ANTEPRIMA




THE CHEMICAL BROTHERS
Dig Your Own Hole
(Virgin, 1997)

Con quest’album si intensifica la pioggia delle opere di fine millennio. Un millennio che finisce nell’oscurità, nella frenesia e nella tensione nevrotica.

Nell’ambito del nuovo suono sintetico CHEMICAL BROTHERS e Daft Punk hanno raggiunto quotazioni stellari, sono già un paradigma da copiare.

Se è così, perché Homework mi fa letteralmente "cagare" e Dig your own hole invece mi entusiasma? Forse che con la "chimica" è facile sbagliare dosaggi e ingredienti?

La ricetta è spontanea come il loro background musicale (Indie rock per Tom Rowlands, Acid per Ed Simons), ma non è una somma algebrica. I CHEMICAL BROS rendono onore alla loro fama di grandi non-musicisti, capaci di gettare, apparentemente a caso, manciate di suoni e di creare con imperscrutabile istinto brani fantastici. Questo lavoro dà forse l’ultima martellata ai pregiudizi dei più tradizionalisti sulla techno. E’ indubbiamente musica tecnologica, immersa nelle fredde scosse di un mondo blu cibernetico. Ma non è solo musica tecnologica: è un suono veramente nuovo. Il miglior ibrido immaginabile tra potenza selvaggia e istintiva del rock’n’roll e culto delle BPM. Il rock è invocato nei titoli ("Don’t Stop the Rock" e l’hit "Block Rockin’ Beats", un cupo agglomerato di suoni elettrici, atmosfere urbane, ritmi in fuga velocissima, nervi tesi); ancor più lo è nella sostanza ("Setting Sun", la mia preferita, ha una fisicità impressionante). Ovunque è desiderio di muoversi - ballare, correre, sfrecciare su strade cittadine di luci al neon, volare su metropoli alla Blade Runner. L’adrenalina schizza fuori da ogni singolo solco.

Fanno i duri con ultraminimali sequenze funky, come i "cugini" Daft Punk ("It Doesn’t Matter", il brano con più ammiccamenti techno, dal ritmo martellante e pressante) e vanno verso una personale rivitazione della psichedelia ("The Private Psichedelic Reel", stessa struttura della beatlesiana "Tomorrow Never Knows"; "Where Do I Begin", elettrofolk e ultradosi di interferenze). Tra ritmi campionati e sirene che ben sostituiscono le chitarre spuntano strumenti inconsueti (l’harpsichord sinuoso in "Lost in the K-hole", il clarinetto in "The Private...") e "vere" voci di cantanti (da Noel Gallagher alla nuova regina del Bristol Sound, Beth Orton).

Non-musica? Semmai il tanto atteso momento dell’emancipazione del futuro in musica, della nascita di una nuova figura, che non è nè un rocker, nè un dj.

Comunque un ottimo lavoro, viene da chiedersi come abbiano potuto comporre undici brani così belli: difficile che riescano a ripetersi. Per ora godiamoceli così, e pensiamo a quando New Order, Happy Mondays e Depeche Mode parevano il migliore compromesso tra rock, dance ed elettronica...

Una cosa: da ascoltare a pieno volume.

Testi: Godot (corsivo) e Madmanmoon Mixaggio: Sakurambo




NICK CAVE & THE BAD SEEDS
The boatman’s call
(Mute, 1997)

Può sembrare retorico dire che NICK CAVE non è più quello di una volta. Ma non posso nascondere un briciolo di delusione all’ascolto di questo Boatman’s Call, per quanto non sia affatto da buttare.

Che lo spirito aggressivo e violento dell'ex-cantante dei BIRTHDAY PARTY e dell’autore di autentici capolavori come From her to eternity e Tender prey si fosse assopito e trasformato gradualmente nell’archetipo svuotato del malinconico maudit (a dire il vero sempre più malinconico e sempre meno maledetto) era chiaro, ormai. Già da tempo eravamo ben lontani dai macchinosi (ma quanto affascinanti!) testi dei BIRTHDAY PARTY o dalle perverse incursioni nel campo religioso delle prime canzoni, e ci avvicinavamo sempre di più verso una maturità segnata da sentimenti sempre profondi, ma ormai monocromatici, come quello dell’amore.

The Boatman’s Call è un album d’amore. Nient’altro; non si presenta nemmeno più il dualismo amore/morte di Murder ballads. Qui regna l’amore, un amore triste, maledetto, che ruota attorno alla figura che NICK CAVE si è costruito addosso con una capacità maniacale, come una sorta di sanguinolento baco. Lui è dannato e l’amore non lo raggiunge. Donne impossibili, ineffabilità, delusione. Dodici canzoni del più triste e commovente amore. E alcune, tra l’altro, veramente molto belle come There is a kingdom o West country girl, ma pur sempre dodici canzoni troppo simili tra di loro, monotematiche, a tratti noiose, eccessivamente facili, a volte persino banali, che messe in fila non possono che causare stanchezza. Nonostante la raffinatezza delle singole canzoni (perchè, sia chiaro, NICK CAVE rimane indubbiamente un grande compositore), è impensabile proporle in successione ad un adoratore di Prayers on fire.

Forse sarebbe meglio che il "vecchio" australiano si prendesse un po’ di riposo, in modo da trovare nuove sorgenti di ispirazione a cui attingere, così da non chiudersi più nei suoi complessi interiori e portare alla luce quelle grandi doti che aveva e che non solo predicava, magari con l’aiuto dei suoi BAD SEEDS, sempre più oscurati e nascosti, la cui genialità dei principali membri (Blixa Bargeld e Mick Harvey) ha condito le canzoni di NICK CAVE di indubbio fascino, in passato.

Se volete scoprire chi è NICK CAVE ascoltatevi qualcuno degli album sopra citati (rispettivamente From her to eternity, Your funeral... my trial e Tender Prey di NICK CAVE; Prayers on fire dei BIRTHDAY PARTY), se volete un ottimo album d’amore affidatevi pure a The Boatman’s call.

Godot




L.I.N.
Subterminal
(Sub/Mission-Audioglobe, 1997)

Secondo singolo estratto dall’album di esordio OO Mind per gli italici L.I.N.. & Terminal è presente nei due remix operati dai "fantascientifici" Test Dept., i quali imprimono il loro inconfondibile marchio trance sperimental-tribale, mentre gli inediti Ghana e On Line, destrutturati sonicamente da Favati (Pankow) e May (Mentolla Tauta), si fanno ascoltare più che volentieri, in virtù di un’efficace base ritmica e di un buon "appeal"!

R.M.




MOBY
Animal Rights
(Mute Records\BMG, 1997)

L’ultima volta che parlai di MOBY era per recensire il suo gradevole album di remix incentrato su suoni techno-trance-house, e non mi sarei mai aspettato, dopo pochi mesi, un simile mutamento. Ma, a dire il vero, la sua performance a "Sonoria" già mi aveva insospettito e ricordavo anche che in passato aveva militato in band hardcore e rock (Ultra Vivid Scene). L’apertura di Animal Rights spetta a Now I let it go, pezzo soft in cui domina il violino, ma è dal seguente Come on Baby che le sorprese iniziano: ritmi tirati, riff acidi e incessanti ed assolo finale! Someone to love e Heavy Flow sono speed metal industrial, Soft è tutt’altro che "soft" (...), Say it’s all mine presenta divagazioni pseudo gotiche, Face it ha le chitarre "made in Black Sabbath" e My love will never die è davvero un buon pezzo. L’album contiene, in edizione limitata, un secondo CD (Little Idiot) composto di brani strumentali, suonati con il solo ausilio di piano, tastiere e synth. Credo che la scelta di occuparsi della produzione, della parti vocali e di tutti gli strumenti lo abbia un po’ limitato, ma nonostante ciò MOBY è un personaggio che sfugge ad ogni catalogazione, in grado di disorientare pubblico e critica e a cui non manca certo il coraggio di cambiare e osare!

R.M.




KARATE
In Place of Real Insight
(Southern Records, 1997)

Chi si accosta al secondo album di questo terzetto di Boston potrebbe essere tentato di usarlo come sottofondo sbrigando le proprie faccende, o di usarlo come ‘massaggio’ per i propri padiglioni. Sarà, invece, sufficiente prestare un po’ d’attenzione a questi nove brani per capire quanto di immediato e di istintivo c’è nel loro incedere lieve e melodico, come nell’introduttiva This, plus Slow Song. Sono canzoni strutturate in maniera molto semplice (Die Die pare una libera rivisitazione di ‘No Quarter’ dei Led Zeppelin) e raffinata, che generano una sensazione di leggero torpore. Da questa apparente narcosi si esce con It’s 98 stop e con New New (gran bel duetto vocale): piccole incrostazioni rumorose prodotte dalla chitarra. Un segnale. Un indizio, che rimanda -pacatamente- agli Slint, band americana (di Louisville) di culto nei primi anni novanta con due e.p. e l’epocale, "atmosferico" album "Spiderland".

Non aspettatevi, dunque, suoni colti alla Tortoise, per intenderci. Piuttosto lasciatevi trasportare dalla dolcezza non melliflua dei KARATE, magari... cantando: "Immagina te stesso giovane, con le tasche piene di acqua..."

Vincenzo Capitone




Microsolchi:
percorsi non convenzionali in territori ad alto rischio di contaminazione musicale

Smettete di ascoltare per un attimo la solita aria fritta tipo Foo Fighters. Ci sono, esistono ancora i buoni gruppi. Come i BLONDE REDHEAD ovvero Amedeo e Simone Pace (italiani, avete letto bene) trasferitisi a New York e cresciuti -live- all’ombra di Sonic Youth e Unwound. Marcata propensione per suoni irregolari e stridenti, ballads e atmosfere elettroacustiche. Tutto questo è il loro terzo album Fake can be just as good (Touch & Go). Stupendo -ascoltate ‘Bipolar’ - grazie anche all’equilibrio tra il sound e la conturbante presenza vocale (e fisica...) della nipponica Kazu. Consigliatissimi.

Non hanno bisogno di presentazioni, invece, i MAKE UP di Washington, band che potrebbe tranquillamente essere nata trent’anni fa con gli MC5 e i Seeds . Dei tre dischi noti, After Dark è il meno celebrato . Ma anche quello che colpisce di più: sussiste, perfino negli episodi minori, la ricerca di un suono ‘vero’, crudo, libero, in presa diretta. Un paio di sporchi blues ben assestati, un hit probabile come ‘Gospel 2000’, ma soprattutto ... Ian Svenonius. Provocatorio. Urla, come un indemoniato. Dialoga, come un predicatore nero. Si dimena, come un James Brown giovane. Che la modernità del rock stia in un ritorno ai primordi?

Intanto... ’gospel yeh yeh’ per tutti. Sono di questo parere i gruppi della compilation BURN ONE UP (Roadrunner). Dominatori assoluti i granitici SLEEP e gli arcinoti FU MANCHU (ruvidume poderoso alla Blue Cheer, da far invidia alle bands post-core). Apprezzabili i KARMA TO BURN (il polveroso suono sudista notevolmente appesantito) e i ‘talentini BEAVER (li aspettiamo alla riprova). Il cambio di genere non ha proprio giovato a Mike Amott con i suoi SPIRITUAL BEGGARS, mentre i LEADFOOT sono alle prese con un hard psicotico e un po’ stantio. Futuro da ‘cosmic rockers’ per gli ex-Kyuss. Infine i CATHEDRAL. Che celebrano il proprio funerale!!

Al contrario buone notizie per chi balla volentieri con le Cibo Matto. Le due giapponesine Hatori e Honda insieme ad alcuni amici (tra cui Mike Mills), si fanno risentire -su etichetta Grand Royale- col nome di BUTTER 08. Ne risultano dodici brani ricchi di contaminazioni alla Beck, funk, campionamenti leggeri e sofisticati, un’attitudine roots un tantino artificiosa. Pezzi come ‘Mona Lisa’ risultano gradevoli quanto inconcludenti. Una colonna sonora da consumare velocemente.

In ambito metal, oltre al gradito ritorno degli ENSLAVED (il black è questo e stop!), si rifanno vivi i MACHINE HEAD con The more things change... (Roadrunner). Francamente una delusione. Solito trucchetto: ricerca di integralismo e purezza trash, con ammiccamenti a Metallica e Alice In Chains. Un paio di covers, tra le cose migliori (Discharge e Ice-T): ben presto il disco scivola nella mediocrità, facendoci rimpiangere i Pantera più fulminanti.

E' uscita la compilation SONICHE AVVENTURE II (Fridge) con molti gruppi nostrani. In prima fila, il terrificante 'muro' degli UNWELCOME, poi il rock industrializzato degli SLANG e gli scanzonati PEAWEES, ovvero i Ramones redivivi. Il resto? Non entusiasmante, ma ascoltabile (evitate i ‘pausiniani' WOP). Il disco è benedetto dagli americani RYAN KING (psyco-hip hop) e dal terrorismo di MEATHEAD (l’inedito ‘Inflatable’).

Quasi dimenticavo: Mauro ‘Teho’ Teardo -mr.Meathead- ha realizzato con M.j.Harris (Scorn, Lull, N.Death) il progetto MATERA che ha fruttato Same Here (Sub/Mission). Partendo dalle singole esperienze (soprattutto industriali) creano otto brani in cui il duo si diverte a scrivere, riscrivere e a sporcare l’idea di ambient perfino con inserti di jungle e drum’n’bass. Miglior pezzo 'Non è', dub liquido e ‘tripposo’. Solo per padiglioni esigenti.

Finale con apoteosi: è uscito il sesto disco dei norvegesi MOTORPSYCHO (Angels and Demons at Play-Stickman Records, distribuito dalla milanese Self).Con ‘Heartattack Mac’ e ‘Timothy’s Monster’, ricordiamo i loro classici e rustici 'crescendo' gia presenti in Demon Box. Capirete il grado di maturità della band di Trondheim quando vi confronterete con i tredici minuti ipnotici della suite ‘Un chien d’espace’ o col colloquio (lo-fi?) tra piano e voce di Bent Saether. Mentre ’Pills’ pare nata dagli Afghan Whigs. Ma l’ampiezza di linguaggio è tale che qualunque accostamento sarebbe riduttivo e infantile (leggi grunge o progressive). Per ora, gustate e diffondete.

Vincenzo Capitone




EMERGENZE ROCK ______________________________________


BANDADAPO'
L'altra via TORINESE al REGGAE

In controtendenza con la decadenza generale che non da ieri affligge la città della FIAT, a Torino ormai da una decina di anni sta prendendo piede una scena musicale multiforme, fertile e dotata di una sua notorietà a livello nazionale e non solo (basti ricordare Mau Mau, Africa Unite, Statuto, Fratelli di Soledad, Mao e la Rivoluzione). Esempi come i BANDADAPO' mostrano il buon supporto fornito a questa scena da gruppi più nuovi e meno noti: ma lasciamo che si presentino essi stessi:

"Il progetto BandaDaPo nasce nella primavera del 1995 da un’idea di Andrea Ferrero, Bassista, (esperienze con Egocentro, Loschi Dezi, Lion Posse), Marco Alonzo e Pier Campanella, rispettivamente batterista e tastierista attivi da diversi anni e in molteplici gruppi dell’underground torinese. Dopo alcuni assestamenti della formazione con l’ingresso della cantante Patrizia Olivero (esperienze con blues bands cittadine ed attualmente studentessa presso il Centro Jazz), abbiamo dato inizio ad una buona attività live, anche al di fuori della nostra regione, approdando nel novembre del 1996 alla registrazione del primo demo realizzato nel Billybud Studio di Marcello Succo a Piazzo. Fulminati sulla via della black music abbiamo cercato di coniugare ritmi caldi quali reggae , funk o hip hop con la tradizione melodica italiana, filtrando il tutto con sensibilità metropolitana (attraverso l’utilizzo contemporaneo di percussioni acustiche ed elettroniche).

Riteniamo di aver raggiunto risultati soddisfacenti sia dal punto di vista dell’originalità che da quello della fruibilità della nostra proposta, aiutati anche dalla reinterpretazione, sul palco, di alcuni brani di artisti da noi amati: The Clash, Carmel, Paolo Conte su tutti".

Al solerte critico (?) il loro lavoro è parso veramente degno di nota: i due pezzi del lato "A" mostrano una band che ha ben chiara la direzione da seguire, nella quale prevalgono paesaggi reggae-dub. Dev’essere estremamente difficile frequentare con buoni risultati questo genere nella zona torinese prescindendo dal sound e dalla decennale esperienza degli Africa Unite, ma i sette BANDADAPO' vi riescono pienamente trovando una loro strada venata di psichedelia alla Ozric Tentacles (evidente soprattutto in Stimolo la Mente). Non mi sembra eccezionale invece il remix curato dal loro amico di Canzone numero cinque che occupa l’intero lato "B" del demo tape: a tratti è interessante ma alla lunga mostra un po’ la corda dal punto di vista compositivo. Questo dimostra come il gruppo dia il meglio quando compone senza interventi esterni. Detto dell’ottima qualità della registrazione cosa aggiungere ancora: aspettiamoli dalle nostre parti, il più presto possibile...

 

Formazione:

KAOMA-batteria
ZULUBA-percussioni elettriche
PIERLOOPPA-tastiere
ICIO-chitarra
WILLY-basso
PATTY'O'-voce
MARCOR-percussioni


Contatti:

BandaDaPò c/o Alonzo
via Gerbido 7, 10034 Chivasso (TO)
tel. 011/6690279/3 (Marco, Pier)

Corvo Rosso




SPAZIO INTERFERENTE - NEWS from the inside
Aggiornamento sulle Attività della Associazione Culturale Interferenze


La sede… c'è, yeha!

Cari lettori,sono lieto di potervi comunicare che la nostra associazione ha ottenuto l’attribuzione di una sede. Questa sede ci darà modo di far partire un discorso associativo più continuativo e ci darà l’opportunità di avere un contatto più diretto con voi che ci seguite e con tutti i nostri associati. Potremo finalmente unire le nostre forze per far nascere un luogo d’incontro e di confronto sui temi che da sempre ci sono cari, ma per fare questo abbiamo bisogno anche di voi. Unire le forze per fare assieme quello che il singolo non riesce a fare è l’idea di base. Per questo motivo il contributo di ognuno, non importa se piccolo o grande, è importante. In vista dell’apertura della sede stiamo cercando di risolvere i problemi materiali, stiamo cercando tavoli, sedie, scrivanie, scaffali, mobili, attrezzature audio-visive con cui arredare lo spazio messo a nostra disposizione dal comune.

Ovviamente nella sede porteremo tutte le attrezzature che abbiamo acquistato in questi anni di attività e, ci sarà anche l’archivio di Interferenze che comprenderà tutti i CD e i demo che sono stati donati all’associazione, le videocassette, i libri e le riviste che acquistiamo per far crescere quello che per noi è un progetto fondamentale: una risorsa a disposizione dei nostri associati, un archivio di testi su forme culturali poco o mal documentate dai circuiti canonici. Per far diventare questo archivio sostanziale abbiamo però bisogno di aiuto, già molti associati si sono detti disposti a fornire il loro piccolo patrimonio personale di cassette, riviste o libri, mantenendo naturalmente la proprietà degli stessi, ma dando la posssibilità a più persone di condividere le informazioni. Ogni forma di contributo che ci vorrete dare sarà la benvenuta, da vecchi mobili che a voi non servono più, fino a libri, dischi o riviste che pensiate possano essere utili per il nostro progetto, ricordando che la proprietà se volete rimane vostra, ma metterli a disposizione di altri significa far crescere un discorso associativo, un discorso di scambio prolifico e gratuito di informazioni, significa unire le forze per creare quello che forse domani sarà unico nel suo genere.

Per coloro che vorrebbero darci una mano, ma non con donazioni di materiale, ricordo che all’Associazione Culturale Multimediale Interferenze si può aderire con due tipi di tesseramento: una tessera di socio sostenitore, ovvero di socio che sostiene e può partecipare alle attività interne dell’associazione tramite il versamento della quota associativa (una quota libera che parte da un minimo di £30.000, ma per voi che ci state leggendo in qualità di abbonati e per tutti quelli che sono stati abbonati in passato, la quota minima è ridotta del 50% ovvero è di £15.000), e una tessera di socio ordinario, socio che prende parte alle decisioni dell’Associazione (quota di £100.000). Lo statuto della nostra Associazione con gli scopi e le finalità sarà in visione nella sede a disposizione di tutti coloro che vorranno leggerlo. Ogni nuovo socio porterà un contributo per l’arricchimento del patrimonio dell’associazione, per prima cosa culturale, tramite le sue idee e le sue capacità. Colgo l’occasione per salutare un nuovo associato presente fin dagli inizi alle attività dell’Associazione, in particolare alla stesura di Interferenze Blu: Beppe Marchisio.

Lele Giaccardi




questo supplemento è curato dall'Associazione
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_____________________________________________ Parallelo zero


Non è vero che piacciono solo ai bambini, anzi…

Connubio transgenico: epica fantasy, erotismo, comicità demenziale e musica rock...
...questa sera i bambini vanno a letto presto...

Uscito nelle sale cinematografiche nel 1981, HEAVY METAL è uno strano e per molti versi unico oggetto cinematografico, ingiustamente condannato per anni all’oblio e all’invisibilità, fino alla recente pubblicazione della sospirata videocassetta (Columbia Tristar Pictures). HEAVY METAL è un film che mette sotto lo stesso tetto fumetti, cartoons, fantascienza, score sinfonico (di Elmer Bernstein, mica bruscolini) e musica rock, erotismo e demenzialità, un’operazione che esplicita il legame, fino allora sotterraneo, esistente tra alcune forme di espressione artistica "popolare" appartenenti a un certo immaginario giovanile, a un’area culturale comune.

Gli eventi che hanno portato alla realizzazione di questo film sono il frutto di felici coincidenze e di sforzi convergenti da luoghi e persone molto diversi: tutto parte da METAL URLANT, rivista a fumetti stampata in Francia di avventure fantascientifico-erotiche (una tradizione quest’ultima che risale all’archetipo "Barbarella" di Jean Claude Forest, anno 1962); la rivista viene scoperta nel 1977 dal produttore cinematografico Leonard Mogel, che ne importa i diritti di pubblicazione negli Stati Uniti: HEAVY METAL nasce dunque prima di tutto come fumetto di grandissimo successo. L’idea di un film che riprenda la struttura episodica e aperta della rivista si concretizza con l’incontro tra Mogel e il regista-produttore Ivan Reitman, reduce dai fasti di ANIMAL HOUSE: la collaborazione tra i due finisce dunque per unire due backgorund paralleli, il fantasy e il demenziale, l’epico e il ridicolmente eccessivo. Saggiamente si opta per una trasposizione cinematografica non con attori (vedi la contemporanea disastrosa riuscita di SUPERMAN) ma a disegni animati, con il coinvolgimento di nomi nobili del cinema d’animazione come i registi John Halas, Jimmi Teru Murakami e Jack Stokes, e sceneggiatori come Dan Goldberg e Leon Blum, il tutto sotto la supervisione di Gerald Potterton. Il risultato sono sette episodi ambientati in tempi e luoghi differenti incorniciati dal racconto orale di una pietra verde che rappresenta la forza del Male. Non tutti gli episodi hanno lo stesso valore, ma vale la pena ricordare il primo, "Harry Canyon", dalla trama noir e dalle atmosfere che oggi chiameremmo cyberpunk; "So Beautiful & so Dangerous", deliziosamente demenziale con i suoi alieni che hanno rapporti sessuali con gli umani e che si fanno di "plutodroga"; l’ultimo, "Taarna", affascinante ritratto di eroina destinata a sacrificarsi e a trovare reincarnazione proprio nel finale incorniciante.

Nella stratificazione di linguaggi che va a formare la sostanza di HEAVY METAL, anche il contributo di artisti del pop e del rock anglosassone alla colonna sonora avviene in modo non banale e in alcuni casi assai pertinente: accanto a brani più o meno famosi di Grand Funk Railroad, Black Sabbath, Cheap Trick, Donald Fagen e Stevie Nicks spicca la presenza dei Blue Oyster Cult, che già da parte loro erano coinvolti in tematiche fantascientifiche che bene si abbinavano al loro suono oscuro e metallico (mentre HEAVY METAL usciva nelle sale il gruppo pubblicava l’album dall’eloquente titolo "Culthosaurus Erectus"), mentre i Devo parlavano di "de-evoluzionismo" sulla base di un suono scheletrico e meccanico, e i Judas Priest avevano già da tempo fatto propria una certa estetica "eroica" e futuristica (tute satinate, capelli lunghi, ecc.) che trova molta rispondenza nelle atmosfere del film e che anticipa la nascita dell’heavy metal come genere musicale, come movimento e come look (coincidenza?). E certo non si poteva ancora parlare di "estetica da videoclip"...

Madmanmoon




_________________________________________ storia della musica


Russia, secolo decimonono:
nasce la coscienza nazionale di un popolo.

Il gruppo dei cinque

Una delle caratteristiche fondamentali del Romanticismo musicale fu il sorgere di centri autonomi di produzione musicale in quei paesi che fino ad allora avevano vissuto all’ombra delle scuole Italiana, Francese e Tedesca, cioè la nascita delle Scuole Nazionali. Tra questela più interessante fu sicuramente quella russa. Glinka ne fu il padre. Pur trasparendo ancora netta l’influenza della scuola Italiana e Francese, nondimeno, attingendo al folklore, egli già manifestava sia nel ritmo, sia nelle armonie, caratteristiche peculiari della musica popolare russa. A lui, come a Puskin in campo letterario, si riconosce il ruolo di fondatore di una coscienza nazionale nella cultura russa. Tratto comune a tutti gli esponenti delle Scuole Nazionali, ma soprattutto in Russia dove i musicisti si formarono fuori dalle istituzioni Scolastiche e Accademiche, fu il dilettantismo, inteso non come imperizia o semplicismo, ma come rifiuto a ciò che già esisteva di accademico. Anche dopo il 1860, quando si aprirono i Conservatori di Pietroburgo e di Mosca, i musicisti che si richiamarono all’insegnamento ideale di Glinka, rifiutarono quelle istituzioni. Il dilettantismo può anche essere considerato come effetto della società feudale russa, che costringeva i musicisti locali ad una condizione quasi servile, osannando invece quelli stranieri, specie gli operisti Italiani.

Un’altra caratteristica della musica russa dell’ 800 fu la grande polemica tra occidentalisti e slavofili, le due tradizionali anime della cultura russa. Da una parte troviamo i fautori di un rinnovamento fondato sulla assimilazione della cultura occidentale, dall’altra i nazionalisti che si schieravano dalla parte di Glinka ed opponevano il modello autoctono della cultura contadina. I primi ebbero la loro bandiera nel pianista e compositore Anton Rubinstein (fondatore del Conservatorio di Pietroburgo ed organizzatore del Conservatorio sul modello delle scuole tedesche).

Sul fronte opposto troviamo il GRUPPO dei CINQUE.

Formatosi a Pietroburgo intorno al 1860, venne soprannominato da Stasov, ideologo del nazionalismo musicale russo ed avversario del critico filo-occidentale Serov, con l’appellativo di "mogucaja kucka" o "gruppo possente". L’elemento catalizzatore fu Milij Alekseevic Balakirev (1837-1910). A questi si aggiunsero Cezar Antonovic Cui (1835-1918), Modest Petrovic Mussorsgkij (1839-1881), Nikolaj Andreevic Rimskij Korsakov (1844-1908) e Aleksandr Porfirievic Borodin (1833-1887). Tra questi il rappresentante più carismatico fu sicuramente Mussorsgkij.

Il comune ideale che univa questi musicisti era quello di dare vita ad un tipo di musica schiettamente nazionale, fuori da ogni forma di accademismo e da influssi stranieri, anche se, a onor del vero, largo spazio veniva ancora lasciato ai "progressisti" occidentali, come Liszt e Berlioz. Si leggevano insieme gli autori classico-romantici (soprattutto il Beethoven degli ultimi quartetti), cercando anche di portare avanti, tuttavia senza grossi risultati, un’attività compositrice di gruppo. Ognuno eseguiva le proprie composizioni, procedendo ad una specie di correzione collegiale. Questo sodalizio durò sino al 1874. Dopodichè inizierà un repentino sfaldamento e ciascuno dei componenti seguirà la propria strada.

Le basi estetiche del "Gruppo dei Cinque" si possono così riassumere:

- riconoscimento di Glinka come padre fondatore.
- l’arte non deve essere fine a se stessa, ma mezzo di comunicazione tra gli uomini.
- l’artista deve dare libero sfogo alla fantasia, senza pastoie tecnico-formali.
- l’opera, mezzo ideale per rappresentare l’uomo, deve sganciarsi del tutto dallo stile italiano.
- entro certi limiti, rifiuto del sinfonismo.
- i personaggi devono venire dalla storia nazionale o da leggende popolari.
- grande importanza al canto popolare e a quello liturgico.

Il più rappresentativo fu dunque Mussorsgkij, autore del "Boris Godunov", che mantenne anche un certo impegno politico e fu il più coerente ai principi estetici del gruppo.

Altri cercarono una mediazione tra nazionalismo e cosmopolitismo, come Rimskij Korsakov; questi,dopo la morte dei compagni, si dedicò al completamento e alla diffusione delle loro opere.

Antagonista del "Gruppo dei Cinque" e campione della tendenza filo-occidentale fu invece Peter Ilic Ciaikowskj.

Enne. Ci.


Bibliografia:

Renato di Benedetto, "Storia della musica-Ottocento I", EDT




MUSICA TIBETANA
Il mare nella conchiglia (*)

Ricordo da bambino quanta sorpresa suscitasse una conchiglia multicolore nella sua voluta conica, scivolare con le dita sulle sue screziature per infine portarsela all’orecchio, chiudere gli occhi ed ascoltare... La musica è un’emozione, probabilmente; è il linguaggio più immediato di cui l’animo si nutre. Se la natura, l’universo significano un libro aperto in forme libere e cangianti, e un silenzio rivelatore oltre il brusio effimero, la creazione musicale che ne coglie l’improvviso, l’informe e gli dà forma non può che risolversi in un atto religioso comunitario. S’intendono dunque le ragioni della musica sacra tibetana, di quella musica rituale eseguita nei monasteri da orchestre, cresciuta con pazienza nei secoli. Esistita in parallelo alla liturgia come forma di accompagnamento o di introduzione. E il suono, che in occidente è nato per imitazione della canzone umana, nel paese delle nevi rappresenta "il valore tonale di un carattere fondamentale della natura, in cui la voce umana è solo una delle molte vibrazioni che compongono la sinfonia dell’universo" (Lama Govinda).

Queste brevi considerazioni mi tornano alla mente di fronte a due recenti incisioni, TIBET: THE HEART OF DHARMA (Musical Expeditions, 1996) e ARMONIE TANTRICHE (Red Edizioni, 1996), diverse fra loro per scuola, ma dal sentimento concorde. L’una si compone di cinque brani, quattro della scuola Ghelup e l’ultimo "Life Enhancement" della scuola Drukpa-Kagyu; l’altra di sei brani della scuola Drukpa-Kagyu fra cui il noto "Canto autobiografico di Milarepa". Le ho acquistate quasi per caso, a distanza di mesi.

I due CDs, corredati da un ampio libretto illustrativo, ci pongono naturalmente in comunione con un cielo e una cultura lontana. Penso con curiosità allo stupore degli europei che per primi ascoltarono questa musica fondata non sulla melodia ma sul ritmo e sui puri valori del suono. Per analogia intesero il suono mantrico della natura come tuono, sussultare delle viscere terrene, ed è un turbamento scatenato dalle vibrazioni più profonde che uno strumento o voce umana possano emettere. Più evidenti e sublimi fra le vaste catene montuose del Tibet, solitarie regioni del mondo dove il maestro, la sua voce bassa, inonda di canto le sale dei palazzi. L’effetto pare simile a quello dell’oceano che gioca e crea onda dopo onda le maree, in una continuità ininterrotta. Flusso e riflusso che come in specchi si riverberano in una moltitudine sonora onni-comprendente.

E’ ciò che si avverte in maniera forse poi non ripetibile, al primo ascolto. Pochi altri suoni, difatti, ci avvicinano tanto alla sostanza immutabile dell’universo senza perdere la superficie abietta dove l’individuale giocando se stesso produce quelle ferite medicabili per mezzo dei suoni mantrici:

"Sulle vette delle montagne innevate dell’oriente,
Nuvole bianche fluttuano alte in cielo.
Là ebbi una visione del mio Maestro.
Di nuovo e di nuovo ricordo la sua gentilezza,
E ancora sono mosso dalla fede".

Così recitano le parole del primo Dalai Lama, Gyalwa Gedun Drup, mentre contempla una montagna, ricordandomi con una punta di presunzione per un europeo, i versi di un Lied goethiano: "Su tutte le vette/Regna la calma...Presto/ anche tu avrai riposo".

Decus


(*) ricavato da una conchiglia naturale è anche lo strumento musicale chiamato Dung-Kar.


TESTI di RIFERIMENTO:

H.V. Guenther La filosofia buddhista nella teoria e nella pratica (Ubaldini Ed/Ed. Astrolabio)
H.V. Guenther La vita e l'insegnamento di Naropa (Ubaldini Ed/Ed. Astrolabio)
Lama Anagarika Govinda I fondamenti del Misticismo Tibetano (Ubaldini Ed/Ed. Astrolabio)
Lati Rimpoce La mente nel buddhismo Tibetano (Ubaldini Ed/Ed. Astrolabio)


La citazione è tratta da:

La musica tibetana, in Lama Anagarika Govinda La via delle Nuvole Bianche, cap 7 (Ubaldini Ed/Ed. Astrolabio)