1.                Riflessioni inattuali sulla formazione professionale

di Maurizio Pentenero

 

La Formazione Professionale costituisce un universo apparentemente separato rispetto alla scuola pubblica. In realtà, per le sue caratteristiche particolari, è un laboratorio sociale nel quale si sperimentano innovazioni organizzative e didattiche che troviamo puntualmente applicate nella scuola “normale”.

È  necessario che ragioniamo su quanto avviene in questo settore anche in considerazione del fatto che l’80% degli studenti della scuola secondaria superiore frequentano istituti tecnici e professionali, i più affini alla Formazione Professionale senza dimenticare che alcuni processi di “innovazione” riguardano l’assieme della scuola come l’assieme della società.

Il testo che segue testo che punta, induttivamente, all'individuazione delle linee di fondo di un processo di taylorizzazione del lavoro formativo e non deve né essere inteso, come un documento settoriale, sebbene nasca all'interno di un ambito specifico quale è quello della formazione professionale.

Potrebbe far parte di un grande capitolo dal titolo "industrializzazione del lavoro intellettuale e della formazione", in questo caso professionale, ma che guarda già alla tendenza.

L'autore, Maurizio Pentenere, docente all’ENAIP di Torino si ritiene un co-autore e considera il testo il prodotto di un lavoro collettivo.

 

Sulla Formazione Professionale riportiamo alcuni, brevi, dati:

1) in Piemonte da lavoro a circa 2000 dipendenti (docenti ed impiegati) suddivisi in 63 Enti (più o meno)

2) per ogni docente dipendente ruotano in genere, ma in modo discontinuo e variegato, circa 20 formatori a parcella; per cui si può stimare l'ammontare regionale intorno alle 10000 unità;

3) il bilancio annuo della FP regionale è di circa 160 miliardi dei quali il 40% sono soldi della regione e i rimanente fondi comunitari

4) esiste anche il settore in espansione della scuola di stato, nel quale, in appalto, svolge un ruolo nell'area professionalizzante

5) negli ultimi anni si è realizzato il passaggio dei centri di formazione alla forma di agenzie "leggere" (pochi impiegati e tanti esperti esterni)

6) mediamente un docente prende 2.000.000 al mese e fa 25 ore di docenza frontale in classe e 36 ore di lavoro settimanale

7) gli esperti lavorano senza alcuna garanzia occupazionale, su un territorio molto vasto, con orari che vanno dalle 8 del mattino alle 11 di sera (sempre 36 ore max, non sempre), senza mutua, senza ferie, con la minaccia che il contratto non venga rinnovato e prendono mediamente dalle 36.000 alle 60.000

 

1.1.         La formazione (professionale) tra rendita e profitto

 

La formazione professionale è un settore che, vuoi per la sua intrinseca natura, vuoi per ragioni storiche, si è quasi sempre collocato a cavallo tra rendita, profitto e salario. In altri termini ciò significa che in parte la formazione è una necessità delle moderne società industriali, ed in questo si lega al profitto, in parte è una forma indiretta di salario, in quanto servizio alla mano d’opera, ed in parte è rendita, ossia una forma di ridistribuzione di surplus elargito, come tutta la rendita, con una specifica funzione di contenimento del salario. Non solo rendita che mantiene finanziariamente in vita i pletorici apparati degli enti gestori, a loro volta legati a sindacati, a partiti e varie agenzie di consenso, ma anche rendita da posizione, rendita di riconoscimento sociale e politico, per quelle organizzazioni che tanto hanno contribuito a mantenere i salari ai minimi livelli compatibili con un livello minimo della domanda interna volta ai consumi.

Proprio per quest’atipica e duplice collocazione che gli enti oscillano tra velleità aziendalistico-imprenditoriali e membri di quel nobile, quanto falso, “terzo settore” senza finalità di lucro e tutto rivolto a i servizi. Così anche da questa angolazione, si capisce molto bene la “politica” sindacale dagli accordi del ’92 in poi, caratterizzata da una quasi totale subalternità agli imperativi dell’impresa e oscillante tra un smorto rivendicazionismo ideologico e l’ideale di un automatismo salariale, nel quale scompare persino il senso della parola “contrattazione”. E si capiscono bene anche i comportamenti degli operatori che di volta in volta si percepiscono come lavoratori spremuti, o come soggetti garantiti.

Ma il fatto è che, diciamo dalla memorabile tangentopoli in poi, la musica è cambiata. Caduto il governo del debito ad oltranza, si sono gradualmente serrati i rubinetti della spesa pubblica. Il metodo dell’appalto si è diffuso capillarmente a tutti i livelli, e si è riverberato a cascata fino agli operatori legati da un rapporto di lavoro dipendente che oggi, per la prima volta, sono divenuti la minoranza degli operatori del settore, circondati e sovrastati dal moltiplicarsi delle forme autonome del lavoro consulentizio.

Mai come in questi ultimi anni è stata bassa la conflittualità sociale e mai come oggi il salario. Non solo in termini monetari, ma anche in termini politici, di soggetti garantiti, assistiti, ecc. E’ quindi normale che non essendo più il salario quella temuta variabile indipendente che era, anche la rendita da posizione del sindacato deve cedere il passo all’incedere dell’impresa. Non servono più i cani da guardia quando i gregge e ricondotto all’ovile. Ecco quindi che il sindacato, sempre più subalterno, e abbandonato dagli stessi lavoratori, si vede costretto a continui arretramenti, compromessi e cedimenti, al punto odierno di presentarsi nel complesso fortemente diviso, ormai scarsamente rappresentativo e di fatto scalzato da interi distretti produttivi, dove le nuove forme del lavoro precario e autonomo sono egemoni.

Gli Enti gestori, dal canto loro, non riescono più ad alimentarsi di quel costante flusso di denaro che dalle casse dello stato finiva direttamente nelle loro. Sono costretti a competere, ma sono ancora legati al sottobosco della rendita politica. Nel medio periodo hanno optato per una razionalizzazione delle proprie attività, per un taglio sistematico dei costi vivi, senza peraltro rinunciare a foraggiare il loro improduttivo apparato, e puntano quasi tutto sul lavoro a parcella.

Presentandosi di volta in volta come imprese o come organizzazioni no-profit, in funzione delle circostanze e delle opportunità, o del loro interlocutore del momento, a seconda che sia il personale interno o il variegato mondo esterno, di fatto viaggiano a tentoni dando un colpo al cerchio e uno alla botte, diffondendo ad arte allarmi e rassicurazioni.

Ma nella sostanza, seppur in modo non uniforme, né costante, hanno messo in atto un processo di taylorizzazione dell’attività formativa, per ora più attento ai costi che alla qualità dei servizi. Ed in questo si sono adeguati ad un movimento generale di efficientizzazione che oggi attraversa tutti gli ambiti produttivi, soprattutto nel pubblico impiego.

Per quanto ormai rassegnati ad adeguarsi al “mercato” (misteriosa parola che poi significa dominio del profitto contro il salario e la rendita), non smettono di sperare in un rilancio della rendita mediata politicamente, tramite i propri referenti di turno, così come il sindacato spera di poter nuovamente essere riconosciuto come interlocutore privilegiato (ma ahi noi! La Confindustria, agli albori del governo Berlusconi, non sembra dello stesso parere), ancorché, da noi soprattutto, intendo nella formazione professionale, continui ad alimentare parte del management degli Enti gestori ed abbia le mani in pasta più o meno dappertutto.

Così anche gli operatori continuano a sperare nel merito, nella qualità, nelle garanzie, anche se quotidianamente non possono non vedere gli aumenti dei carichi di lavoro, i blocco sostanziale del proprio salario e il gigantesco esercito di concorrenti precari che spingono ai cancelli chiedendo, di fatto, la loro testa.

In questa situazione di “transizione”, per usare un cauto eufemismo, tutti guardano ai fatti loro, con diffidenza si scrutano, cercando di capire cosa conviene fare, e intanto sperano che qualcosa cambi.

Ora il fatto è che questa situazione è strutturale e non contingente. Che il processo in atto non è il semplice concorso di fattori occasionali, bensì corrisponde ad un preciso processo di segmentazione dei mercati e di riorganizzazione del sistema impresa nel suo complesso che, in parte trainato dalla sfida europea, in parte pressato da ampie aree di mercato extraeuropeo, in parte infine, dal nuovo ruolo dello stato nell’economia, spinge e diffonde un nuovo modello di sviluppo.

E questa spinta oggi è possibile proprio perché, anche in quel piccolo e marginale settore che è la formazione professionale, sono passate trasformazioni che hanno sostanzialmente mutato i suoi contenuti e suoi processi.

In questo settore, come, appunto, dappertutto, la trasformazione di fondo che si è consumata, o perlomeno, che ha fatto un grande balzo in avanti, è appunto uno dei processi di fondo di tutta la modernizzazione; ovvero la razionalizzazione, dell’attività formativa, in questo caso.

Che da noi, per ragioni anche storiche e culturali, ha avuto la forma di una taylorizzazione secondo schemi già collaudati nell’industria e quindi piuttosto vecchi, mentre altrove, ha, tutt’oggi forme più evolute, ma che non tarderanno a mostrarsi anche ai nostri occhi. Tutto il resto, ossia le varie, molteplici mutazioni culturali e subculturali, come il venir meno delle ideologie, delle subculture cattoliche e comuniste, e della cultura popolare (in senso lato), del legame sociale, non sono, e questa è un’ipotesi, tutta da verificare, che aspetti collaterali e dipendenti di questo grande e meno appariscente capovolgimento.

Silente, ma pervasiva, ammantata di progressismo, ma sostanzialmente retrograda (almeno nei suoi effetti) la razionalizzazione si è fatta strada legandosi all’innovazione tecnologica, che è il suo principale tramite, ed è avanzata penetrando anche negli angusti anfratti delle pratiche private e riproduttive. Il suo fine generale e il risparmio di tempo, tempo di lavoro e d’attività in primo luogo, ma il suo primo effetto è l’uniformazione omologante e l’assorbimento delle differenze. E dato che questo processo si lega “dolcemente” ad un taglio dei costi diretti, trova un naturale contraltare in tutte quelle ideologie del management che nella crisi della rendita vedevano il venir meno della loro principale forma di finanziamento.

Così dal 1980 in poi, tutti sono diventati modernizzatori e gradualmente razionalizzatori efficientisti e, in questo ruolo tutto esogeno si sono sentiti pure civilizzatori. La festa, la lotta, la solidarietà sociale, il “lavorare meno” sono diventati tutti sinonimi di spreco, di corruzione, di sottosviluppo. Proprio quei soggetti individuali e istituzionali, che in quel consociativismo legato alla rendita (Craxi e il suo sistema ne è stato l’epigono) sono cresciuti e si sono arricchiti, improvvisamente, hanno scoperto la propria moderna indole efficientista e si sono fatti portatori, spesso inconsapevoli del gioco grosso, del nuovo verbo.

Questo discorso generale può essere fatto per tutti gli ambiti vitali, ma, come vedremo tra breve, assume forme peculiari, proprio nel suo installarsi sul nucleo di quelle complesse attività che sostanziano la formazione. Certo si potrebbe ricostruire questa storia come resoconto delle responsabilità di soggetti specifici e della loro doppiezza (e sovente malafede), ma non mi interessa, perché, seppur sarebbe senz’altro realistica, perderebbe di vista il tratto saliente e strutturale della vicenda, il suo aspetto di fondo epocale e si ridurrebbe ad un ricostruzione frammentata di contingenze. Mentre è proprio l’innestarsi di queste contingenze sul tronco della grande trasformazione che ha permesso l’avanzare del processo e dell’appiattimento generalizzato così desolante che abbiamo di fronte. La controprova di questa convinzione, sta nel fatto che oggi, quegli stessi opportunisti soggetti, che un tempo calcavano le scene del teatrino della modernità, facendola da padroni, oggi cominciano a capire che sta per arrivare il loro turno, si sentono il fiato sul collo e non sanno più bene a quale santo rivolgersi.

 

1.2.         Differenza di punti di vista e di orizzonti

 

Chiariamo fin da subito che non si può avere una idea realistica di cosa sia la formazione oggi (in vero già da un po’ di tempo) se la si guarda esclusivamente dall’interno della propria aula d'insegnamento. Gli insegnanti tradizionali sono spesso portati, per ragioni oggettive, ma anche soggettive, ad avere un orizzonte visivo assai ristretto. Nel migliore dei casi essi vedono la formazione nell’ambito del proprio ente, quando non addirittura del proprio centro d'appartenenza, e questa visione parziale, limita notevolmente le informazioni significative, preclude la possibilità di cogliere le relazioni portanti con l’ambiente esterno, non consente, in altre parole, di costituire quel quadro d’insieme che solo è in grado di fornire indicazioni reali sulle tendenze e sugli sviluppi in corso.

L’ente gestore, nel nostro caso, i datori di lavoro, in generale, hanno da qualche tempo assunto un punto di vista olistico, cioè che guarda prima l’insieme, il Tutto, e poi le Parti, e che tiene sempre presente la complessa rete di relazioni tra le Parti e il Tutto. Appunto il Tutto della formazione oggi si attesta ad un livello quantomeno europeo. Inoltre l’odierna formazione è un sistema in molteplice relazione con differenti interlocutori: parte delle istituzioni pubbliche (istruzione pubblica, regioni, comuni, enti, ecc.), le associazioni imprenditoriali e il sistema delle imprese nel suo complesso, le istituzioni di livello europeo (UE), enti, consorzi e soggetti privati d'altre nazioni, e, non da ultimo, il variegato mondo dell’utenza privata, dei cosiddetti cittadini, dei giovani, dei disoccupati, delle fasce deboli, con tutte le loro sotto differenziazioni interne. A questi bisogna ancora aggiungere i grandi network della formazione legati alle televisioni (oggi principale strumento formativo) e alle case del software, che sempre più s’insinuano nell’universo formativo in un proliferare di reti locali, territoriali, globali (si veda quanto sia stata recentemente sovraccaricata di significati formativi Internet).

Se questo è vero, si capisce subito come non sia possibile comprendere alcunché di significativo se ci si relega entro gli angusti spazi di un punto di vista locale e si capisce anche come localmente sia impossibile, sulla semplice base della propria esperienza diretta, cogliere la molteplice e complessa articolazione delle parti, dei soggetti in gioco, dei processi in atto.

Quindi diciamo, almeno per ipotesi, che la formazione non è l’insegnamento, bensì un complesso sistema articolato nel quale la docenza, l’insegnamento, svolge un ruolo specifico, ma, come vedremo, non più centrale. La formazione oggi è un sistema che mette in campo una produzione industriale di prestazioni formative finalizzate alla produzione di pacchetti capacitativi formalizzati, che vengono acquistati dall’utenza (direttamente o indirettamente) come fossero delle merci, in funzione della domanda e d'altri vincoli locali o globali. Gli enti gestori, che oggi aspirano ad essere agenzie, non sono che una parte aliquota del tutto formativo, uno dei tanti soggetti che oggi agiscono entro questo sistema.

 

1.3.         La formazione come sistema complessivo

 

Anche se può sembrare pleonastico -- ma non lo è -- proviamo a chiederci che cos’è la formazione in generale (quindi anche quella professionale). La formazione è quell’ambito trasformativo nel quale si modificano delle attitudini e si costruiscono capacità e/o competenze atte a soddisfare determinati bisogni (di chi?).

In particolare possiamo affermare, semplificando, che la formazione è un processo di trasformazione fondato e mediato da un rapporto formativo. Chi sono i soggetti di questo rapporto? In ultima istanza il docente e il discente, l’agente formatore (non necessariamente umano) e l’utenza, ovvero due categorie di soggetti, con differenti ruoli, capacità e attitudini, che entrano in un rapporto formativo nell’ambito di un processo di formazione. Non vi è formazione senza queste due figure.

La docenza tuttavia non indica una persona, ma solo un ruolo e una funzione; è altresì una nostra erronea abitudine quella d'identificare la docenza con l’insegnante; come vedremo, infatti, questa è una correlazione storica che si ritrova solo entro uno specifico modello d'organizzazione formativa, un modello che a livello normativo è ottocentesco.

Sempre più la funzione di docenza è svolta da una pluralità di soggetti organizzati, che interagiscono abbondantemente con mezzi e supporti. In qualche caso la funzione di docenza è assunta da macchinario (si pensi ad esempio alla tele-formazione, ai tutorials informatici, ai network, al Progetto Nettuno del Politecnico, ecc.).

Comunque sia, nel nostro settore, noi eravamo ancora, almeno culturalmente, legati ai vecchi schemi, secondo i quali centrale, per la formazione, è il rapporto insegnante/allievo. A questa configurazione del rapporto formativo fa riscontro un’organizzazione che potremmo definire Top-down; ovvero una situazione organizzativa e finanziaria nella quale, a fronte di una domanda relativamente stabile e chiaramente definita per comparti, settori e competenze, l’istituzione pubblica definisce degli standard formativi ai quali gli erogatori del servizio devono conformarsi per ottenere il relativo finanziamento.

Fino a poco tempo fa la prestazione formativa veniva erogata nelle rispettive sedi sulla base di prestazioni che erano demandate quasi per intero alla professionalità dei singoli docenti e all’organizzazione didattica definita dai relativi centri di formazione/progettazione. L’autonomia degli insegnanti in questo contesto era molto elevata, o almeno lo era fino a non molto tempo fa, e il loro effettivo potere discrezionale di conseguenza anche.

Solo recentemente, diciamo negli ultimi dieci anni, si è assistito al tentativo di promuovere una modularizzazione della prestazione formativa che ne definisse le tappe, le modalità, i mezzi e i tempi, nonché i criteri di verifica.

Questo precedente tipo d'organizzazione relativamente semplice e stabile poteva essere idonea a fronte di una domanda abbastanza stabile, omogenea nei differenti comparti e di relativamente facile classificazione.

Le cose non stanno più in questo modo.

Infatti, molteplici e cangianti fattori sono intervenuti a modificate il contesto della formazione. Non è questa la sede per trattare in dettaglio questi mutamenti; limitiamoci pertanto a riepilogarli sommariamente.

Fino, diciamo, approssimativamente alla riforma della scuola media superiore del 1969 (tanto per stabilire una data di riferimento) la formazione era per lo più limitata all’istruzione dei giovani, sia primaria che secondaria, ed assolveva principalmente la funzione di diffondere l’istruzione primaria in un paese nel quale i livelli d'alfabetizzazione erano molto bassi. Con la riforma della media superiore viene recepita la domanda di un crescente numero di giovani, d'estrazione per lo più proletaria, che accedevano per la prima volta all’istruzione superiore. Ma fondamentalmente la formazione restava un campo d'attività separata, prevalentemente rivolto ai giovani che attendevano d'entrare nel mondo del lavoro. Per il resto ogni singola attività produttiva conservava, al suo interno, le forme e i meccanismi di trasmissione del sapere, delle competenze, delle capacità.

Nell’arco di 20 anni, il procedere dell’industrializzazione delle varie branche dell’attività lavorativa, lo sviluppo della terziarizzazione del lavoro, la razionalizzazione del lavoro in generale, hanno eroso e di fatto annullato le specificità qualitative che ancora differenziavano i vari saperi lavorativi. Questi infatti sono andati formalizzandosi come costrutti del sapere tecnologico ed in parte si sono incorporati nel macchinario. Sono sotto gli occhi di tutti i cambiamenti emergenti. Crescente sostituzione del lavoro umano con macchinario, aumento della disoccupazione per obsolescenza delle competenze richieste, ecc. Lo sviluppo della microelettronica e dell’informatica hanno poi fatto letteralmente sparire molte delle professionalità esistenti, radicalmente trasformate altre. Fino a sette otto anni fa era un fatto eccezionale trova all’interno di una scuola un’aula attrezzata con PC, nemmeno multimediali; oggi quasi tutti i centri di formazione dispongono di una rete locale, di un collegamento Internet permanente e quasi sempre dispongono di un sito web dedicato.

A questo quadro d’insieme occorre ancora aggiungere che le mutazioni dei mercati, la loro progressiva internazionalizzazione, la possibilità crescente di spostare processi lavorativi ad alta intensità di lavoro vivo nei paesi del terzo mondo, la saturazione dei mercati nostrani e la conseguente necessità di variare e differenziare l’offerta di prodotti, ecc., sono tutti fattori che hanno contribuito notevolmente a frammentare e complessificare il mondo delle attività produttive.

La prima conseguenza di questo balzo tecnologico-organizzativo può essere definita come l’estensione di un processo di tendenziale uniformazione del mondo delle attività utili, in virtù del quale esse tendono a rassomigliarsi e a perdere le differenze specifiche, sempre più assorbite dal macchinario e/o dai software operativi. L’attività di un metalmeccanico nella moderna impresa robotizzata, non si distingue di molto da una qualsiasi altra attività, consistente per lo più in un insieme di azioni di sorveglianza e controllo, nella quale sono venute meno le più antiche capacità di manipolazione e artefattura. Cosicché la formazione delle competenze necessarie tende a essere sempre più la stessa ovunque, per quanto, ancora, ma a livelli molto specifici e di dettaglio, continuino per ora a persistere delle microdifferenze.

Lentamente la formazione delle capacità (non l’istruzione quindi) da momento interno delle singole aree produttive e divenuto un momento separato, esterno, formalizzato, entro l’universo dei saperi tecnologici.

Non da ultimo dobbiamo considerare anche la crescente precarizzazione e autonomizzazione del lavoro umano vivo, l’accorciarsi dei contratti, lo sviluppo del part time e delle forme di lavoro atipico, e tutti quei mutamenti che hanno fatto da contorno, sul piano normativo, a quel movimento di ristrutturazione industriale che va sotto il nome di “qualità totale”; una sorta di “one best way” delle imprese italiane negli anni ‘80 e ‘90.

Bene, a seguito di queste ed altre trasformazioni, che qui possiamo solo accennare, i soggetti coinvolti hanno cominciato a manifestare una differente domanda formativa. I lavoratori, travolti da questi repentini mutamenti, sovente si trovano a doversi riconvertire più volte nel corso della loro vita lavorativa, in tempi brevi, conformandosi alle nuove competenze richieste. La crescente massa di disoccupati e precari è portatrice di una domanda formativa assai differenziata ed in continuo mutamento, in funzione del variare della domanda di lavoro, delle scelte strategiche delle imprese, dell’innovazione tecnologica accelerata. Immigrazione, fasce deboli della popolazione e altre forme di disagio sociale diffuso, completano il quadro nefasto della nostra situazione alle soglie del terzo millennio.

Che cosa diventa la formazione in questo contesto?

La formazione è sempre stata una grande trasversalità, ossia un momento trasformativo presente più o meno in tutte le attività che garantiva la riproduzione di nuove capacità, la trasmissione del sapere, il ricambio della manodopera specializzata (ed esiste anche la formazione dei formatori).

Essa conserva questo carattere di momento trasversale, tuttavia ora si presenta esterno alle singole attività e branche produttive; cioè diviene essa stessa una branca produttiva, accentrata in un determinato comparto (come ad esempio la formazione professionale) e preposta a soddisfare con efficienza ed efficacia, la variegata domanda che emerge dal contesto sociale.

Quanto questa formazione sia diversa da quella rivolta all’istruzione primaria e statale in genere pare del tutto evidente, cosi come sembra ineluttabile, in questa tendenza, la sua crescente importanza strategica per l’azienda Italia. E si comincia anche a vedere come la stessa scuola statale stia cominciando a modificarsi pure in questo senso, compatibilmente con l’innata lentezza tipica di certi apparati statali.

Insomma la formazione da trasversalità distribuita in una pluralità di comparti e settori, e coinvolgente una gran varietà di soggetti, tende inevitabilmente a divenire, una trasversalità accentrata, organizzata in impresa, con personale specializzato, e preposta a far fronte alla pluralità della domanda, alla sua varietà, ai suoi repentini mutamenti, ecc. Non si parla forse tanto dell’esigenza di formazione permanente? E’ un dato di fatto che oggi continuativamente le capacità e le competenze richieste mutano, le opportunità di lavoro cambiano, le dinamiche di mercato variano, e la gente deve adattarsi, non potendo più fare altrimenti, a tutti questi cambiamenti.

 

1.4.         Il contesto della formazione: la domanda

 

Un primo dato allora è tutto inscritto entro la composizione della domanda di formazione. Qual è, sommariamente, la composizione di questa domanda?

In primo luogo è facile notare come la domanda vari in funzione della dislocazione territoriale; infatti, essa non è omogeneamente distribuita, ma riflette ancora, in una certa qual misura, la distribuzione territoriale delle varie realtà produttive. E questa distribuzione, non è più fissa, come un tempo, ma essa stessa cambia con velocità crescente, in funzione della redditività locale d'investimento, della presenza o meno di certe risorse e di vincoli della più svariata natura. Una formazione, costruita su un modello d'impresa efficiente, deve essere in grado di far fronte a questa dislocazione della domanda e alle sue continue metamorfosi. Tutti noi ci ricordiamo come venisse chiesto ai promotors e ai tutors se erano disposti a spostarsi sul territorio. Flessibilità qui vuol dire una formazione non più radicata entro un territorio delimitato (la provincia, la regione), bensì una formazione capace d'essere presente, nel momento giusto, ove vi è il bisogno formativo o dove si presume che possa insorgere.

In secondo occorre tener presente la pluralità della domanda di formazione, ovvero la varietà e le specificità indotte dalle differenze tra i soggetti che la esprimono. E’ noto come una parte della domanda sia legata alle esigenze produttive delle imprese, ai loro bisogni di ristrutturazione e di riconversione del personale addetto; un’altra parte è legata al settore pubblico, che in questo periodo di tagli è anch’esso investito da trasformazioni, volte per lo più ad un recupero dell’efficienza; un’altra agli espulsi dal mondo del lavoro; altra ancora alle aree del disagio; una domanda forte viene ancora dal mondo giovanile in cerca di prima occupazione e poi dagli immigrati, altra realtà emergente nelle nostre città. Senza poi considerare quella domanda che dipende da scelte culturali spontaneamente espresse dai cittadini per adeguarsi ai modelli imposti dalla società dei consumi, dalle mode, dalla pressione all’omologazione (“faccio un corso di informatica, ma non so il perché…”)

Si vede come la varietà della domanda sia assai vasta e complessa e come essa richieda un continuo adattamento delle risorse al contesto, una continua ridefinizione degli obiettivi formativi e dei processi annessi, e così via.

 

1.5.         Caratteristiche richieste dell’intervento formativo.

 

A fronte di questo nuovo quadro d’insieme, quali sono le caratteristiche peculiari di un intervento formativo che voglia essere all’altezza della situazione? O meglio, che voglia quantomeno sopravvivere in questo turbolento contesto ove anche altri soggetti privati, nazionali ed esteri, si presentano agguerriti e con una più o meno ampia offerta formativa, capace senz’altro di spiazzare chi non si presenta con quei requisiti di competitività e di qualità adeguati?

In sintesi possiamo individuare almeno tre prerequisiti dell’odierno intervento formativo:

1) la tempestività dell’intervento, in altre parole la sua attitudine ad attivarsi velocemente, nel luogo giusto e al momento giusto, con tempi estremamente ridotti di progettazione, programmazione, allocazione delle risorse ed erogazione della prestazione, nella sede più appropriata e su un territorio estremamente vasto;

2) la flessibilità dell’intervento, cioè la sua capacità di adattarsi alle mutevoli esigenze, ovvero a ricomporre in modo specifico quel mix di contenuti e modalità che sono idonei per soddisfare quella particolare esigenza; quindi flessibilità dei formatori e loro polivalenza funzionale e didattica, nonché modularizzazione dei contenuti e loro possibile ricombinazione in funzione degli scopi formativi, ecc.

3) la permanenza: siamo di fronte ad una strategia di interventi formativi passibili di reiterarsi nel tempo e non più legati ad un periodo determinato della vita umana.; un lavoratore, uno studente, un cittadino, può nel corso della sua vita, per aspetti e motivi differenti, ricorrere più volte, in tempi distinti, ad un intervento formativo; formazione permanente significa proprio questo: che l’utenza non è data una volta per tutte da una certa fascia di popolazione, che altresì ritorna in formazione dopo un certo tempo per adattarsi al nuovo contesto, alle innovazioni tecnologiche, alle dinamiche del mercato del lavoro, ecc.

 

1.6.         Mercificazione della formazione

 

Non è peraltro fuori luogo ribadire ancora che la formazione è tutta incorporata entro un complessivo contesto di mercificazione. Che sempre più la formazione tende a mercificarsi, cioè a ridursi alla confezione di pacchetti formativi standard, che vengono venduti come se fossero della merci e questo non solo in virtù del venir meno di pubblici finanziamenti e del corrispettivo sviluppo dei corsi a pagamento, ma anche in guisa del fatto che si sviluppa, parimenti, alla domanda, un vero e proprio mercato della formazione; questo accade proprio perché vengono sempre meno i presupposti di quell’artigianesca formazione che prima era relegata alle specificità, ora saltate, degli ambiti lavorativi, con il loro sapere e le loro locali capacità, spazzati via dall’incalzante innovazione tecnologica.

E tutto ciò in una dimensione sempre più internazionale, oggi di livello quasi europeo. Con il prossimo sviluppo delle reti di comunicazione a fibre ottiche e delle autostrade informatiche, questa tendenza complessiva tenderà ad acuirsi, non solo in ragione di una più facile e meno costosa potenzialità comunicativa, ma anche in forza di una più elevata integrazione di sistema, quindi dell’estendersi dei mercati (vedi i paesi dell’est), e del vivacizzarsi della competitività sul mercato della formazione. Già si parla di tele-formazione, del pericolo delle, a quanto sembra ad assai alto livello di concorrenzialità, agenzie estere e dei loro elevati standard di qualità, ecc.

 

1.6.1. Industrializzazione e razionalizzazione della formazione.

 

Fino ad ora abbiamo visto quali sono i cambiamenti del contesto formativo e come questi si impongano in forma di necessità, cioè quanto essi facciano sentire al più sprovveduto degli enti gestori o dei privati imprenditori, l’esigenza di una svolta, di un cambiamento radicale del modo e delle forme del fare formazione oggi.

E’ quindi all’ordine del giorno, in forma oggettiva, indipendentemente dalla consapevolezza che ne possono avere gli operatori e i vari soggetti coinvolti, un adeguamento della formazione e, come vedremo, in primo luogo proprio della formazione professionale, in quanto più vicina e sensibile alle dinamiche del mercato ed anche più ricca di iniziative private tra loro in concorrenza.

Ma dobbiamo chiederci: questo cambiamento strutturale delle forme organizzative è ancora tutto da fare? A che punto è oggi quel processo di razionalizzazione dell’attività formativa che sembra imporsi con tanta evidenza?

E’ bene notare che questo processo, seppur in forme non sempre visibili, tantomeno consapevoli, ha già fatto, proprio nel nostro settore, notevoli progressi negli ultimi lustri, segnatamente laddove altresì assumeva le forme del miglioramento in generale, del perseguimento di una maggior qualità genericamente intesa, ancorché, sovente, per iniziativa di volenterosi operatori che, nel tentativo, più che legittimo, di svecchiare arcaiche didattiche, non si avvedevano di dare un grande contributo proprio a quella razionalizzazione che oggi, alla luce dei cambiamenti in atto, sembra rivolgersi loro contro. Dopo tante fatiche, quella qualità perseguita in buona fede e con le migliori intenzioni, si rivela una terribile arma nelle mani dell’impresa formativa, contro gli operatori stessi.

Quella che sembrava una qualità necessaria, per una formazione diversa, è oggi tradotta, non senza gravi riduzioni e tagli, in termini di quantità ed efficienza, di dequalificazione del personale e maggiori profitti.

Ma proviamo a chiederci cosa voglia effettivamente dire “razionalizzazione dell’attività formativa”.

 

1.6.2. La razionalizzazione del prodotto formativo

 

La razionalizzazione storicamente si è sempre affermata, almeno ai suoi inizi, come una razionalizzazione del prodotto, cioè dell’output del processo, che nel nostro caso non è altro che la prestazione formativa. Questa razionalizzazione del prodotto è la via più facile per la razionalizzazione dell’insieme del processo.

Ovviamente, ad oggi, la distinzione tra razionalizzazione del prodotto e del processo che gli sta a monte è solo teoretica; in effetti esse procedono ormai di pari passo e si alimentano l’un l’altra reciprocamente. Comunque sia, per i nostri fini espositivi, perveniamo ad una maggior chiarezza se consideriamo i due processi come separati.

E’ bene precisare che gran parte delle cose che andremo costatando rappresentano tappe di un processo in gran parte già compiuto, anche se raramente assurgono a dato manifesto.

E’ noto a tutti gli insegnanti della FP (ma anche a quelli della scuola in generale) come negli ultimi anni si sia assistito ad una progressiva formalizzazione dei contenuti didattici, dei percorsi formativi, delle prove di verifica. Sovente gli insegnanti hanno, loro malgrado, aderito a queste iniziative e variamente partecipato con interesse; altre volte le hanno snobbate come “astratta produzione di carta”. Il fatto è, checché ne pensino gli interessati, che il primo passo della razionalizzazione consiste proprio nell’osservazione e rappresentazione formalizzata delle diverse e sequenziali fasi dei processi formativi, dei contenuti, dei passaggi, dei saperi e delle discipline coinvolte, nonché dei criteri e delle modalità di valutazione.

A proposito qualcuno della formazione professionale si ricorderà quel primo fascicolo sulle fasce di qualifica che una quindicina di anni fa definiva, per la prima volta, i contenuti dei percorsi formativi nel comparto dell’industria: ebbene quello fu un primo passo di quest’osservazione. Oggi non è difficile reperire negli uffici di progettazione dettagliate e articolate schede dei contenuti dei corsi.

Tutta questa attività di osservazione, formalizzazione, rappresentazione delle prestazioni formative e degli obiettivi è stata portata a compimento negli ultimi dieci o quindici anni; anche se poi, a livello della pratica, spesso le cose procedevano al solito modo.

Ma in qualche luogo si è accumulato un sapere formalizzato e scritto, che indica i diagrammi di flusso dei vari percorsi di formazione, in relazione alle qualifiche, degli obiettivi e dei sotto obiettivi corrispondenti, delle risorse necessarie, delle competenze richieste, delle modalità di verifica.

Dopo questa prima fase di osservazione, questo materiale è stato ancora analizzato, studiato, semplificato e ricomposto in moduli preposti al raggiungimento di certi sotto-obiettivi. E’ oggi una realtà consueta per molti insegnati adottare moduli di contenuti già predisposti; moduli che lo stesso insegnante adotta, adatta e migliora, dando più o meno volontariamente un grande contributo a questa razionalizzazione delle prestazioni.

La modularizzazione dei contenuti e la formalizzazione delle verifiche non sono che un primo sommario risultato di questo silente processo di razionalizzazione del prodotto. I moduli poi manifestano una loro specifica autonomia e presto si scopre che è possibile scorporarli dal loro contesto, mixarli con altri ed ottenere percorsi ad hoc in vista di altre prestazioni specifiche.

Bene, tutto questo processo di osservazione, analisi, scomposizione, ricomposizione, classificazione è stato in gran parte già compiuto ed ad esso vi ha partecipato, volente o nolente, anche l’insegnante ignaro, ed ancora continua a parteciparvi. Oggi, poi, vi sono nuovi ruoli organizzativi preposti allo scopo (addetti alla micro-progettazione nei centri e alla progettazione negli enti).

La prima conseguenza tangibile di questo processo è appunto dato dalla segmentazione e classificazione dei percorsi formativi, dal costituirsi di un insieme formalizzato di pacchetti che definiscono gli obiettivi, i metodi, i contenuti, le risorse, i tempi e i criteri di verifica idonei; perciò costruire un percorso formativo, per un addetto alla progettazione, oggi, si riduce alla scomposizione dell’obiettivo formativo in sotto-obiettivi, all’individuazione dei moduli didattici corrispondenti, all’assemblaggio degli stessi e alla costruzione di un meccanismo di feedback. E il docente è stato espulso da questa fase; divenuto ormai mero esecutore di un processo formativo studiato altrove e poi attuato da un insieme di “esperti” tra loro separati ed autonomi.

E’ bene notare che la scomposizione della prestazione in moduli prelude ad una suddivisione della prestazione stessa su un numero variabile di soggetti differenti a ciascuno dei quali viene richiesta solo più la competenza necessaria per la reiterazione di quel modulo, con la conseguente perdita di professionalità dovuta alla riduzione del suo ambito di intervento. Non più insegnante di informatica, ma di quei particolari moduli di informatica, i cui contenuti sono delimitati e definiti, e la professionalità richiesta decisamente più bassa e quindi più facilmente sostituibile, o più facilmente reperibile a buon mercato.

Emerge così la figura di un “insegnante modulare limitato e mobile”, capace di reiterare continuamente quell’esiguo numero di moduli mobilizzandosi su differenti percorsi formativi, magari anche in sedi diverse, e così via.

Il primo effetto (tutto politico, perché comporta una perdita di autonomia e di potere contrattuale) della modularizzazione è appunto la delimitazione e frammentazione della professionalità richiesta al docente, operata mediante una restrizione del suo dominio d’azione.

E’ bene notare che il processo di modularizzazione a dato luogo ad una proliferazione di nuovi ruoli (promotor, tutor, progettisti) che ad arte il padrone ha saputo presentare, ai disorientati operatori, come un’opportunità di crescita professionale e di carriera (e che il sindacato ha ciecamente avallato nella sua totale subalternità e miopia), mentre in realtà si trattava, nella maggior parte dei casi, di ruoli accorciati, assolutamente vuoti di aspetti qualitativi, spesso ridotti a pure attività compilative ed esecutive di tipo impiegatizio, perlopiù alienanti nella loro vacua stupidità e di fatto espletabili da qualsiasi persona dotata di una normale istruzione. Quindi ruoli poveri di professionalità, facilmente sostituibili o esternalizzabili, che sono stati pagati qualcosa di più dei ruoli docenti solamente in forza di un aumento dell’orario di lavoro e spesso di un sovrabbondante lavoro straordinario. E questo fenomeno assai triste di rincorsa e di “carriera” ci ha dato la misura del livello di spaesamento generalizzato e di smarrimento di un’identità (sia pur professionale).

 

1.6.3. La razionalizzazione del processo formativo

 

L’organizzazione scolastica, diciamo pre-ristrutturazione, conosceva un’unica divisione che era quella per discipline. Ogni docente era uno specialista nella sua disciplina, e l’iter formativo veniva a costruirsi per integrazione di discipline differenti (ampi settori della formazione funzionano ancora in questo modo), senza che vi fosse un effettivo studio per obiettivi e funzioni. Inoltre, specie in Italia, il docente era, ed è ancora, un operatore senza una precisa e specifica preparazione didattica (recentissima è la riforma universitaria che recepisce la formazione alla didattica) che veniva e viene investito della funzione docente senza che conosca alcunché di pedagogia, di didattica, di metodologia, ecc. Era poi nell’esperienza effettiva dell’insegnamento che il docente si autoformava la propria reale competenza didattica, imparava a trattare con gli allievi, a leggere i loro bisogni, a trovare le soluzioni per un insegnamento efficace. A nessuno comunque interessava che vi riuscisse o meno, non esistevano al di là dei concorsi o delle prove di ammissione, strumenti di controllo sulla qualità del lavoro del docente.

Il docente era, e per certi versi lo è ancora (non nella formazione professionale), una figura professionale artigianesca, dotata di grande autonomia, a cui era semplicemente richiesto di attenersi ad un programma formale; a lui erano demandate, in piena autonomia, tutte le funzioni della docenza, la scelta dei metodi, l’ordine dei contenuti (i contenuti stessi per certi versi), le modalità di verifica e la lettura dei bisogni degli utenti, nonché la disciplina, ecc.

Non solo il docente, al di là dei controlli formali e burocratici, non doveva rendere conto a nessuno del suo operato effettivo in aula, ma poteva anche esimersi da tutta un’altra serie di funzioni che oggi entrano pesantemente nella formazione: lettura dei bisogni formativi, lettura della domanda formativa, progettazione, programmazione, coordinamento. La sua funzione era quasi esclusivamente incentrata sull’aula, raramente andava al di là di questo confine; le rimanenti funzioni erano di competenza della struttura burocratico amministrativa, del provveditorato, del ministero.

La formazione professionale ha ereditato, in un primo momento, questa struttura, che però è stata fin da subito adattata alle sue specificità, essendo questo settore per certi versi più vicino al mondo del lavoro, e quindi più sensibile a quei cambiamenti che ivi avevano luogo; e per altri legato ad un piano corsi che ogni anno doveva essere riveduto, aggiornato e approvato dalle istituzioni regionali.

Dobbiamo chiederci senz’altro se le cose siano rimaste in questo modo. Abbiamo visto che la pluralità, la varietà e la mobilità della domanda formativa, cui la formazione professionale assolve, è in continuo mutamento, ed allora vediamo che nella “funzione-docente classica” si vengono a sovrapporre altre funzioni, quasi mai riconosciute, relative al reclutamento degli allievi, alla loro selezione, alla progettazione didattica, alla programmazione, al coordinamento.

La funzione docente vera e propria diviene solo una delle funzioni assolte dai docenti. Proprio alla luce di questi mutamenti abbiamo visto come negli ultimi anni siano emerse nuove figure: in un primo momento solo quelle dei coordinatori (vi ricordate la famosa percentuale del 20% poi del 17%), poi, su richiesta degli enti, dall’ultimo contratto, le nuove figure del promotore, del tutor, del progettista.

E’ vero, sovente, al di là della facciata, si trattava di divisioni fittizie, che si sposavano bene anche con una politica di incentivazione del tutto arbitraria e per lo più improntata ad alimentare le differenze tra lavoratori ed ad fomentare la divisione e la competizione interna, per fini esclusivamente politici e clientelari; ma non è, e non era, solo questo: si trattava anche del primo manifestarsi di un’esigenza reale di divisione funzionale dei compiti che nell’ultimo contratto firmato trovava pieno riconoscimento, e che corrisponde ad un disegno politico ed ad un piano strategico di sviluppo della formazione professionale ben preciso, finalizzato a favorire il passaggio dal mercato convenzionato a quello libero.

 

1.6.4. Dal docente artigianesco all’operatore parziale.

 

Nella razionalizzazione del prodotto, e quindi della prestazione, abbiamo già osservato come la modularizzazione sia il primo degli effetti tangibili; qui, ora, notiamo come l’adeguamento ad una politica d’impresa introduca delle divisioni funzionali all’interno del ruolo artigianesco del docente.

Nella transizione, fino a cinque o sei anni fa, le funzioni, per quanto già definite, erano ancora per la maggior parte assolte dal docente singolo, ed appunto questi anni sono serviti per individuarle, formalizzarle, specificarle, nei metodi, nei compiti, nei tempi.

Ormai da almeno cinque anni la funzione docente classica è stata frazionata su ruoli differenti e quindi su persone differenti.

Le funzioni grosso modo sono le seguenti:

1) Funzione didattica (docenza frontale, ora modularizzata)

2) Funzione promozionale (che consiste nella ricerca di occasioni formative).

3) Funzione di organizzazione e coordinamento

4) Funzione di progettazione e programmazione

5) Funzione di catalogazione, ricupero delle risorse informative e dei mezzi

6) Funzione politiche e di approvvigionamento delle risorse finanziarie (in genere     demandate ai ruoli dirigenti)

 

Le prime cinque funzioni sono il prodotto e il frutto della razionalizzazione del ruolo docente, ormai inadeguato a far fronte alla complessità ambientale.

Il primo risultato evidente di questa divisione funzionale e della conseguente ridistribuzione delle stesse su figure professionali differenti (differentemente retribuite, ma come sappiamo non è vero), consiste nel fatto che la singola competenza dell’insegnante subisce una netta riduzione. Ciò che oggi gli viene richiesto è solo una parte aliquota di ciò che prima svolgeva in piena autonomia. Ed anche le altre figure funzionali tendono alla mansione accorciata.

Ciò riduce da subito la discrezionalità della persona coinvolta ed anche il suo potere contrattuale. Si tratta di un’effettiva dequalificazione dei ruoli lavorativi che ne riduce l’ambito, ma anche la professionalità intrinseca e che si somma a quella delimitazione di ambito di intervento che deriva dalla suaccennata modularizzazione.

Da ora in poi ogni singola persona impegnata in una di queste funzioni agisce entro un ambito operativo assai più limitato e ben più povero di contenuti; ne consegue che la capacità richiesta per ricoprire questi ruoli funzionali, essendo inferiore a quella del docente artigianesco, può essere anche reperita sul mercato dei giovani laureati con maggior facilità. Il potere di ricatto nei confronti del singolo lavoratore da parte del datore di lavoro è assai aumentato e la dipendenza di quest’ultimo dal mercato, dall’innovazione tecnologica, dalla competizione tra poveri, è parimenti cresciuto, in ragione inversa ed in misura più che proporzionale.

Il tutto naturalmente si sposa, come abbiamo già più volte accennato, con un’attenta politica del personale attenta a non perdere alcuna occasione per fomentare le divisioni e le competizioni interne al collettivo degli operatori, incentivando sperequazioni retributive ed elargendo privilegi.

La seconda grande conseguenza di questo stato di cose consiste nel fatto che ad una minor professionalità richiesta, ad una minor autonomia effettiva dell’operatore, la prima grande pressione è quella che gli richiede una maggior quantità di lavoro a parità di retribuzione.

Tutti sanno che i docenti essendo artigiani della formazione fruivano, giustamente, oltre alle ore di lezione frontale, di un quantitativo di ore retribuite aggiuntive di supporto alla attività didattica e di auto-aggiornamento.

Con la divisione funzionale la prima conseguenza è questa: chi non svolge docenza frontale, non ha più diritto alle ore di supporto, tantomeno a quelle autogestite; chi altresì continua ad operare in docenza frontale, essendo la sua attività modularizzata, preprogrammata da altri, e assistita da coordinatori, può senz’altro fare a meno dell’autogestione del suo tempo.

Comunque la si prenda l’effetto complessivo è lo stesso: estensione della giornata lavorativa a parità di retribuzione, cosa che equivale ad una reale riduzione del salario.

La cosa importante è questa: il passaggio dalla formazione artigianesca a quella funzionale, corrisponde al passaggio dal docente artigianesco a quello che potremmo definire l’operatore parziale polivalente. E ciò vale per tutti gli operatori, anche per quelli che si fregiano del titolo di tutor, o promotori, o progettisti. Per quanto essi possano essere ignari, questa trasformazione riduce tutto il personale docente alla figura di operatore parziale e funzionalmente definito.

Eventuali differenze di retribuzione e di status non sono che elementi aggiuntivi abilmente introdotti dal padrone per alimentare le divisioni e la competizione nel collettivo dei lavoratori: non sono altro che riconoscimenti per la fedeltà e il ruffianesimo. E la prevedibile facilità con la quale promotors e tutors verranno in futuro sostituiti (come è già successo nel presente) non farà che confermare queste ipotesi.

Riepilogando: la funzione docente subisce una riduzione per opera di due distinti processi che sono, da un lato, la modularizzazione dell’attività didattica, che riduce il dominio di sapere richiesto, dall’altro, la divisione funzionale del ruolo, che riduce drasticamente la varietà dei compiti assunti da ciascun docente.

Di fatto, tutti gli operatori oggi sono più parziali di prima, quindi: più dipendenti, più ricattabili, più facilmente sostituibili e soprattutto pagabili in misura inferiore.

Ma vi sono anche degli aspetti qualitativi della trasformazione che non vanno sottovalutati. In primo luogo l’aumento della ripetitività e l’alienazione istupidente che vi è connessa. Vi sono ruoli docenti nei quali lo stesso modulo didattico ricorre infinite volte sempre uguale; chi scrive ha svolto quest’anno bel nove volte il modulo di Word, una decina di volte quello di alfabetizzazione, sei o sette volte quello di Excel, tre o quattro volte quello di Access. Sempre uguali, in tempi strettissimi, con classi di 25, 30 allievi. Il rapporto formativo si deteriora al punto che un legame personale docente-discente diviene di fatto impossibile. I contenuti sono di una superficialità procedurale. La qualità dell’insegnare si riduce a quella di un addestramento pavloviano.

Un tutor organizza decine di stage e gran parte della sua attività si risolve nel fare telefonate e compilare moduli. La stragrande maggioranza delle mansioni decade al livello di un’attività svuotata, scarna, ripetitiva e che, col tempo, finisce per ridurre le capacità possedute.

Nel frattempo l’innovazione avanza e gli operatori impegnati in questa demenziale ripetitività lavorativa, ben presto risultano obsoleti. Nello stesso tempo nuove forze si affacciano sul mercato del lavoro, disposte, per necessità o per una diffusa incultura, ad accettare qualsiasi tipo d’incarico a costi bassissimi. E’ l’esercito dei precari, in parte fuoriusciti da altri settori, in parte giovani ai primi impieghi. Il sindacato stesso arranca dietro a questi mutamenti. La presenza sindacale in questo “esercito industriale di riserva” è praticamente nulla.

Il legame sociale risente pesantemente dell’anomia che ovunque si diffonde, la diffidenza impera incontrastata, tutti si guardano in cagnesco, ognuno convinto che il “fregato” sarà il vicino. I rimbombi di una guerra dei pezzenti si diffondono ormai in ogni luogo. La richiesta di perfomatività, di omologazione e il ricatto lavorativo fanno la loro parte. Tutti sono in attesa, non si sa di cosa, se di una scappatoia e o del colpo di grazia.

Congelato in una situazione di perenne emergenza, l’operatore parziale si rifugia nel suo lavoro, si nasconde dietro la scrivania, timidamente rasenta i muri, servilmente saluta i suoi capi, salvo poi darsi un tono quando il suo nome viene pronunciato, nella speranza di una salvezza che si fa attendere… ahimè! Invano.

 

1.7.         La formazione professionale nel sistema formativo.

 

Potremmo a questo punto azzardare una breve riflessione, chiedendoci: perché proprio nella formazione professionale, e non ad esempio in quella statale, questi mutamenti organizzativi sono così evidenti?

La risposta è complessa e vorremmo rinviarla ad altra sede. Possiamo comunque accennare solo due cose: in primo luogo la formazione professionale, per la sua storica collocazione nel contesto formativo, è più vicina a quelle che sono le dinamiche locali del mercato ed al sistema delle imprese ed è quindi normale che sia più sensibile alle tendenze che in questi settori sono oggi in atto, dato che gran parte della domanda che essa soddisfa deriva proprio da questi settori; in secondo luogo è bene notare che in Italia, parimenti ad una riduzione della spesa pubblica, il ricupero dei profitti va per lo più a scapito di quella rendita, cioè di quella parte della ricchezza nazionale prodotta che veniva distribuita per fini politici, clientelari, legati alla produzione del consenso; e noi sappiamo come la formazione professionale fosse ben addentro a questa rete di legami nei quali la rendita circolava.

Appunto il taglio della rendita colpisce quei settori dello stato, del pubblico impiego, ma anche del settore privato, che oggi sono più deboli: e la formazione professionale in certi ambiti entra nel novero degli esclusi. Ci si ricordi come sei o sette anni or sono la Regione Piemonte decise di ridurre il finanziamento del settore convenzionato del 40% integrandolo con finanziamenti della Comunità Europea, ed è presumibile che, se non interverranno nuovi fattori, questa tendenza non sia passibile che di rinforzarsi.

Tutto ciò ha notevolmente contribuito a spostare l’investimento di risorse formative sul settore privato, associativo e consorziale, rendendo, quindi, quasi obbligato il trapasso ad un altro modello organizzativo.

In ogni modo è nostra opinione che di là da questi contingenti motivi, che a ben guardare sembrano avere qualcosa di strutturale, è chiaro che l’agenzia formativa flessibile, imprenditoriale, competitiva, rappresenti un modello di riferimento non solo per la formazione professionale, ma anche per ampi settori dell’iniziativa privata, ed anche, probabilmente, tra non molto tempo, per vari settori dell’istruzione pubblica (si pensi all’autonomia finanziaria delle scuole e alla riforma).

 

è bene quindi che fin da subito i lavoratori della formazione professionale si abituino a considerare l’intera questione da un angolo di visuale ben più ampio di quello definito dall’orizzonte di categoria cui sono avvezzi e che, nell’interrogarsi sul proprio destino, non perdano mai di vista l’insieme delle cose e le tendenze in atto.

 

1.8.         Alcune proposte di riflessione politica.

 

Ancora non ci è dato sapere quale sarà la reazione degli operatori parziali della formazione professionale, quale accoglienza serberanno a queste novità, se reagiranno con la solita indifferenza e rassegnazione, o col cinismo di chi è superiore a queste cose; o se forse reagiranno con quel misto di veemente smarrimento e pacato rancore che oggi sembra vada per la maggiore. Comunque sia, ben poco c’interessano le reazioni emotive.

Più proficua e utile sarebbe una riflessione che si ponga criticamente lo scopo di trovare un via d’uscita da questa situazione. Non c’è spazio, nella nostra prospettiva per il cinico realismo di chi si limita a costatare la ragione del più forte e a presentarcela come un’argomentazione “oggettiva”. Ben più utile sarebbe una iniziativa militante di autentica riflessione su quelle che sono le reali variabili in gioco. Ma non quelle variabili che “spiegano” la situazione presente, bensì quelle che possono aiutarci a modificarla. Capire qualcosa per noi significa riuscire a trasformarla!

Pertanto questo scritto non si rivolge a quei lettori per i quali le cose vanno bene così; non si rivolge agli arrivati, ai soddisfatti, ai compiaciuti ed ai ruffiani; a quelli che non hanno mai niente da dire, che gli va bene comunque tutto, purché non li disturbino nell’esercizio delle loro funzioni (che noi ora sappiamo essere parziali, frammentate, vacue e stupide). A questi “coltivatori dell’orto di casa” non abbiamo niente da dire. Peggio per loro.

A tutti gli altri, invece, chiedo: come pensano di comportarsi a fronte della richiesta, ora normata da contratto, di lavorare di più con gli stessi soldi? Come si renderanno flessibili? Quanto saranno disposti a essere operatori parziali e mobili? Come concilieranno la propria professionalità con un ruolo effettivo grandemente istupidito? Saranno disposti ad andare in mobilità se vi fosse esubero del personale, pur sapendo che pare, forse, siano venute meno molte delle tutele previste la precedente contratto? Cosa faranno se gli verrà chiesto di fare 26, 28, 30 ore di docenza alla settimana perché “ce n’è bisogno e occorre rimboccarsi le maniche...”?

Va da sé che la nostra autonomia e la nostra discrezionalità si sono ridotte come singoli operatori. A maggior ragione qualsiasi cosa si voglia progettare o realizzare ci sembra debba, necessariamente, avere una dimensione collettiva. Ma quale forma dare alla nostra iniziativa?

 

E’ chiaro che si tratta di ardue questioni politiche ed organizzative che certo non possono trovare risposta nell’ambito di questo breve e precario scritto, ma una cosa possiamo affermare con certezza: che occorre fin d’ora attrezzarsi di validi strumenti di lettura della situazione presente; questo scritto non vuol che essere un stimolo in tal senso.

Non basta: occorre anche produrre una riflessione più attenta, dare luogo a dibattiti e confronti su questi problemi nei posti di lavoro. E ancora non è sufficiente. Bisogna darsi reali e concreti strumenti di organizzazione e di lotta, che ci consentano una sperimentazione affidabile delle nostre ipotesi di ricerca: in altre parole dobbiamo collaudare le nostre ipotesi su terreno della trasformazione, del cambiamento, dell’iniziativa. Gli agi delle comode poltrone sindacal-riformiste non ci sono concessi.

I fatti sono due: il Padrone ha già preso l’iniziativa e la situazione complessiva e disastrosa. Non possiamo che contrapporci o subire. E quando diciamo Padrone, non s’intenda i datori di lavoro, nel nostro caso gli enti gestori, ma qualcosa di ben più vasto e grande rispetto al quale anche in nostri “padroncini” (con la “p” minuscola) non sono che precarie variabili dipendenti.

Detto questo proviamo anche solo lontanamente a pensare cosa significa effettivamente contrapporsi. Una prima forma di contrapposizione è quella che si colloca sul terreno della mera rivendicazione e che potremmo denominare di “resistenza ad oltranza”. In cosa consiste?

Si tratta di quella prospettiva di dissenso organizzato (che tende quasi inevitabilmente al corporativismo) che mira esplicitamente a ridurre al minimo le perdite, tentando un ricupero di tutti quegli istituti normativi che rappresentavano delle risorse, dei vantaggi o delle tutele. Si tratta di una iniziativa di lotta nella quale lo scopo è riconquistare il terreno perduto e auspicare un ritorno alla situazione precedente, che rappresenterebbe il caso limite, ovvero il massimo raggiungibile.

Prescindendo dal fatto che non si capisce bene quale sia la situazione precedente, questa impostazione tattica della lotta non tiene conto in nessun modo della mutata situazione; non compie alcuna analisi del presente e liquida la negatività dell’attuale situazione imputandola ad un ribaltamento dei “rapporti di forza”; eufemismo, questo, che vuol dire che la “gente” se ne frega, non fa più politica, e quindi il padrone e i suoi amici possono procedere nel loro radioso sviluppo.

Ed è vero, sicuramente il disinteresse della “gente” è grande, così com’è altrettanto vero che il sistema di concertazione messo in atto dai padroni e dai sindacati rappresenta un valido strumento di cogestione del sistema; ma così dicendo non si coglie il dato strutturale di fondo, che comunque non può essere ignorato, e cioè che la formazione oggi è cosa diversa da un tempo, che i mutamenti che sono avvenuti, per la maggior parte, sono irreversibili e che anche tangibili cambiamenti del contesto, del mercato, delle imprese, concorrono ad sostenere questo stato di cose.

C’è forse qualcuno oggi che si sente di riproporre la figura ottocentesca del docente-artigiano? Di un modo di far scuola, istruzione e formazione, che non è mai stato aderente agli effettivi bisogni degli studenti? Che era slegato dal mondo del lavoro tanto che veniva anche indicata come scuola-parcheggio? Che discriminava e selezionava più del 50% degli studenti delle scuole superiori secondo criteri chiaramente classisti? Che nella formazione professionale era sovente legata a clientele, intrallazzi e sacche di rendita da posizione? Cosa si vuol difendere di un sistema che ha prodotto più ignoranza che istruzione, che viveva ai margini delle clientele ed elargiva privilegi? Chi è che vuole un ritorno alle origini? Alla presunta “verginità” delle origini?

Perché questo significato avrebbe il termine “contrapporre”, compreso entro una rivendicazione di questo tipo.

Si pensa forse di poter intraprendere una battaglia corporativa? Ma su quali presupposti? Deteniamo una qualche posizione che ci consente di agire in tal senso? Per niente: siamo dequalificati, sostituibili, intercambiabili, razionalizzati. Questa è la situazione presente!

Un’altra soluzione può essere quella adottata da molte categorie, ovvero quella di monetizzare i disagi, di compensare quello che si è perso da un lato, con più soldi dall’altro. E a ben guardare questa è anche la soluzione che ha in mente il Padrone, almeno nel breve periodo, solo che per lui deve essere necessariamente subordinata a meccanismi di selezione e competizione tra i lavoratori; si tratterebbe in tal caso di monetizzazione selettiva e discriminante.

Ma si potrebbe ancora opporre una monetizzazione per tutti allo stesso modo. Fatte salve le considerazione relative allo stato di penuria vigente e alla politica di contenimento della spesa, ma anche se s’intraprendesse una lotta in tal senso, ci si dovrebbe chiedere: quanto vale ciò che abbiamo perduto? Al di là della difficoltà intrinseca di elaborare una simile valutazione, dobbiamo domandarci: ma questa rivendicabile monetizzazione di quanto modificherebbe i nuovi rapporti di dipendenza, e quindi i nuovi ed inferiori livelli di autonomia, che per effetto della ristrutturazione si sono formati? In altre parole di quanto cambierebbe effettivamente il rapporto politico tra operatori parziali e datori? Di quanto si modifica la capacità di controllo degli operatori, sul sistema, sulle scelte formative, sulle politiche della formazione e sulla qualità della stessa? Di niente!

Per tutti questi aspetti una rivendicazione incentrata sulla monetizzazione, anche se fosse vincente, non farebbe che rinviare nel tempo la totale capitolazione dell’operatore formatore nei confronti dell’agenzia formativa (Ed è questa la ragione per cui in molte realtà la pace sociale se la sono conquistata elargendo 300000 lire, lorde ben inteso, in cambio delle ore autogestite).

Sul medio e lungo periodo, non solo il datore riuscirà riprendersi i soldi dati al lavoratore, ma anche la sua pelle! Perché se così vanno le cose saremo sempre più parziali, più dipendenti, ricattabili, più sostituibili e le nostre potenzialità di intervento si approssimeranno asintoticamente a zero.

Che cosa significa tutto ciò? Che non bisogna fare resistenza? Che non bisogna chiedere soldi?

Tutt’altro! Attivarsi in una prospettiva di resistenza è doveroso quando è possibile. Chiedere i soldi anche, perché essi ci sono utili e sono la sola nostra fonte di sostentamento. In generale, sarebbe quantomeno d’obbligo mantenere un elevato livello di conflittualità, perché abbiamo già sperimentato che la pace sociale degli ultimi anni non paga, che il padrone vuole realizzare, ed opera intelligentemente a questo fine, i suoi progetti di lucro, di successo e di incremento del suo potere.

Ma tutto ciò non basta. Non è sufficiente! Una simile e parziale prospettiva di lotta ci porterebbe in breve ad una inesorabile disfatta.

Qualsiasi cosa si intenda progettare dovrà essere capace di mettere insieme tutte queste cose (rivendicazione normativa e salariale), ma all’interno di un progetto che punti al nuovo, ad una nuova qualità dell’attività umana, capace di leggere le attuali tendenze e di contrapporvisi sul loro stesso terreno.

Tutto ciò è autenticamente velleitario, me ne rendo ben conto, ma ritengo siano le condizioni minime per una qualsiasi ripresa di un terreno di lotta vincente.

Altrimenti non ci resta che rimanere seduti nella caverna a contemplare quelle effimere ombre che danzano in fronte a noi, pur sapendo, però, ch’esse ricevono la loro propria sostanza da un mondo per noi esterno e ad opera di forze che non siamo in grado d’immaginare. Ed allora non ci resterà che prendere i nostri sogni per realtà, essendo noi, in ultima istanza, fermamente convinti della realtà dei nostri sogni.