuni potra` risultare un po' tediosa, ma in  quest'e-
poca "grunge" un bel mucchio  di  canzoni  che  inteneriscono il cuore e non
vogliono  spiegare  nulla  a nessuno sono proprio quello che  ci  vuole.  La
poesia non e` mai troppa.

                                                            Michele Apicella




                     Punto fugato - IL BUON VECCHIO MARK

                         (Articolo disperso, sorry)




                              INTERFERENZE blu
                         rivista di cultura musicale

                    P.zza Garibaldi, 3 - 12051 Alba (CN)
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                            Direttore Editoriale:
                                gianni corino

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                              mauro decastelli
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                              massimo giachino
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                               cristiano rota

                                  Grafica:
                               elisa giaccardi

                               Impaginazione:
                                sandro corino




                               ANTHONY BRAXTON

     A  smentire  l'opinione  che il jazz in generale e  quello  dei  nostri
contemporanei in particolare  si  possa  schematicamente  distinguere in due
versanti,  caratterizzato il primo dai segni di una continuita`  e  fedelta`
ai modelli  originari,  turbato  il  secondo  da  un  fondo  di inesauribile
conversione, interviene ad esempio il brano di Anthony Braxton  dall'anonimo
titolo PIECE THREE *.  Il  movente,  ascrivibile  a  una sorta di grammatica
ironica  della  musica, ci sembra di poterlo leggere fra  le  congetture  di
Braxton sulla  composizione.  Composizione  come  versione compendiata della
braxtoniana  ricerca  riguardante  l'<<open-ended  improvisation   format>>;
composizione, ancora, come traslazione di  eventi a favore di una <<open-en-
ded improvisational situation>>, che torna a risuonarci dentro, attraversata
dai suoni di piu` strumenti  fra  loro in opposizione; quindi anche composi-
zione  quale  mezzo  di espressione, veicolo di eventi  e  sequenze  secondo
un contesto concettuale  post-weberiano  ma  non 'seriale'.  E'  cio` che si
avverte  soprattutto  ascoltando PIECE THREE, una musica da parata  che  non
essendo conseguente, ci dispone a domandare, forse solo perche' si e` dispo-
sti  ad indagare quanto le <<regole>> non sovvengano piu`.  L'interesse  per
questo tipo  di  musica,  tanto  tradizionale,  s'intende nella possibilita`
d'uno sbocco estensivo delle sue regole, appunto, e nella concorde  parteci-
pazione a legittimare una forma musicale  degna in se' di essere perseguita.
Dunque  tale l'intento di Braxton. In questo brano, in particolare,  risulta
una composizione strutturata su tre  estensioni  ed anche l'ottavino di John
Faddis rientra in un contesto innovativo rispetto alla notazione tradiziona-
le dell'<<assolo>>. Nell'insieme,  pero`,  oltre  i citati caratteri tecnici
si  assiste contenutisticamente a un declinarsi delle forme canoniche  della
<<parade music>> in ironia scanzonata quanto raffinata. Non si cerchi dunque
in PIECE THREE un richiamo a arie del passato (John Cage), piuttosto  misura
e fantasia, talvolta  messaggi  subliminali  che callidamente s'intrecciano.
Cos'altro,  del  resto, si puo` chiedere al  Jazz <<contemporaneo>>  se  non
di assomigliare a cio` che tutti  vorremmo  ascoltare: a un progetto di gra-
tuita bellezza.

                                                                       DECUS


     Schema del brano: PIECE THREE (6:43)  ____
                                          \    /
                            22______________\/___M
                            /\              /\
                          /    \          /____\
                        /        \
                      /            \
                    /________________\
                                     H03


     (*) L'idea di scrivere un articolo su un singolo brano potrebbe  trarre
in inganno il lettore, facendo passare il titolo della singola realizzazione
per  il  tutto,  ossia per l'intero album del 1976.  Creando  uno  sconcerto
e una sproporzione nell'ambito altamente creativo del Braxton anni settanta.
Pericolo  raggirato,  spero, con la mia insistenza  sulla  parola 'brano'  e
ricordandovi, ora, il contesto  di  provenienza. Passando al setaccio quegli
anni,  minuziosa  e` la cura di Braxton rivolta al singolo  brano  messo  in
musica da un'ampia orchestra che gode indistintamente dei progressi apporta-
ti  dal  lavoro di Ellington-Henderson-Mingus-Coleman e con essi  ci  gioca.
Il concetto di musica  che  se  ne  ricava  e` quindi riassumibile nel motto
'Creative  Orchestra  Music'  tanto caro all'autore. Il  brano  PIECE  THREE
e` contenuto  nel  CD:  ANTHONY  BRAXTON <<Creative  Orchestra Music>> 1976,
Bluebird.




    CASCINA MACONDO   Musicarteatro Culture Associate   ON THE ROAD MUSIC
                            Blues della Germania

     E` uscito un nuovo Cd, e` un blues sincero, pieno di ritmo, convincente
ed  entusiasmante; tradizionale ma consueto. Nel ricordo di  Walter  Horton,
Robert Johnson, Blind Blake,  Sonny  Terry,  Son  House  e molti altri della
storia  del Blues. Il Cd e` Goodtime Music degli HOOTIN' THE  BLUES,  gruppo
tedesco. La loro  musica  ha  origini  nel  blues tradizionale, con influssi
di musicisti come Ry Cooder e Charlie Musselwhite. Il gruppo e` nato nell'88
a Munster. Hanno suonato in  varie  citta` tra cui Danzica, Varsavia, Torun,
Praga,  Vienna,  Brno, con partecipazioni radiofoniche  e  televisive.  GERD
Gorke (armonica e voce) suona professionalmente blues dall'83; tra i miglio-
ri in Europa, ha fondato la Q-Blues Band, suona nei Blues Mafia e ha lavora-
to con, tra gli altri,  Jeanne  Carolle, Luoisiana Red, Angela Brown, Johnny
Hartsman.  GUNTER  LEIFELD-STRIKKELING (voce,  chitarra,  banjo,  mandolino)
sulla scena da molti anni,  ha  suonato  chitarra e banjo nella Chicken Skin
String Band. Suona molto il Dobro, spesso con la tecnica "slide" del bottle-
neck. RUPERT PFEIFFER (voce, chitarra)  ha studiato per cinque anni chitarra
jazz: ha suonato con i Bluespray e con la cantante Meike Kohne. Puo` vantare
numerose registrazioni radiofoniche e discografiche e molti anni di insegna-
mento.
     Ottime  le interpretazioni dei brani di Robert Johnson con  un  Walking
Blues che inizia con un  assolo  di  Gerd  e  la sua voce di basso profondo,
che ha molto di nero e niente di tedesco. Tutti i brani hanno un tiro  mici-
diale e la costante del  feeling  di  una  band  che con tre elementi riesce
a  riempire  e  a convincere. Tre personalita` di spicco  e  nessuno  sotto.
Ecco un gruppo dove non c'e` la star, ma trae la propria forza dal bilancia-
mento dei ruoli. Gunter: il piu` Woody Guthrie, il piu` festaiolo, il  poli-
strumentista con una voce  molto "rurale".  Rupert:  il mago della chitarra,
il punto di equilibrio, voce baritonale. Gerd: il pazzo, sicuramente musici-
sta in grado di poter primeggiare  in ogni formazione, ma che invece sceglie
il  dialogo  e  il lavoro di squadra. Un album mozzafiato e  unico  nel  suo
genere, diciotto (e non  son  pochi)  brani  che  scorrono all'ascolto senza
stancare,  con  continui capovolgimenti di fronte. 64 minuti  e  40  secondi
di genuinita` e di vero Blues.  Comunque  vada  ci troviamo di fronte ad una
delle  piu` belle realta` del blues acustico europeo composto  da  musicisti
del circuito degli artisti da strada. Dove e` nato il Blues.

                                                               Beppe Finello


     Per concerti,  dischi  o  altro  materiale  telefonate allo 011/9411495
oppure in redazione.




                 Punto fugato - L'IMPENSABILE CONTAMINAZIONE

     Puo` la timida, gentile sinfonia connubiare con l'aspro suono  dell'ac-
ciaio? E puo` l'ascetico viandante degli Spazi Onirici incrociare la propria
strada col treno sferragliante che attraversa il pianeta a tutta  velocita`?
Sono domande che ricorrono  frequentemente,  anche  se in termini assai piu`
terreni,  tra i seguaci di due generi musicali (solo  apparentemente?)  agli
antipodi: il progressive, cioe` una musica pseudo barocca spesso con marcati
riferimenti classici, e l'heavy metal, decisamente piu` moderno,  evoluzione
ancor piu` grintosa del suono hard  di  due  decadi orsono. Da una parte ta-
stiere sognanti, eteree prendono per mano melodie ora spaziali, ora sinfoni-
che; dall'altra chitarre aspre,  lancinanti,  perennemente impegnate in gare
di  velocita`  e  distorsione e voci sataniche da mettere  i  brividi.  Si`,
paiono posizioni  inconciliabili;  eppure  a  qualcuno  e`  riuscita l'ardua
impresa  di  coniugarle. Parlo di quel movimento sorto  ad  inizio  anni '90
grazie  all'attivita`  di  gruppi  ormai <<quasi>>  celebri  quali MAGELLAN,
SHADOW  GALLERY,  DREAM THEATER, etc. Soprattutto questi  ultimi,  notissimi
in Italia per i molti  concerti  tenuti  nella Penisola, sono ormai ritenuti
i  portabandiera del neonato prog metal (o metal prog, a seconda  dei  punti
di vista...). A dire il  vero,  l'idea  non  e` proprio nuovissima, dato che
gia` 15-20 anni fa i canadesi RUSH muovevano importanti passi in tale  dire-
zione, e con loro una miriade  di altri complessi ormai sepolti nel dimenti-
catoio.  Ma  torniamo a DREAM THEATER & c. Secondo chi scrive,  ci  troviamo
dinanzi a strumentisti  tecnicamente  un  po'  al  di  sopra della media dei
gruppi metal (senza offesa per nessuno, beninteso), che gradiscono infarcire
le loro performances  live/studio  con  maestose  tastiere  e cambi di tempo
estemporanei.  Altrettanta  disinvoltura non  ostentano,  tuttavia,  qualora
si cimentano con qualcosa  di  piu` <<ose'>> (come  i tempi ritmici dispari,
per  esempio,  che del progressive sono quasi l'abc).  Sull'onda  di  questi
grandi nomi, anche  certi  gruppi  nostrani -  per  lo piu` esordienti, come
EVIL WINGS e MIDIAN, ma pure i veterani ASGARD - decidono di dare un'impron-
ta piu` <<cattiva>> alle  proprie  sonorita`  barocche  con l'uso di chitar-
re <<pesanti>>  e  ritmiche  sostenute.  Ma da qui  a  vaticinare  di  nuovo
genere o nuova tendenza (abbiamo gia` visto che tutt'al piu` si puu` parlare
di riproposta, sebbene in chiave piu` moderna) ne passa, eccome. E' opinione
comune che sia sempre  piu`  difficile  creare  qualcosa  nel campo del rock
che  non suoni <<gia` sentito>>; e cosi` ci si lancia sulle  contaminazioni,
sugli incroci piu` o meno riusciti  tra  un suono e l'altro, ciascuno a pro-
prio  modo  e  col proprio stile. Nel frattempo, lo zoccolo  duro  dei  prog
fan (non spingete, ci sono  anch'io!)  continua  a trastullarsi con castelli
incantati, (Troni dei) ricordi delle epoche andate e dotte citazioni  latine
marca Deus ex machina; ed i loro alter ego metallofili a frustarsi le trombe
di  Eustachio ed a contare i rullanti sfondati dagli emuli degeneri di  John
Bonham. De gustibus...

                                                                          io




                                JUNIOR WELLS
                         lo Spirito Blues e` tornato


     NOTE DI VITA

     Chi e` questo tra  i  tanti  nomi  della  musica  e piu` in particolare
del  mondo del blues? Iniziamo dall'inizio, suona bene questa frase.  JUNIOR
WELLS, nasce in Arkansas nel  dicembre  del  1934: trascorre in questo stato
del  Sud i primi anni della sua infanzia, qui conobbe i blues  dall'armonica
e dal canto di Rice Miller nei campi di cotone: <<Tutti iniziarono a cantare
e  in  quella  condizione il raccogliere il cotone  diventava  piu`  facile.
Io sono fortunato ad aver  visto  cio`  e  mai lo dimentichero`>>. Non e` un
fattore  da  poco  come influenza per la musica aver  vissuto  queste  cose,
non e` per me un  luogo  comune,  quando  questa generazione di musicisti ci
lascera`  il  blues perdera` molta della sua vera vita. La  vita:  nel  1941
si trasferisce a Chicago e  conosce  nella citta` ventosa tutti i personaggi
che  diverranno  famosi  e importanti per il blues  moderno:  Muddy  Waters,
Buddy Guy, Elmore James  e  Otis  Span  e  tanti altri. Negli anni '50 entra
come  armonicista  nella band di Muddy Waters al posto di  Little  Walter  e
parte tutta la sua  carriere  che  lo  vedra` armonicista, cantante e autore
molto  eclettico  che  sa dosare il blues  di  elementi  funk,  R&B (rithm &
blues) ed anche rock. Negli anni '70  in  coppia  con il suo amico Buddy Guy
conosciuto nella band di Muddy girera` i piu` importanti teatri rock  ameri-
cani e europei a  fianco  dei  Rollig  Stones.  Il  resto dopo un periodo di
pausa e` storia di anni vicini a noi.

     L'ALTRO IERI

     Non  so  se  l'ho detto chiaro, tanto ora lo ripeto:  Junior  Wells  e`
un bluesman: un armonicista, un  cantante  e autore di alcuni classici blues
come: <<Missin' with the Kid>> (frase che ripeteva sempre sua figlia  all'e-
ta` di cinque  anni), <<Come  on  in  this  house>>, <<Little By Little>>...
L'uscita di un suo nuovo album EVERYBODY'S GETTIN' SOME e la  partecipazione
al Torino blues festival di poco tempo  fa sono due buoni motivi per presen-
tarvi  chi  da tempo non si faceva piu` sentire ed ora  torna  alla  grande.
Il concerto nella prestigiosa  sede  del  Lingotto  e`  stato un vero evento
con  tutto  il pubblico anche quello in smoking (che ha pagato  la  bellezza
di L. 80.000) in piedi ad  applaudire  un artista che ha dimostrato di cono-
scere tutti i trucchi del frontman che ama stare sul palco con un  esprienza
di un mezzo secolo. Il sessantenne  JUNIOR  si era presentato sul palco dopo
che la band gli aveva preparato un tappeto sonoro con un giubbetto di  pail-
lettes, il cappello bianco, una  catenina  al  collo con la scritta... WELLS
lunga 15 cm (circa) e le scarpe alla James Brown. Ne hanno in comune  questi
due artisti di cose, infatti  sia  lo  spettacolo  che l'album hanno i passi
e  il groove di un blues con molto funky: a proposito grande il  chitarrista
soprannominato the Funky master.  Un  blues  elettrificato che vive dal vivo
nel suono di un armonica inconfondibile nella semplicita` delle note: soffio
lineare e vibrazione segnalato nella sua essnzialita`. La voce che si diver-
tiva  nelle profondita` nei falsetti, nei trilli e anche negli ululi  e  poi
conoscendo a memoria  il  ruolo  del  bandleader,  i  tempi dello spettacolo
lo  spazio  era ceduto a turno a tutti gli elementi  della  band:  trombone,
tromba, sax, due chitarre, tastiere e batteria.
     Il disco uscito poco fa  invece  presenta  un artista eclettico che con
la  sua esperienza sa spaziare tra i vari generi del blues da quello  rurale
del Delta in cui  la  sua  voce  e`  accompagnata  dalla sola National Steel
Guitar  di Sonny Landreth a brani R&B funkeggianti. E ancora un  emozionante
duetto con la  cantante  bianca  Bonnie  Riatt:  due  voci essenziali che si
evidenziano  a  vocenda.  Me ne stavo quasi per  dimenticare  troviamo  come
ospite Carlos Santana che da  qualche  anno frequenta assiduamente le ultime
uscite  dei grandi bluesman: la sua chitarra e il suo ambiente  sudamericano
si sente dalle prime note della  canzone <<Get Down, War>>. Merito di questo
eclettico  disco (quasi una summa delle capacita` espressive) e`  da  attri-
buirsi al produttore, soprattutto se si ha presente il disco del 1993 BETTER
OFF  WITH THE BLUES. John Snyder, il suo nome, ha portato via  Junior  wells
dalla ventosa Chicago  andando  a  Maurice  nella  Luisiana  terra del Delta
e affiancandogli una nuova band i Legendary White Trash Horn, i  chitarristi
che ho detto prima con  l'aggiunta  di  Rico  Mc Farland. Cio` dimostra come
per  il nostro sia molto importante, direi vitale, la relazione, il  feeling
con l'ambiente e le persone  che  lo  circondano  e  qui e` come la luce del
sole...


     DISCOGRAFIA

     Voglio  indicarvi  qui, pochi ma sicuramente  fondamentali  dischi  che
possono sorattutto  essere  ancora  richiesti  con  una  certa facilita`. Il
capolavoro  del Chicago Blues elettrico come si suonava nei locali del  West
side della windy city:  HOODOO  MAN  BLUES (Delmark,  1965) inciso con Buddy
Guy  che  ritroviamo anche in GOING BACK (Isabel, 1981;  ripubblicato  ALONE
AND ACUSTIC per  l'Alligator,1992).  Ancora  con  la  partecipazione di Eric
Clapton  e  Bill  Wyman (bassista dei Rolling Stones  tranne  l'ultimo):  IN
MY YOUNGER DAYS (Red Lightnin'GB,  1957-63)  e  PLAY THE BLUES (Atco, 1972).
E... gli ultimi usciti BETTER OFF WITH THE BLUES e l'immancabile EVERYBODY'S
GETTIN SOME per la Telarc. Se a qualcuno non bastassero i dischi qui indica-
ti  o  volesse  saperne di piu` scriva pure alla redazione.  Ed  ora  auguro
a tutti buon ascolto  e  buone  vacanze  con  il blues sempre presente sulla
nostra  penisola,  un consiglio andate ai concerti blues non  costano  molto
e il divertimento e` assicurato.

                                                                      Johnny


     Questo articolo e`  dedicato  al  chitarrista  irlandese Rory Gallagher
morto lo scorso mese.




                    paralleo zero - PROGETTO DI COPERTINA

     Meglio  il  vecchio long playing in vinile o il compact disc?  Ma  sono
ancora domande da  farsi??  Tuttavia,  se  i  nostalgici del vinile appaiono
senz'altro ridicoli quando si aggrappano al <<romanticismo  dell'imperfezio-
ne>> (com'era bello  quando  si  sentivano  gli  scricchiolii  dei solchi...
e  la  puntina arava, arava...), lo sono un po' meno  quando  sostengono  la
mancanza di determinati  <<riti>> (veder  girare  il  disco  sul piatto, che
e` un fattore psicologico non secondario all'atto dell'ascolto).
     Quando  poi  si  arriva all'argomento <<copertina>>,  il  confronto  si
fa impietoso, una volta tanto,  per  il compact (per non dire della musicas-
setta!): anzi, quella del Cd non e` nemmeno a rigore di termini una <<coper-
tina>>,  ma  somiglia  di  piu`  a  una  qualunque <<confezione>>  dotata di
<<etichetta>>,  e`  un involucro di fredda plastica da cui  traspare,  quasi
accidentalmente, la prima pagina del libretto interno.
     Il quale, in virtu` delle  sue dimensioni, e` spesso malamente leggibi-
le,  poco  attraente, quando non graficamente povero. Non e` un  fattore  di
poco conto, se si pensa  a  quale  veicolo  di  significati puo` essere e fu
in  passato  la  copertina di un disco, molto piu` di quella  di  un  libro:
la <<cover>> come biglietto da visita, come specchio eloquente del contenuto
musicale, come fonte di invenzioni stilistiche e di suggestioni  aggiuntive,
fa parte di un sistema di valori  che considera il disco come oggetto dotato
di  una sua dignita` complessiva, che trova la sua massima  espressione  nel
periodo compreso tra  la  fine  degli  anni '60  e  la meta` degli anni '70.
Sono gli anni del rock psichedelico e soprattutto di quello <<progressive>>,
la cui carica immaginifica cerca  una  rispondenza  ideale al di fuori della
musica  stessa:  ecco  allora i cascami letterari, le  citazioni  di  musica
sinfonica, barocca e  medievale,  la  dilatazione  dei  tempi,  il gusto per
il <<pastiche>> e l'ambizione di un'opera d'arte totale propri del  progres-
sive riflettersi in paesaggi  bucolici, scenari mitologici, immagini surrea-
li,  classicismo  scultoreo, pittura d'ogni epoca, gnomi, folletti  e  altri
personaggi della letteratura  fantasy,  che  sono  le  icone piu` ricorrenti
in questo genere di copertina.
     A  questo  punto e` necessario fare dei nomi: non  tanto  di  musicisti
quanto di pittori e illustratori, del  cui lavoro quei musicisti si avvalse-
ro.  A  cominciare da Paul Whitehead, responsabile  dei  complicati  intarsi
su <<Pawn Hearts>> (Van Der Graaf  Generator) ma soprattutto delle allegorie
orrorifiche  che  rivestono  i dischi dei Genesis degli  anni  1970/72,  con
aderenza d'atmosfera pressoche'  perfetta.  I  Genesis,  del canto loro, con
intricate  partiture  musicali e testi farneticanti  e  metaforici,  offrono
probabilmente materia prima per le  ossessioni visuali di Whitehead, macabre
e inquietanti messe in scena della violenza: di qui il coltello che  sfregia
l'interno  rinascimentale  di "Trespass" (e  favole  arcane  e  crudeli sono
le canzoni qui contenute, Da <<White Mountain>> a, appunto, <<The  Knife>>);
oppure lo scenario  di <<Nursery  Cryme>>,  un  campo  da  cricket nel quale
una  bambina  in  abiti ottocenteschi gioca con le teste  di  alcuni  bambi-
ni (proprio l'argomento di <<The Musical  Box>>,  il  brano piu` celebre del
disco); infine l'affollato paesaggio di <<Foxtrot>>, con una versione defor-
mata della tradizionale caccia alla  volpe (i cacciatori hanno visi mostruo-
si,  mentre la preda e` una donna con la testa di volpe), e,  sullo  sfondo,
palazzi  in  costruzione  (oggetto  della  storia  di  sfruttamento  cantata
in <<Get'em Out by Friday>>), piu` altri criptici rimandi.
     Ad  ogni  modo, anche senza il contributo di Whitehead,  i  Genesis  si
dimostrano molto  attenti  all'aspetto  visuale  delle loro opere: <<Selling
England  by the Pound>> (1973) ha in copertina un dipinto di Betty  Swanwick
esplicitamente ispirato al brano <<I  Know  What  I Like>>, mentre <<A Trick
of the Tail>> (1976), con quei personaggini che sembrano usciti da un  qual-
che romanzo di Swift o di  Dickens, opera di un'attenta ricerca iconografica
da  parte  del celebre Studio Hypgnosis (che lavoro` anche  per  Pink  Floyd
e Led Zeppelin), accentua l'impressione  che  il mondo musicale dei Genesis,
oltre che molto <<english>>, sia indecifrabilmente sospeso tra l'eta` vitto-
riana e l'eta` contemporanea. A mo'  di suggello di questa situazione, biso-
gna ricordare che la casa discografica per cui il gruppo incideva all'epoca,
la <<Charisma>>, aveva come logo,  indovinate un po', il famoso <<cappellaio
matto>>, proprio quello disegnato da Sir John Tenniel per la prima  edizione
di <<Alice in  Wonderland>>  di  Lewis  Carroll...  Casualita`? Coincidenze?
Mah...  E che dire di analoghi sodalizi musica/immagini promossi  da  alcuni
ex componenti di quel celebre gruppo, quali Anthony Phillips e Steve Hacket-
t, le cui musiche sognanti e fiabesche sono accompagnate dal lavoro  rispet-
tivamente  di  Peter  Cross (pregevolissimo  illustratore  dal  tratto molto
nitido,  specialmente  in  animaletti  come scoiattoli e  Koala)  e  di  Kim
Poor (moglie di Hackett, pittrice dai toni onirici e velati)?...
     Meno implicato in questo tipo  di  sincretismo artistico, ma pur sempre
abile  designer  e` Roger Dean, la cui fama e` legata a quella di  un  altro
grande gruppo di progressive: gli Yes. Sue sono la copertina di <<Fragile>>,
con  quel  disegno del globo terracqueo visto nella  sua  totalita`;  quella
di <<Close to the Edge>>, completamente verde; il parco acquatico di <<Tales
from  Topographic  Oceans>>; lo scenario medievale,  Quasi  camelotiano,  di
<<Relayer>>, e  quello  futuribile/primordiale  di <<Yesterdays>>  e di <<U-
nion>>;  tutti  complementi ideali per la musica  degli  Yes,  magniloquente
e sinfonica, meno  attenta,  rispetto  a  i  Genesis,  al  valore dei testi,
genericamente  affascinante  ed evocativa: come i disegni  di  Dean.  Questo
gusto  didascalico  viene  raccolto  negli  anni '80,  in  pieno  periodo di
riflusso  d'interesse, dai Marillion, alfieri forse controvoglia  di  quella
fioritura denominata <<new prog>>. I  quattro  dischi e gli svariati singoli
incisi  dal  gruppo  tra il 1983 e il 1987 portano anche la  firma  di  Mark
Wilkinson, che per la  musica  brillante  eppure  ricca  di malcontento e di
dolore,  e  per  i testi verbosi e letterariamente  elaborati  del  cantante
Fish realizza delle  copertine  iperrealiste,  con simbologie ricorrenti (il
camaleonte,  la  ragazza),  citazioni  aggiornate  ai  tempi (nella   stanza
raffigurata su <<Script  for  a  Jester's  Tear>>  si  intravede, per terra,
un  certo  disco dei Pink Floyd...), riferimenti biografici (i  problemi  di
alcoolismo patiti da  Fish  sono  sottolineati  dal bicchiere rovesciato che
si  vede  su <<Fugazi>>, o dall'iconografia da pub  che  riveste <<Clutching
at Straws>>). Ma meglio ancora  dei  particolari  sparsi qua e la` si assume
a  traduzione  visiva della musica dei Marillon  l'onnipresente  figura  del
<<Jester>>, il giullare dalla cresta  colorata  e dalla maschera che esprime
dolore  e  rabbia  allo stesso tempo: un segno quanto mai  raro  di  ricerca
di un continuum discorsivo e  ispirativo,  che  promuove i dischi a capitoli
evolutivi di una storia ancora da completare.

                                                                Mad Man Moon