di Maurizio Pentenero
La Formazione Professionale
costituisce un universo apparentemente separato rispetto alla scuola pubblica.
In realtà, per le sue caratteristiche particolari, è un laboratorio sociale
nel quale si sperimentano innovazioni organizzative e didattiche che troviamo
puntualmente applicate nella scuola “normale”.
È
necessario che ragioniamo su quanto avviene in questo settore anche in
considerazione del fatto che l’80% degli studenti della scuola secondaria
superiore frequentano istituti tecnici e professionali, i più affini alla
Formazione Professionale senza dimenticare che alcuni processi di
“innovazione” riguardano l’assieme della scuola come l’assieme della
società.
Il testo che segue testo che punta,
induttivamente, all'individuazione delle linee di fondo di un processo di
taylorizzazione del lavoro formativo e non deve né essere inteso, come un
documento settoriale, sebbene nasca all'interno di un ambito specifico quale è
quello della formazione professionale.
Potrebbe far parte di un grande
capitolo dal titolo "industrializzazione del lavoro intellettuale e della
formazione", in questo caso professionale, ma che guarda già alla
tendenza.
L'autore, Maurizio Pentenere, docente all’ENAIP di Torino si ritiene un co-autore e considera il testo il prodotto di un lavoro collettivo.
Sulla
Formazione Professionale riportiamo alcuni, brevi, dati:
1) in Piemonte da lavoro a circa 2000
dipendenti (docenti ed impiegati) suddivisi in 63 Enti (più o meno)
2) per ogni docente dipendente
ruotano in genere, ma in modo discontinuo e variegato, circa 20 formatori a
parcella; per cui si può stimare l'ammontare regionale intorno alle 10000 unità;
3) il bilancio annuo della FP
regionale è di circa 160 miliardi dei quali il 40% sono soldi della regione e i
rimanente fondi comunitari
4) esiste anche il settore in
espansione della scuola di stato, nel quale, in appalto, svolge un ruolo
nell'area professionalizzante
5) negli ultimi anni si è realizzato
il passaggio dei centri di formazione alla forma di agenzie "leggere"
(pochi impiegati e tanti esperti esterni)
6) mediamente un docente prende
2.000.000 al mese e fa 25 ore di docenza frontale in classe e 36 ore di lavoro
settimanale
7) gli esperti lavorano senza alcuna
garanzia occupazionale, su un territorio molto vasto, con orari che vanno dalle
8 del mattino alle 11 di sera (sempre 36 ore max, non sempre), senza mutua,
senza ferie, con la minaccia che il contratto non venga rinnovato e prendono
mediamente dalle 36.000 alle 60.000
La formazione professionale è un
settore che, vuoi per la sua intrinseca natura, vuoi per ragioni storiche, si è
quasi sempre collocato a cavallo tra rendita, profitto e salario. In altri
termini ciò significa che in parte la formazione è una necessità delle
moderne società industriali, ed in questo si lega al profitto, in parte è una
forma indiretta di salario, in quanto servizio alla mano d’opera, ed in parte
è rendita, ossia una forma di ridistribuzione di surplus elargito, come tutta
la rendita, con una specifica funzione di contenimento del salario. Non solo
rendita che mantiene finanziariamente in vita i pletorici apparati degli enti
gestori, a loro volta legati a sindacati, a partiti e varie agenzie di consenso,
ma anche rendita da posizione, rendita di riconoscimento sociale e politico, per
quelle organizzazioni che tanto hanno contribuito a mantenere i salari ai minimi
livelli compatibili con un livello minimo della domanda interna volta ai
consumi.
Proprio per quest’atipica e duplice
collocazione che gli enti oscillano tra velleità aziendalistico-imprenditoriali
e membri di quel nobile, quanto falso, “terzo settore” senza finalità di
lucro e tutto rivolto a i servizi. Così anche da questa angolazione, si capisce
molto bene la “politica” sindacale dagli accordi del ’92 in poi,
caratterizzata da una quasi totale subalternità agli imperativi dell’impresa
e oscillante tra un smorto rivendicazionismo ideologico e l’ideale di un
automatismo salariale, nel quale scompare persino il senso della parola
“contrattazione”. E si capiscono bene anche i comportamenti degli operatori
che di volta in volta si percepiscono come lavoratori spremuti, o come soggetti
garantiti.
Ma il fatto è che, diciamo dalla
memorabile tangentopoli in poi, la musica è cambiata. Caduto il governo del
debito ad oltranza, si sono gradualmente serrati i rubinetti della spesa
pubblica. Il metodo dell’appalto si è diffuso capillarmente a tutti i
livelli, e si è riverberato a cascata fino agli operatori legati da un rapporto
di lavoro dipendente che oggi, per la prima volta, sono divenuti la minoranza
degli operatori del settore, circondati e sovrastati dal moltiplicarsi delle
forme autonome del lavoro consulentizio.
Mai come in questi ultimi anni è
stata bassa la conflittualità sociale e mai come oggi il salario. Non solo in
termini monetari, ma anche in termini politici, di soggetti garantiti,
assistiti, ecc. E’ quindi normale che non essendo più il salario quella
temuta variabile indipendente che era, anche la rendita da posizione del
sindacato deve cedere il passo all’incedere dell’impresa. Non servono più i
cani da guardia quando i gregge e ricondotto all’ovile. Ecco quindi che il
sindacato, sempre più subalterno, e abbandonato dagli stessi lavoratori, si
vede costretto a continui arretramenti, compromessi e cedimenti, al punto
odierno di presentarsi nel complesso fortemente diviso, ormai scarsamente
rappresentativo e di fatto scalzato da interi distretti produttivi, dove le
nuove forme del lavoro precario e autonomo sono egemoni.
Gli Enti gestori, dal canto loro, non
riescono più ad alimentarsi di quel costante flusso di denaro che dalle casse
dello stato finiva direttamente nelle loro. Sono costretti a competere, ma sono
ancora legati al sottobosco della rendita politica. Nel medio periodo hanno
optato per una razionalizzazione delle proprie attività, per un taglio
sistematico dei costi vivi, senza peraltro rinunciare a foraggiare il loro
improduttivo apparato, e puntano quasi tutto sul lavoro a parcella.
Presentandosi di volta in volta come
imprese o come organizzazioni no-profit, in funzione delle circostanze e delle
opportunità, o del loro interlocutore del momento, a seconda che sia il
personale interno o il variegato mondo esterno, di fatto viaggiano a tentoni
dando un colpo al cerchio e uno alla botte, diffondendo ad arte allarmi e
rassicurazioni.
Ma nella sostanza, seppur in modo non
uniforme, né costante, hanno messo in atto un processo di taylorizzazione
dell’attività formativa, per ora più attento ai costi che alla qualità dei
servizi. Ed in questo si sono adeguati ad un movimento generale di
efficientizzazione che oggi attraversa tutti gli ambiti produttivi, soprattutto
nel pubblico impiego.
Per quanto ormai rassegnati ad
adeguarsi al “mercato” (misteriosa parola che poi significa dominio del
profitto contro il salario e la rendita), non smettono di sperare in un rilancio
della rendita mediata politicamente, tramite i propri referenti di turno, così
come il sindacato spera di poter nuovamente essere riconosciuto come
interlocutore privilegiato (ma ahi noi! La Confindustria, agli albori del
governo Berlusconi, non sembra dello stesso parere), ancorché, da noi
soprattutto, intendo nella formazione professionale, continui ad alimentare
parte del management degli Enti gestori ed abbia le mani in pasta più o meno
dappertutto.
Così anche gli operatori continuano
a sperare nel merito, nella qualità, nelle garanzie, anche se quotidianamente
non possono non vedere gli aumenti dei carichi di lavoro, i blocco sostanziale
del proprio salario e il gigantesco esercito di concorrenti precari che spingono
ai cancelli chiedendo, di fatto, la loro testa.
In questa situazione di
“transizione”, per usare un cauto eufemismo, tutti guardano ai fatti loro,
con diffidenza si scrutano, cercando di capire cosa conviene fare, e intanto
sperano che qualcosa cambi.
Ora il fatto è che questa situazione
è strutturale e non contingente. Che il processo in atto non è il semplice
concorso di fattori occasionali, bensì corrisponde ad un preciso processo di
segmentazione dei mercati e di riorganizzazione del sistema impresa nel suo
complesso che, in parte trainato dalla sfida europea, in parte pressato da ampie
aree di mercato extraeuropeo, in parte infine, dal nuovo ruolo dello stato
nell’economia, spinge e diffonde un nuovo modello di sviluppo.
E questa spinta oggi è possibile
proprio perché, anche in quel piccolo e marginale settore che è la formazione
professionale, sono passate trasformazioni che hanno sostanzialmente mutato i
suoi contenuti e suoi processi.
In questo settore, come, appunto,
dappertutto, la trasformazione di fondo che si è consumata, o perlomeno, che ha
fatto un grande balzo in avanti, è appunto uno dei processi di fondo di tutta
la modernizzazione; ovvero la razionalizzazione, dell’attività formativa, in
questo caso.
Che da noi, per ragioni anche
storiche e culturali, ha avuto la forma di una taylorizzazione secondo schemi già
collaudati nell’industria e quindi piuttosto vecchi, mentre altrove, ha,
tutt’oggi forme più evolute, ma che non tarderanno a mostrarsi anche ai
nostri occhi. Tutto il resto, ossia le varie, molteplici mutazioni culturali e
subculturali, come il venir meno delle ideologie, delle subculture cattoliche e
comuniste, e della cultura popolare (in senso lato), del legame sociale, non
sono, e questa è un’ipotesi, tutta da verificare, che aspetti collaterali e
dipendenti di questo grande e meno appariscente capovolgimento.
Silente, ma pervasiva, ammantata di
progressismo, ma sostanzialmente retrograda (almeno nei suoi effetti) la
razionalizzazione si è fatta strada legandosi all’innovazione tecnologica,
che è il suo principale tramite, ed è avanzata penetrando anche negli angusti
anfratti delle pratiche private e riproduttive. Il suo fine generale e il
risparmio di tempo, tempo di lavoro e d’attività in primo luogo, ma il suo
primo effetto è l’uniformazione omologante e l’assorbimento delle
differenze. E dato che questo processo si lega “dolcemente” ad un taglio dei
costi diretti, trova un naturale contraltare in tutte quelle ideologie del
management che nella crisi della rendita vedevano il venir meno della loro
principale forma di finanziamento.
Così dal 1980 in poi, tutti sono
diventati modernizzatori e gradualmente razionalizzatori efficientisti e, in
questo ruolo tutto esogeno si sono sentiti pure civilizzatori. La festa, la
lotta, la solidarietà sociale, il “lavorare meno” sono diventati tutti
sinonimi di spreco, di corruzione, di sottosviluppo. Proprio quei soggetti
individuali e istituzionali, che in quel consociativismo legato alla rendita (Craxi
e il suo sistema ne è stato l’epigono) sono cresciuti e si sono arricchiti,
improvvisamente, hanno scoperto la propria moderna indole efficientista e si
sono fatti portatori, spesso inconsapevoli del gioco grosso, del nuovo verbo.
Questo discorso generale può essere
fatto per tutti gli ambiti vitali, ma, come vedremo tra breve, assume forme
peculiari, proprio nel suo installarsi sul nucleo di quelle complesse attività
che sostanziano la formazione. Certo si potrebbe ricostruire questa storia come
resoconto delle responsabilità di soggetti specifici e della loro doppiezza (e
sovente malafede), ma non mi interessa, perché, seppur sarebbe senz’altro
realistica, perderebbe di vista il tratto saliente e strutturale della vicenda,
il suo aspetto di fondo epocale e si ridurrebbe ad un ricostruzione frammentata
di contingenze. Mentre è proprio l’innestarsi di queste contingenze sul
tronco della grande trasformazione che ha permesso l’avanzare del processo e
dell’appiattimento generalizzato così desolante che abbiamo di fronte. La
controprova di questa convinzione, sta nel fatto che oggi, quegli stessi
opportunisti soggetti, che un tempo calcavano le scene del teatrino della
modernità, facendola da padroni, oggi cominciano a capire che sta per arrivare
il loro turno, si sentono il fiato sul collo e non sanno più bene a quale santo
rivolgersi.
Chiariamo fin da subito che non si può
avere una idea realistica di cosa sia la formazione oggi (in vero già da un
po’ di tempo) se la si guarda esclusivamente dall’interno della propria aula
d'insegnamento. Gli insegnanti tradizionali sono spesso portati, per ragioni
oggettive, ma anche soggettive, ad avere un orizzonte visivo assai ristretto.
Nel migliore dei casi essi vedono la formazione nell’ambito del proprio ente,
quando non addirittura del proprio centro d'appartenenza, e questa visione
parziale, limita notevolmente le informazioni significative, preclude la
possibilità di cogliere le relazioni portanti con l’ambiente esterno, non
consente, in altre parole, di costituire quel quadro d’insieme che solo è in
grado di fornire indicazioni reali sulle tendenze e sugli sviluppi in corso.
L’ente gestore, nel nostro caso, i
datori di lavoro, in generale, hanno da qualche tempo assunto un punto di vista
olistico, cioè che guarda prima l’insieme, il Tutto, e poi le Parti, e che
tiene sempre presente la complessa rete di relazioni tra le Parti e il Tutto.
Appunto il Tutto della formazione oggi si attesta ad un livello quantomeno
europeo. Inoltre l’odierna formazione è un sistema in molteplice relazione
con differenti interlocutori: parte delle istituzioni pubbliche (istruzione
pubblica, regioni, comuni, enti, ecc.), le associazioni imprenditoriali e il
sistema delle imprese nel suo complesso, le istituzioni di livello europeo (UE),
enti, consorzi e soggetti privati d'altre nazioni, e, non da ultimo, il
variegato mondo dell’utenza privata, dei cosiddetti cittadini, dei giovani,
dei disoccupati, delle fasce deboli, con tutte le loro sotto differenziazioni
interne. A questi bisogna ancora aggiungere i grandi network della formazione
legati alle televisioni (oggi principale strumento formativo) e alle case del
software, che sempre più s’insinuano nell’universo formativo in un
proliferare di reti locali, territoriali, globali (si veda quanto sia stata
recentemente sovraccaricata di significati formativi Internet).
Se questo è vero, si capisce subito
come non sia possibile comprendere alcunché di significativo se ci si relega
entro gli angusti spazi di un punto di vista locale e si capisce anche come
localmente sia impossibile, sulla semplice base della propria esperienza
diretta, cogliere la molteplice e complessa articolazione delle parti, dei
soggetti in gioco, dei processi in atto.
Quindi diciamo, almeno per ipotesi,
che la formazione non è l’insegnamento, bensì un complesso sistema
articolato nel quale la docenza, l’insegnamento, svolge un ruolo specifico,
ma, come vedremo, non più centrale. La formazione oggi è un sistema che mette
in campo una produzione industriale di prestazioni formative finalizzate alla
produzione di pacchetti capacitativi formalizzati, che vengono acquistati
dall’utenza (direttamente o indirettamente) come fossero delle merci, in
funzione della domanda e d'altri vincoli locali o globali. Gli enti gestori, che
oggi aspirano ad essere agenzie, non sono che una parte aliquota del tutto
formativo, uno dei tanti soggetti che oggi agiscono entro questo sistema.
Anche se può sembrare pleonastico --
ma non lo è -- proviamo a chiederci che cos’è la formazione in generale
(quindi anche quella professionale). La formazione è quell’ambito
trasformativo nel quale si modificano delle attitudini e si costruiscono capacità
e/o competenze atte a soddisfare determinati bisogni (di chi?).
In particolare possiamo affermare,
semplificando, che la formazione è un processo di trasformazione fondato e
mediato da un rapporto formativo. Chi sono i soggetti di questo rapporto? In
ultima istanza il docente e il discente, l’agente formatore (non
necessariamente umano) e l’utenza, ovvero due categorie di soggetti, con
differenti ruoli, capacità e attitudini, che entrano in un rapporto formativo
nell’ambito di un processo di formazione. Non vi è formazione senza queste
due figure.
La docenza tuttavia non indica una
persona, ma solo un ruolo e una funzione; è altresì una nostra erronea
abitudine quella d'identificare la docenza con l’insegnante; come vedremo,
infatti, questa è una correlazione storica che si ritrova solo entro uno
specifico modello d'organizzazione formativa, un modello che a livello normativo
è ottocentesco.
Sempre più la funzione di docenza è
svolta da una pluralità di soggetti organizzati, che interagiscono
abbondantemente con mezzi e supporti. In qualche caso la funzione di docenza è
assunta da macchinario (si pensi ad esempio alla tele-formazione, ai tutorials
informatici, ai network, al Progetto Nettuno del Politecnico, ecc.).
Comunque sia, nel nostro
settore, noi eravamo ancora, almeno culturalmente, legati ai vecchi schemi,
secondo i quali centrale, per la formazione, è il rapporto insegnante/allievo.
A questa configurazione del rapporto formativo fa riscontro un’organizzazione
che potremmo definire Top-down; ovvero una situazione organizzativa e
finanziaria nella quale, a fronte di una domanda relativamente stabile e
chiaramente definita per comparti, settori e competenze, l’istituzione
pubblica definisce degli standard formativi ai quali gli erogatori del servizio
devono conformarsi per ottenere il relativo finanziamento.
Fino a poco tempo fa la prestazione
formativa veniva erogata nelle rispettive sedi sulla base di prestazioni che
erano demandate quasi per intero alla professionalità dei singoli docenti e
all’organizzazione didattica definita dai relativi centri di
formazione/progettazione. L’autonomia degli insegnanti in questo contesto era
molto elevata, o almeno lo era fino a non molto tempo fa, e il loro effettivo
potere discrezionale di conseguenza anche.
Solo recentemente, diciamo negli
ultimi dieci anni, si è assistito al tentativo di promuovere una
modularizzazione della prestazione formativa che ne definisse le tappe, le
modalità, i mezzi e i tempi, nonché i criteri di verifica.
Questo precedente tipo
d'organizzazione relativamente semplice e stabile poteva essere idonea a fronte
di una domanda abbastanza stabile, omogenea nei differenti comparti e di
relativamente facile classificazione.
Le cose non stanno più in questo
modo.
Infatti, molteplici e cangianti
fattori sono intervenuti a modificate il contesto della formazione. Non è
questa la sede per trattare in dettaglio questi mutamenti; limitiamoci pertanto
a riepilogarli sommariamente.
Fino, diciamo, approssimativamente
alla riforma della scuola media superiore del 1969 (tanto per stabilire una data
di riferimento) la formazione era per lo più limitata all’istruzione dei
giovani, sia primaria che secondaria, ed assolveva principalmente la funzione di
diffondere l’istruzione primaria in un paese nel quale i livelli d'alfabetizzazione
erano molto bassi. Con la riforma della media superiore viene recepita la
domanda di un crescente numero di giovani, d'estrazione per lo più proletaria,
che accedevano per la prima volta all’istruzione superiore. Ma
fondamentalmente la formazione restava un campo d'attività separata,
prevalentemente rivolto ai giovani che attendevano d'entrare nel mondo del
lavoro. Per il resto ogni singola attività produttiva conservava, al suo
interno, le forme e i meccanismi di trasmissione del sapere, delle competenze,
delle capacità.
Nell’arco di 20 anni, il procedere
dell’industrializzazione delle varie branche dell’attività lavorativa, lo
sviluppo della terziarizzazione del lavoro, la razionalizzazione del lavoro in
generale, hanno eroso e di fatto annullato le specificità qualitative che
ancora differenziavano i vari saperi lavorativi. Questi infatti sono andati
formalizzandosi come costrutti del sapere tecnologico ed in parte si sono
incorporati nel macchinario. Sono sotto gli occhi di tutti i cambiamenti
emergenti. Crescente sostituzione del lavoro umano con macchinario, aumento
della disoccupazione per obsolescenza delle competenze richieste, ecc. Lo
sviluppo della microelettronica e dell’informatica hanno poi fatto
letteralmente sparire molte delle professionalità esistenti, radicalmente
trasformate altre. Fino a sette otto anni fa era un fatto eccezionale trova
all’interno di una scuola un’aula attrezzata con PC, nemmeno multimediali;
oggi quasi tutti i centri di formazione dispongono di una rete locale, di un
collegamento Internet permanente e quasi sempre dispongono di un sito web
dedicato.
A questo quadro d’insieme occorre
ancora aggiungere che le mutazioni dei mercati, la loro progressiva
internazionalizzazione, la possibilità crescente di spostare processi
lavorativi ad alta intensità di lavoro vivo nei paesi del terzo mondo, la
saturazione dei mercati nostrani e la conseguente necessità di variare e
differenziare l’offerta di prodotti, ecc., sono tutti fattori che hanno
contribuito notevolmente a frammentare e complessificare il mondo delle attività
produttive.
La prima conseguenza di questo balzo
tecnologico-organizzativo può essere definita come l’estensione di un
processo di tendenziale uniformazione del mondo delle attività utili, in virtù
del quale esse tendono a rassomigliarsi e a perdere le differenze specifiche,
sempre più assorbite dal macchinario e/o dai software operativi. L’attività
di un metalmeccanico nella moderna impresa robotizzata, non si distingue di
molto da una qualsiasi altra attività, consistente per lo più in un insieme di
azioni di sorveglianza e controllo, nella quale sono venute meno le più antiche
capacità di manipolazione e artefattura. Cosicché la formazione delle
competenze necessarie tende a essere sempre più la stessa ovunque, per quanto,
ancora, ma a livelli molto specifici e di dettaglio, continuino per ora a
persistere delle microdifferenze.
Lentamente la formazione delle
capacità (non l’istruzione quindi) da momento interno delle singole aree
produttive e divenuto un momento separato, esterno, formalizzato, entro
l’universo dei saperi tecnologici.
Non da ultimo dobbiamo considerare
anche la crescente precarizzazione e autonomizzazione del lavoro umano vivo,
l’accorciarsi dei contratti, lo sviluppo del part time e delle forme di lavoro
atipico, e tutti quei mutamenti che hanno fatto da contorno, sul piano
normativo, a quel movimento di ristrutturazione industriale che va sotto il nome
di “qualità totale”; una sorta di “one best way” delle imprese italiane
negli anni ‘80 e ‘90.
Bene, a seguito di queste ed altre
trasformazioni, che qui possiamo solo accennare, i soggetti coinvolti hanno
cominciato a manifestare una differente domanda formativa. I lavoratori,
travolti da questi repentini mutamenti, sovente si trovano a doversi
riconvertire più volte nel corso della loro vita lavorativa, in tempi brevi,
conformandosi alle nuove competenze richieste. La crescente massa di disoccupati
e precari è portatrice di una domanda formativa assai differenziata ed in
continuo mutamento, in funzione del variare della domanda di lavoro, delle
scelte strategiche delle imprese, dell’innovazione tecnologica accelerata.
Immigrazione, fasce deboli della popolazione e altre forme di disagio sociale
diffuso, completano il quadro nefasto della nostra situazione alle soglie del
terzo millennio.
Che cosa diventa la formazione in
questo contesto?
La formazione è sempre stata una
grande trasversalità, ossia un momento trasformativo presente più o meno in
tutte le attività che garantiva la riproduzione di nuove capacità, la
trasmissione del sapere, il ricambio della manodopera specializzata (ed esiste
anche la formazione dei formatori).
Essa conserva questo carattere di
momento trasversale, tuttavia ora si presenta esterno alle singole attività e
branche produttive; cioè diviene essa stessa una branca produttiva, accentrata
in un determinato comparto (come ad esempio la formazione professionale) e
preposta a soddisfare con efficienza ed efficacia, la variegata domanda che
emerge dal contesto sociale.
Quanto questa formazione sia diversa
da quella rivolta all’istruzione primaria e statale in genere pare del tutto
evidente, cosi come sembra ineluttabile, in questa tendenza, la sua crescente
importanza strategica per l’azienda Italia. E si comincia anche a vedere come
la stessa scuola statale stia cominciando a modificarsi pure in questo senso,
compatibilmente con l’innata lentezza tipica di certi apparati statali.
Insomma la formazione da trasversalità
distribuita in una pluralità di comparti e settori, e coinvolgente una gran
varietà di soggetti, tende inevitabilmente a divenire, una trasversalità
accentrata, organizzata in impresa, con personale specializzato, e preposta a
far fronte alla pluralità della domanda, alla sua varietà, ai suoi repentini
mutamenti, ecc. Non si parla forse tanto dell’esigenza di formazione
permanente? E’ un dato di fatto che oggi continuativamente le capacità e le
competenze richieste mutano, le opportunità di lavoro cambiano, le dinamiche di
mercato variano, e la gente deve adattarsi, non potendo più fare altrimenti, a
tutti questi cambiamenti.
Un primo dato allora è tutto
inscritto entro la composizione della domanda di formazione. Qual è,
sommariamente, la composizione di questa domanda?
In primo luogo è facile notare come
la domanda vari in funzione della dislocazione territoriale; infatti, essa non
è omogeneamente distribuita, ma riflette ancora, in una certa qual misura, la
distribuzione territoriale delle varie realtà produttive. E questa
distribuzione, non è più fissa, come un tempo, ma essa stessa cambia con
velocità crescente, in funzione della redditività locale d'investimento, della
presenza o meno di certe risorse e di vincoli della più svariata natura. Una
formazione, costruita su un modello d'impresa efficiente, deve essere in grado
di far fronte a questa dislocazione della domanda e alle sue continue
metamorfosi. Tutti noi ci ricordiamo come venisse chiesto ai promotors e ai
tutors se erano disposti a spostarsi sul territorio. Flessibilità qui vuol dire
una formazione non più radicata entro un territorio delimitato (la provincia,
la regione), bensì una formazione capace d'essere presente, nel momento giusto,
ove vi è il bisogno formativo o dove si presume che possa insorgere.
In secondo occorre tener presente la
pluralità della domanda di formazione, ovvero la varietà e le specificità
indotte dalle differenze tra i soggetti che la esprimono. E’ noto come una
parte della domanda sia legata alle esigenze produttive delle imprese, ai loro
bisogni di ristrutturazione e di riconversione del personale addetto; un’altra
parte è legata al settore pubblico, che in questo periodo di tagli è
anch’esso investito da trasformazioni, volte per lo più ad un recupero
dell’efficienza; un’altra agli espulsi dal mondo del lavoro; altra ancora
alle aree del disagio; una domanda forte viene ancora dal mondo giovanile in
cerca di prima occupazione e poi dagli immigrati, altra realtà emergente nelle
nostre città. Senza poi considerare quella domanda che dipende da scelte
culturali spontaneamente espresse dai cittadini per adeguarsi ai modelli imposti
dalla società dei consumi, dalle mode, dalla pressione all’omologazione
(“faccio un corso di informatica, ma non so il perché…”)
Si vede come la varietà della
domanda sia assai vasta e complessa e come essa richieda un continuo adattamento
delle risorse al contesto, una continua ridefinizione degli obiettivi formativi
e dei processi annessi, e così via.
A fronte di questo nuovo quadro
d’insieme, quali sono le caratteristiche peculiari di un intervento formativo
che voglia essere all’altezza della situazione? O meglio, che voglia
quantomeno sopravvivere in questo turbolento contesto ove anche altri soggetti
privati, nazionali ed esteri, si presentano agguerriti e con una più o meno
ampia offerta formativa, capace senz’altro di spiazzare chi non si presenta
con quei requisiti di competitività e di qualità adeguati?
In sintesi possiamo individuare almeno tre prerequisiti dell’odierno intervento formativo:
1) la tempestività
dell’intervento, in altre parole la sua attitudine ad attivarsi velocemente,
nel luogo giusto e al momento giusto, con tempi estremamente ridotti di
progettazione, programmazione, allocazione delle risorse ed erogazione della
prestazione, nella sede più appropriata e su un territorio estremamente vasto;
2) la flessibilità
dell’intervento, cioè la sua capacità di adattarsi alle mutevoli esigenze,
ovvero a ricomporre in modo specifico quel mix di contenuti e modalità che sono
idonei per soddisfare quella particolare esigenza; quindi flessibilità dei
formatori e loro polivalenza funzionale e didattica, nonché modularizzazione
dei contenuti e loro possibile ricombinazione in funzione degli scopi formativi,
ecc.
3)
la permanenza: siamo di fronte ad una strategia di interventi formativi
passibili di reiterarsi nel tempo e non più legati ad un periodo determinato
della vita umana.; un lavoratore, uno studente, un cittadino, può nel corso
della sua vita, per aspetti e motivi differenti, ricorrere più volte, in tempi
distinti, ad un intervento formativo; formazione permanente significa proprio
questo: che l’utenza non è data una volta per tutte da una certa fascia di
popolazione, che altresì ritorna in formazione dopo un certo tempo per
adattarsi al nuovo contesto, alle innovazioni tecnologiche, alle dinamiche del
mercato del lavoro, ecc.
Non è peraltro fuori luogo ribadire
ancora che la formazione è tutta incorporata entro un complessivo contesto di
mercificazione. Che sempre più la formazione tende a mercificarsi, cioè a
ridursi alla confezione di pacchetti formativi standard, che vengono venduti
come se fossero della merci e questo non solo in virtù del venir meno di
pubblici finanziamenti e del corrispettivo sviluppo dei corsi a pagamento, ma
anche in guisa del fatto che si sviluppa, parimenti, alla domanda, un vero e
proprio mercato della formazione; questo accade proprio perché vengono sempre
meno i presupposti di quell’artigianesca formazione che prima era relegata
alle specificità, ora saltate, degli ambiti lavorativi, con il loro sapere e le
loro locali capacità, spazzati via dall’incalzante innovazione tecnologica.
E tutto ciò in una dimensione sempre
più internazionale, oggi di livello quasi europeo. Con il prossimo sviluppo
delle reti di comunicazione a fibre ottiche e delle autostrade informatiche,
questa tendenza complessiva tenderà ad acuirsi, non solo in ragione di una più
facile e meno costosa potenzialità comunicativa, ma anche in forza di una più
elevata integrazione di sistema, quindi dell’estendersi dei mercati (vedi i
paesi dell’est), e del vivacizzarsi della competitività sul mercato della
formazione. Già si parla di tele-formazione, del pericolo delle, a quanto
sembra ad assai alto livello di concorrenzialità, agenzie estere e dei loro
elevati standard di qualità, ecc.
Fino ad ora abbiamo visto quali sono
i cambiamenti del contesto formativo e come questi si impongano in forma di
necessità, cioè quanto essi facciano sentire al più sprovveduto degli enti
gestori o dei privati imprenditori, l’esigenza di una svolta, di un
cambiamento radicale del modo e delle forme del fare formazione oggi.
E’ quindi all’ordine del giorno,
in forma oggettiva, indipendentemente dalla consapevolezza che ne possono avere
gli operatori e i vari soggetti coinvolti, un adeguamento della formazione e,
come vedremo, in primo luogo proprio della formazione professionale, in quanto
più vicina e sensibile alle dinamiche del mercato ed anche più ricca di
iniziative private tra loro in concorrenza.
Ma dobbiamo chiederci: questo
cambiamento strutturale delle forme organizzative è ancora tutto da fare? A che
punto è oggi quel processo di razionalizzazione dell’attività formativa che
sembra imporsi con tanta evidenza?
E’ bene notare che questo processo,
seppur in forme non sempre visibili, tantomeno consapevoli, ha già fatto,
proprio nel nostro settore, notevoli progressi negli ultimi lustri, segnatamente
laddove altresì assumeva le forme del miglioramento in generale, del
perseguimento di una maggior qualità genericamente intesa, ancorché, sovente,
per iniziativa di volenterosi operatori che, nel tentativo, più che legittimo,
di svecchiare arcaiche didattiche, non si avvedevano di dare un grande
contributo proprio a quella razionalizzazione che oggi, alla luce dei
cambiamenti in atto, sembra rivolgersi loro contro. Dopo tante fatiche, quella
qualità perseguita in buona fede e con le migliori intenzioni, si rivela una
terribile arma nelle mani dell’impresa formativa, contro gli operatori stessi.
Quella che sembrava una qualità
necessaria, per una formazione diversa, è oggi tradotta, non senza gravi
riduzioni e tagli, in termini di quantità ed efficienza, di dequalificazione
del personale e maggiori profitti.
Ma proviamo a chiederci cosa voglia
effettivamente dire “razionalizzazione dell’attività formativa”.
La razionalizzazione storicamente si
è sempre affermata, almeno ai suoi inizi, come una razionalizzazione del
prodotto, cioè dell’output del processo, che nel nostro caso non è altro che
la prestazione formativa. Questa razionalizzazione del prodotto è la via più
facile per la razionalizzazione dell’insieme del processo.
Ovviamente, ad oggi, la distinzione
tra razionalizzazione del prodotto e del processo che gli sta a monte è solo
teoretica; in effetti esse procedono ormai di pari passo e si alimentano l’un
l’altra reciprocamente. Comunque sia, per i nostri fini espositivi, perveniamo
ad una maggior chiarezza se consideriamo i due processi come separati.
E’ bene precisare che gran parte
delle cose che andremo costatando rappresentano tappe di un processo in gran
parte già compiuto, anche se raramente assurgono a dato manifesto.
E’ noto a tutti gli insegnanti
della FP (ma anche a quelli della scuola in generale) come negli ultimi anni si
sia assistito ad una progressiva formalizzazione dei contenuti didattici, dei
percorsi formativi, delle prove di verifica. Sovente gli insegnanti hanno, loro
malgrado, aderito a queste iniziative e variamente partecipato con interesse;
altre volte le hanno snobbate come “astratta produzione di carta”. Il fatto
è, checché ne pensino gli interessati, che il primo passo della
razionalizzazione consiste proprio nell’osservazione e rappresentazione
formalizzata delle diverse e sequenziali fasi dei processi formativi, dei
contenuti, dei passaggi, dei saperi e delle discipline coinvolte, nonché dei
criteri e delle modalità di valutazione.
A proposito qualcuno della formazione
professionale si ricorderà quel primo fascicolo sulle fasce di qualifica che
una quindicina di anni fa definiva, per la prima volta, i contenuti dei percorsi
formativi nel comparto dell’industria: ebbene quello fu un primo passo di
quest’osservazione. Oggi non è difficile reperire negli uffici di
progettazione dettagliate e articolate schede dei contenuti dei corsi.
Tutta questa attività di
osservazione, formalizzazione, rappresentazione delle prestazioni formative e
degli obiettivi è stata portata a compimento negli ultimi dieci o quindici
anni; anche se poi, a livello della pratica, spesso le cose procedevano al
solito modo.
Ma in qualche luogo si è accumulato
un sapere formalizzato e scritto, che indica i diagrammi di flusso dei vari
percorsi di formazione, in relazione alle qualifiche, degli obiettivi e dei
sotto obiettivi corrispondenti, delle risorse necessarie, delle competenze
richieste, delle modalità di verifica.
Dopo questa prima fase di
osservazione, questo materiale è stato ancora analizzato, studiato,
semplificato e ricomposto in moduli preposti al raggiungimento di certi
sotto-obiettivi. E’ oggi una realtà consueta per molti insegnati adottare
moduli di contenuti già predisposti; moduli che lo stesso insegnante adotta,
adatta e migliora, dando più o meno volontariamente un grande contributo a
questa razionalizzazione delle prestazioni.
La modularizzazione dei contenuti e
la formalizzazione delle verifiche non sono che un primo sommario risultato di
questo silente processo di razionalizzazione del prodotto. I moduli poi
manifestano una loro specifica autonomia e presto si scopre che è possibile
scorporarli dal loro contesto, mixarli con altri ed ottenere percorsi ad hoc
in vista di altre prestazioni specifiche.
Bene, tutto questo processo di
osservazione, analisi, scomposizione, ricomposizione, classificazione è stato
in gran parte già compiuto ed ad esso vi ha partecipato, volente o nolente,
anche l’insegnante ignaro, ed ancora continua a parteciparvi. Oggi, poi, vi
sono nuovi ruoli organizzativi preposti allo scopo (addetti alla
micro-progettazione nei centri e alla progettazione negli enti).
La prima conseguenza tangibile di
questo processo è appunto dato dalla segmentazione e classificazione dei
percorsi formativi, dal costituirsi di un insieme formalizzato di pacchetti che
definiscono gli obiettivi, i metodi, i contenuti, le risorse, i tempi e i
criteri di verifica idonei; perciò costruire un percorso formativo, per un
addetto alla progettazione, oggi, si riduce alla scomposizione dell’obiettivo
formativo in sotto-obiettivi, all’individuazione dei moduli didattici
corrispondenti, all’assemblaggio degli stessi e alla costruzione di un
meccanismo di feedback. E il docente è stato espulso da questa fase; divenuto
ormai mero esecutore di un processo formativo studiato altrove e poi attuato da
un insieme di “esperti” tra loro separati ed autonomi.
E’ bene notare che la scomposizione
della prestazione in moduli prelude ad una suddivisione della prestazione stessa
su un numero variabile di soggetti differenti a ciascuno dei quali viene
richiesta solo più la competenza necessaria per la reiterazione di quel modulo,
con la conseguente perdita di professionalità dovuta alla riduzione del suo
ambito di intervento. Non più insegnante di informatica, ma di quei particolari
moduli di informatica, i cui contenuti sono delimitati e definiti, e la
professionalità richiesta decisamente più bassa e quindi più facilmente
sostituibile, o più facilmente reperibile a buon mercato.
Emerge così la figura di un
“insegnante modulare limitato e mobile”, capace di reiterare continuamente
quell’esiguo numero di moduli mobilizzandosi su differenti percorsi formativi,
magari anche in sedi diverse, e così via.
Il primo effetto (tutto politico,
perché comporta una perdita di autonomia e di potere contrattuale) della
modularizzazione è appunto la delimitazione e frammentazione della
professionalità richiesta al docente, operata mediante una restrizione del suo
dominio d’azione.
E’ bene notare che il processo di
modularizzazione a dato luogo ad una proliferazione di nuovi ruoli (promotor,
tutor, progettisti) che ad arte il padrone ha saputo presentare, ai disorientati
operatori, come un’opportunità di crescita professionale e di carriera (e che
il sindacato ha ciecamente avallato nella sua totale subalternità e miopia),
mentre in realtà si trattava, nella maggior parte dei casi, di ruoli
accorciati, assolutamente vuoti di aspetti qualitativi, spesso ridotti a pure
attività compilative ed esecutive di tipo impiegatizio, perlopiù alienanti
nella loro vacua stupidità e di fatto espletabili da qualsiasi persona dotata
di una normale istruzione. Quindi ruoli poveri di professionalità, facilmente
sostituibili o esternalizzabili, che sono stati pagati qualcosa di più dei
ruoli docenti solamente in forza di un aumento dell’orario di lavoro e spesso
di un sovrabbondante lavoro straordinario. E questo fenomeno assai triste di
rincorsa e di “carriera” ci ha dato la misura del livello di spaesamento
generalizzato e di smarrimento di un’identità (sia pur professionale).
L’organizzazione scolastica,
diciamo pre-ristrutturazione, conosceva un’unica divisione che era quella per
discipline. Ogni docente era uno specialista nella sua disciplina, e l’iter
formativo veniva a costruirsi per integrazione di discipline differenti (ampi
settori della formazione funzionano ancora in questo modo), senza che vi fosse
un effettivo studio per obiettivi e funzioni. Inoltre, specie in Italia, il
docente era, ed è ancora, un operatore senza una precisa e specifica
preparazione didattica (recentissima è la riforma universitaria che recepisce
la formazione alla didattica) che veniva e viene investito della funzione
docente senza che conosca alcunché di pedagogia, di didattica, di metodologia,
ecc. Era poi nell’esperienza effettiva dell’insegnamento che il docente si
autoformava la propria reale competenza didattica, imparava a trattare con gli
allievi, a leggere i loro bisogni, a trovare le soluzioni per un insegnamento
efficace. A nessuno comunque interessava che vi riuscisse o meno, non esistevano
al di là dei concorsi o delle prove di ammissione, strumenti di controllo sulla
qualità del lavoro del docente.
Il docente era, e per certi versi lo
è ancora (non nella formazione professionale), una figura professionale
artigianesca, dotata di grande autonomia, a cui era semplicemente richiesto di
attenersi ad un programma formale; a lui erano demandate, in piena autonomia,
tutte le funzioni della docenza, la scelta dei metodi, l’ordine dei contenuti
(i contenuti stessi per certi versi), le modalità di verifica e la lettura dei
bisogni degli utenti, nonché la disciplina, ecc.
Non solo il docente, al di là dei
controlli formali e burocratici, non doveva rendere conto a nessuno del suo
operato effettivo in aula, ma poteva anche esimersi da tutta un’altra serie di
funzioni che oggi entrano pesantemente nella formazione: lettura dei bisogni
formativi, lettura della domanda formativa, progettazione, programmazione,
coordinamento. La sua funzione era quasi esclusivamente incentrata sull’aula,
raramente andava al di là di questo confine; le rimanenti funzioni erano di
competenza della struttura burocratico amministrativa, del provveditorato, del
ministero.
La formazione professionale ha
ereditato, in un primo momento, questa struttura, che però è stata fin da
subito adattata alle sue specificità, essendo questo settore per certi versi più
vicino al mondo del lavoro, e quindi più sensibile a quei cambiamenti che ivi
avevano luogo; e per altri legato ad un piano corsi che ogni anno doveva essere
riveduto, aggiornato e approvato dalle istituzioni regionali.
Dobbiamo chiederci senz’altro se le
cose siano rimaste in questo modo. Abbiamo visto che la pluralità, la varietà
e la mobilità della domanda formativa, cui la formazione professionale assolve,
è in continuo mutamento, ed allora vediamo che nella “funzione-docente
classica” si vengono a sovrapporre altre funzioni, quasi mai riconosciute,
relative al reclutamento degli allievi, alla loro selezione, alla progettazione
didattica, alla programmazione, al coordinamento.
La funzione docente vera e propria
diviene solo una delle funzioni assolte dai docenti. Proprio alla luce di questi
mutamenti abbiamo visto come negli ultimi anni siano emerse nuove figure: in un
primo momento solo quelle dei coordinatori (vi ricordate la famosa percentuale
del 20% poi del 17%), poi, su richiesta degli enti, dall’ultimo contratto, le
nuove figure del promotore, del tutor, del progettista.
E’ vero, sovente, al di là della
facciata, si trattava di divisioni fittizie, che si sposavano bene anche con una
politica di incentivazione del tutto arbitraria e per lo più improntata ad
alimentare le differenze tra lavoratori ed ad fomentare la divisione e la
competizione interna, per fini esclusivamente politici e clientelari; ma non è,
e non era, solo questo: si trattava anche del primo manifestarsi di
un’esigenza reale di divisione funzionale dei compiti che nell’ultimo
contratto firmato trovava pieno riconoscimento, e che corrisponde ad un disegno
politico ed ad un piano strategico di sviluppo della formazione professionale
ben preciso, finalizzato a favorire il passaggio dal mercato convenzionato a
quello libero.
Nella razionalizzazione del prodotto,
e quindi della prestazione, abbiamo già osservato come la modularizzazione sia
il primo degli effetti tangibili; qui, ora, notiamo come l’adeguamento ad una
politica d’impresa introduca delle divisioni funzionali all’interno del
ruolo artigianesco del docente.
Nella transizione, fino a cinque o
sei anni fa, le funzioni, per quanto già definite, erano ancora per la maggior
parte assolte dal docente singolo, ed appunto questi anni sono serviti per
individuarle, formalizzarle, specificarle, nei metodi, nei compiti, nei tempi.
Ormai da almeno cinque anni la
funzione docente classica è stata frazionata su ruoli differenti e quindi su
persone differenti.
Le funzioni grosso modo sono le seguenti:
1)
Funzione didattica (docenza frontale, ora modularizzata)
2)
Funzione promozionale (che consiste nella ricerca di occasioni formative).
3)
Funzione di organizzazione e coordinamento
4)
Funzione di progettazione e programmazione
5)
Funzione di catalogazione, ricupero delle risorse informative e dei mezzi
6)
Funzione politiche e di approvvigionamento delle risorse finanziarie (in genere
demandate ai ruoli dirigenti)
Le prime cinque funzioni sono il
prodotto e il frutto della razionalizzazione del ruolo docente, ormai inadeguato
a far fronte alla complessità ambientale.
Il primo risultato evidente di questa
divisione funzionale e della conseguente ridistribuzione delle stesse su figure
professionali differenti (differentemente retribuite, ma come sappiamo non è
vero), consiste nel fatto che la singola competenza dell’insegnante subisce
una netta riduzione. Ciò che oggi gli viene richiesto è solo una parte
aliquota di ciò che prima svolgeva in piena autonomia. Ed anche le altre figure
funzionali tendono alla mansione accorciata.
Ciò riduce da subito la
discrezionalità della persona coinvolta ed anche il suo potere contrattuale. Si
tratta di un’effettiva dequalificazione dei ruoli lavorativi che ne riduce
l’ambito, ma anche la professionalità intrinseca e che si somma a quella
delimitazione di ambito di intervento che deriva dalla suaccennata
modularizzazione.
Da ora in poi ogni singola persona
impegnata in una di queste funzioni agisce entro un ambito operativo assai più
limitato e ben più povero di contenuti; ne consegue che la capacità richiesta
per ricoprire questi ruoli funzionali, essendo inferiore a quella del docente
artigianesco, può essere anche reperita sul mercato dei giovani laureati con
maggior facilità. Il potere di ricatto nei confronti del singolo lavoratore da
parte del datore di lavoro è assai aumentato e la dipendenza di quest’ultimo
dal mercato, dall’innovazione tecnologica, dalla competizione tra poveri, è
parimenti cresciuto, in ragione inversa ed in misura più che proporzionale.
Il tutto naturalmente si sposa, come
abbiamo già più volte accennato, con un’attenta politica del personale
attenta a non perdere alcuna occasione per fomentare le divisioni e le
competizioni interne al collettivo degli operatori, incentivando sperequazioni
retributive ed elargendo privilegi.
La seconda grande conseguenza di
questo stato di cose consiste nel fatto che ad una minor professionalità
richiesta, ad una minor autonomia effettiva dell’operatore, la prima grande
pressione è quella che gli richiede una maggior quantità di lavoro a parità
di retribuzione.
Tutti sanno che i docenti essendo
artigiani della formazione fruivano, giustamente, oltre alle ore di lezione
frontale, di un quantitativo di ore retribuite aggiuntive di supporto alla
attività didattica e di auto-aggiornamento.
Con la divisione funzionale la prima
conseguenza è questa: chi non svolge docenza frontale, non ha più diritto alle
ore di supporto, tantomeno a quelle autogestite; chi altresì continua ad
operare in docenza frontale, essendo la sua attività modularizzata,
preprogrammata da altri, e assistita da coordinatori, può senz’altro fare a
meno dell’autogestione del suo tempo.
Comunque la si prenda l’effetto
complessivo è lo stesso: estensione della giornata lavorativa a parità di
retribuzione, cosa che equivale ad una reale riduzione del salario.
La cosa importante è questa: il
passaggio dalla formazione artigianesca a quella funzionale, corrisponde al
passaggio dal docente artigianesco a quello che potremmo definire l’operatore
parziale polivalente. E ciò vale per tutti gli operatori, anche per quelli
che si fregiano del titolo di tutor, o promotori, o progettisti. Per quanto essi
possano essere ignari, questa trasformazione riduce tutto il personale docente
alla figura di operatore parziale e funzionalmente definito.
Eventuali differenze di retribuzione
e di status non sono che elementi aggiuntivi abilmente introdotti dal padrone
per alimentare le divisioni e la competizione nel collettivo dei lavoratori: non
sono altro che riconoscimenti per la fedeltà e il ruffianesimo. E la
prevedibile facilità con la quale promotors e tutors verranno in futuro
sostituiti (come è già successo nel presente) non farà che confermare queste
ipotesi.
Riepilogando: la funzione docente
subisce una riduzione per opera di due distinti processi che sono, da un lato,
la modularizzazione dell’attività didattica, che riduce il dominio di sapere
richiesto, dall’altro, la divisione funzionale del ruolo, che riduce
drasticamente la varietà dei compiti assunti da ciascun docente.
Di fatto, tutti gli operatori oggi
sono più parziali di prima, quindi: più dipendenti, più ricattabili, più
facilmente sostituibili e soprattutto pagabili in misura inferiore.
Ma vi sono anche degli aspetti
qualitativi della trasformazione che non vanno sottovalutati. In primo luogo
l’aumento della ripetitività e l’alienazione istupidente che vi è
connessa. Vi sono ruoli docenti nei quali lo stesso modulo didattico ricorre
infinite volte sempre uguale; chi scrive ha svolto quest’anno bel nove volte
il modulo di Word, una decina di volte quello di alfabetizzazione, sei o sette
volte quello di Excel, tre o quattro volte quello di Access. Sempre uguali, in
tempi strettissimi, con classi di 25, 30 allievi. Il rapporto formativo si
deteriora al punto che un legame personale docente-discente diviene di fatto
impossibile. I contenuti sono di una superficialità procedurale. La qualità
dell’insegnare si riduce a quella di un addestramento pavloviano.
Un tutor organizza decine di stage e
gran parte della sua attività si risolve nel fare telefonate e compilare
moduli. La stragrande maggioranza delle mansioni decade al livello di
un’attività svuotata, scarna, ripetitiva e che, col tempo, finisce per
ridurre le capacità possedute.
Nel frattempo l’innovazione avanza
e gli operatori impegnati in questa demenziale ripetitività lavorativa, ben
presto risultano obsoleti. Nello stesso tempo nuove forze si affacciano sul
mercato del lavoro, disposte, per necessità o per una diffusa incultura, ad
accettare qualsiasi tipo d’incarico a costi bassissimi. E’ l’esercito dei
precari, in parte fuoriusciti da altri settori, in parte giovani ai primi
impieghi. Il sindacato stesso arranca dietro a questi mutamenti. La presenza
sindacale in questo “esercito industriale di riserva” è praticamente nulla.
Il legame sociale risente
pesantemente dell’anomia che ovunque si diffonde, la diffidenza impera
incontrastata, tutti si guardano in cagnesco, ognuno convinto che il
“fregato” sarà il vicino. I rimbombi di una guerra dei pezzenti si
diffondono ormai in ogni luogo. La richiesta di perfomatività, di omologazione
e il ricatto lavorativo fanno la loro parte. Tutti sono in attesa, non si sa di
cosa, se di una scappatoia e o del colpo di grazia.
Congelato in una situazione di
perenne emergenza, l’operatore parziale si rifugia nel suo lavoro, si nasconde
dietro la scrivania, timidamente rasenta i muri, servilmente saluta i suoi capi,
salvo poi darsi un tono quando il suo nome viene pronunciato, nella speranza di
una salvezza che si fa attendere… ahimè! Invano.
Potremmo a questo punto azzardare una
breve riflessione, chiedendoci: perché proprio nella formazione professionale,
e non ad esempio in quella statale, questi mutamenti organizzativi sono così
evidenti?
La risposta è complessa e vorremmo
rinviarla ad altra sede. Possiamo comunque accennare solo due cose: in primo
luogo la formazione professionale, per la sua storica collocazione nel contesto
formativo, è più vicina a quelle che sono le dinamiche locali del mercato ed
al sistema delle imprese ed è quindi normale che sia più sensibile alle
tendenze che in questi settori sono oggi in atto, dato che gran parte della
domanda che essa soddisfa deriva proprio da questi settori; in secondo luogo è
bene notare che in Italia, parimenti ad una riduzione della spesa pubblica, il
ricupero dei profitti va per lo più a scapito di quella rendita, cioè di
quella parte della ricchezza nazionale prodotta che veniva distribuita per fini
politici, clientelari, legati alla produzione del consenso; e noi sappiamo come
la formazione professionale fosse ben addentro a questa rete di legami nei quali
la rendita circolava.
Appunto il taglio della rendita
colpisce quei settori dello stato, del pubblico impiego, ma anche del settore
privato, che oggi sono più deboli: e la formazione professionale in certi
ambiti entra nel novero degli esclusi. Ci si ricordi come sei o sette anni or
sono la Regione Piemonte decise di ridurre il finanziamento del settore
convenzionato del 40% integrandolo con finanziamenti della Comunità Europea, ed
è presumibile che, se non interverranno nuovi fattori, questa tendenza non sia
passibile che di rinforzarsi.
Tutto ciò ha notevolmente
contribuito a spostare l’investimento di risorse formative sul settore
privato, associativo e consorziale, rendendo, quindi, quasi obbligato il
trapasso ad un altro modello organizzativo.
In ogni modo è nostra opinione che
di là da questi contingenti motivi, che a ben guardare sembrano avere qualcosa
di strutturale, è chiaro che l’agenzia formativa flessibile, imprenditoriale,
competitiva, rappresenti un modello di riferimento non solo per la formazione
professionale, ma anche per ampi settori dell’iniziativa privata, ed anche,
probabilmente, tra non molto tempo, per vari settori dell’istruzione pubblica
(si pensi all’autonomia finanziaria delle scuole e alla riforma).
è
bene quindi che fin da subito i lavoratori della formazione professionale si
abituino a considerare l’intera questione da un angolo di visuale ben più
ampio di quello definito dall’orizzonte di categoria cui sono avvezzi e che,
nell’interrogarsi sul proprio destino, non perdano mai di vista l’insieme
delle cose e le tendenze in atto.
Ancora non ci è dato sapere quale
sarà la reazione degli operatori parziali della formazione professionale, quale
accoglienza serberanno a queste novità, se reagiranno con la solita
indifferenza e rassegnazione, o col cinismo di chi è superiore a queste cose; o
se forse reagiranno con quel misto di veemente smarrimento e pacato rancore che
oggi sembra vada per la maggiore. Comunque sia, ben poco c’interessano le
reazioni emotive.
Più proficua e utile sarebbe una
riflessione che si ponga criticamente lo scopo di trovare un via d’uscita da
questa situazione. Non c’è spazio, nella nostra prospettiva per il cinico
realismo di chi si limita a costatare la ragione del più forte e a
presentarcela come un’argomentazione “oggettiva”. Ben più utile sarebbe
una iniziativa militante di autentica riflessione su quelle che sono le reali
variabili in gioco. Ma non quelle variabili che “spiegano” la situazione
presente, bensì quelle che possono aiutarci a modificarla. Capire qualcosa per
noi significa riuscire a trasformarla!
Pertanto questo scritto non si
rivolge a quei lettori per i quali le cose vanno bene così; non si rivolge agli
arrivati, ai soddisfatti, ai compiaciuti ed ai ruffiani; a quelli che non hanno
mai niente da dire, che gli va bene comunque tutto, purché non li disturbino
nell’esercizio delle loro funzioni (che noi ora sappiamo essere parziali,
frammentate, vacue e stupide). A questi “coltivatori dell’orto di casa”
non abbiamo niente da dire. Peggio per loro.
A tutti gli altri, invece, chiedo:
come pensano di comportarsi a fronte della richiesta, ora normata da contratto,
di lavorare di più con gli stessi soldi? Come si renderanno flessibili? Quanto
saranno disposti a essere operatori parziali e mobili? Come concilieranno la
propria professionalità con un ruolo effettivo grandemente istupidito? Saranno
disposti ad andare in mobilità se vi fosse esubero del personale, pur sapendo
che pare, forse, siano venute meno molte delle tutele previste la precedente
contratto? Cosa faranno se gli verrà chiesto di fare 26, 28, 30 ore di docenza
alla settimana perché “ce n’è bisogno e occorre rimboccarsi le
maniche...”?
Va da sé che la nostra autonomia e
la nostra discrezionalità si sono ridotte come singoli operatori. A maggior
ragione qualsiasi cosa si voglia progettare o realizzare ci sembra debba,
necessariamente, avere una dimensione collettiva. Ma quale forma dare alla
nostra iniziativa?
E’ chiaro che si tratta di ardue
questioni politiche ed organizzative che certo non possono trovare risposta
nell’ambito di questo breve e precario scritto, ma una cosa possiamo affermare
con certezza: che occorre fin d’ora attrezzarsi di validi strumenti di lettura
della situazione presente; questo scritto non vuol che essere un stimolo in tal
senso.
Non basta: occorre anche produrre una
riflessione più attenta, dare luogo a dibattiti e confronti su questi problemi
nei posti di lavoro. E ancora non è sufficiente. Bisogna darsi reali e concreti
strumenti di organizzazione e di lotta, che ci consentano una sperimentazione
affidabile delle nostre ipotesi di ricerca: in altre parole dobbiamo collaudare
le nostre ipotesi su terreno della trasformazione, del cambiamento,
dell’iniziativa. Gli agi delle comode poltrone sindacal-riformiste non ci sono
concessi.
I fatti sono due: il Padrone ha già
preso l’iniziativa e la situazione complessiva e disastrosa. Non possiamo che
contrapporci o subire. E quando diciamo Padrone, non s’intenda i datori di
lavoro, nel nostro caso gli enti gestori, ma qualcosa di ben più vasto e grande
rispetto al quale anche in nostri “padroncini” (con la “p” minuscola)
non sono che precarie variabili dipendenti.
Detto questo proviamo anche solo
lontanamente a pensare cosa significa effettivamente contrapporsi. Una prima
forma di contrapposizione è quella che si colloca sul terreno della mera
rivendicazione e che potremmo denominare di “resistenza ad oltranza”. In
cosa consiste?
Si tratta di quella prospettiva di
dissenso organizzato (che tende quasi inevitabilmente al corporativismo) che
mira esplicitamente a ridurre al minimo le perdite, tentando un ricupero di
tutti quegli istituti normativi che rappresentavano delle risorse, dei vantaggi
o delle tutele. Si tratta di una iniziativa di lotta nella quale lo scopo è
riconquistare il terreno perduto e auspicare un ritorno alla situazione
precedente, che rappresenterebbe il caso limite, ovvero il massimo
raggiungibile.
Prescindendo dal fatto che non si
capisce bene quale sia la situazione precedente, questa impostazione tattica
della lotta non tiene conto in nessun modo della mutata situazione; non compie
alcuna analisi del presente e liquida la negatività dell’attuale situazione
imputandola ad un ribaltamento dei “rapporti di forza”; eufemismo, questo,
che vuol dire che la “gente” se ne frega, non fa più politica, e quindi il
padrone e i suoi amici possono procedere nel loro radioso sviluppo.
Ed è vero, sicuramente il
disinteresse della “gente” è grande, così com’è altrettanto vero che il
sistema di concertazione messo in atto dai padroni e dai sindacati rappresenta
un valido strumento di cogestione del sistema; ma così dicendo non si coglie il
dato strutturale di fondo, che comunque non può essere ignorato, e cioè che la
formazione oggi è cosa diversa da un tempo, che i mutamenti che sono avvenuti,
per la maggior parte, sono irreversibili e che anche tangibili cambiamenti del
contesto, del mercato, delle imprese, concorrono ad sostenere questo stato di
cose.
C’è forse qualcuno oggi che si
sente di riproporre la figura ottocentesca del docente-artigiano? Di un modo di
far scuola, istruzione e formazione, che non è mai stato aderente agli
effettivi bisogni degli studenti? Che era slegato dal mondo del lavoro tanto che
veniva anche indicata come scuola-parcheggio? Che discriminava e selezionava più
del 50% degli studenti delle scuole superiori secondo criteri chiaramente
classisti? Che nella formazione professionale era sovente legata a clientele,
intrallazzi e sacche di rendita da posizione? Cosa si vuol difendere di un
sistema che ha prodotto più ignoranza che istruzione, che viveva ai margini
delle clientele ed elargiva privilegi? Chi è che vuole un ritorno alle origini?
Alla presunta “verginità” delle origini?
Perché questo significato avrebbe il
termine “contrapporre”, compreso entro una rivendicazione di questo tipo.
Si pensa forse di poter intraprendere
una battaglia corporativa? Ma su quali presupposti? Deteniamo una qualche
posizione che ci consente di agire in tal senso? Per niente: siamo
dequalificati, sostituibili, intercambiabili, razionalizzati. Questa è la
situazione presente!
Un’altra soluzione può essere
quella adottata da molte categorie, ovvero quella di monetizzare i disagi, di
compensare quello che si è perso da un lato, con più soldi dall’altro. E a
ben guardare questa è anche la soluzione che ha in mente il Padrone, almeno nel
breve periodo, solo che per lui deve essere necessariamente subordinata a
meccanismi di selezione e competizione tra i lavoratori; si tratterebbe in tal
caso di monetizzazione selettiva e discriminante.
Ma si potrebbe ancora opporre una
monetizzazione per tutti allo stesso modo. Fatte salve le considerazione
relative allo stato di penuria vigente e alla politica di contenimento della
spesa, ma anche se s’intraprendesse una lotta in tal senso, ci si dovrebbe
chiedere: quanto vale ciò che abbiamo perduto? Al di là della difficoltà
intrinseca di elaborare una simile valutazione, dobbiamo domandarci: ma questa
rivendicabile monetizzazione di quanto modificherebbe i nuovi rapporti di
dipendenza, e quindi i nuovi ed inferiori livelli di autonomia, che per effetto
della ristrutturazione si sono formati? In altre parole di quanto cambierebbe
effettivamente il rapporto politico tra operatori parziali e datori? Di quanto
si modifica la capacità di controllo degli operatori, sul sistema, sulle scelte
formative, sulle politiche della formazione e sulla qualità della stessa? Di
niente!
Per tutti questi aspetti una
rivendicazione incentrata sulla monetizzazione, anche se fosse vincente, non
farebbe che rinviare nel tempo la totale capitolazione dell’operatore
formatore nei confronti dell’agenzia formativa (Ed è questa la ragione per
cui in molte realtà la pace sociale se la sono conquistata elargendo 300000
lire, lorde ben inteso, in cambio delle ore autogestite).
Sul medio e lungo periodo, non solo
il datore riuscirà riprendersi i soldi dati al lavoratore, ma anche la sua
pelle! Perché se così vanno le cose saremo sempre più parziali, più
dipendenti, ricattabili, più sostituibili e le nostre potenzialità di
intervento si approssimeranno asintoticamente a zero.
Che cosa significa tutto ciò? Che
non bisogna fare resistenza? Che non bisogna chiedere soldi?
Tutt’altro! Attivarsi in una
prospettiva di resistenza è doveroso quando è possibile. Chiedere i soldi
anche, perché essi ci sono utili e sono la sola nostra fonte di sostentamento.
In generale, sarebbe quantomeno d’obbligo mantenere un elevato livello di
conflittualità, perché abbiamo già sperimentato che la pace sociale degli
ultimi anni non paga, che il padrone vuole realizzare, ed opera
intelligentemente a questo fine, i suoi progetti di lucro, di successo e di
incremento del suo potere.
Ma tutto ciò non basta. Non è
sufficiente! Una simile e parziale prospettiva di lotta ci porterebbe in breve
ad una inesorabile disfatta.
Qualsiasi cosa si intenda progettare
dovrà essere capace di mettere insieme tutte queste cose (rivendicazione
normativa e salariale), ma all’interno di un progetto che punti al nuovo, ad
una nuova qualità dell’attività umana, capace di leggere le attuali tendenze
e di contrapporvisi sul loro stesso terreno.
Tutto ciò è autenticamente
velleitario, me ne rendo ben conto, ma ritengo siano le condizioni minime per
una qualsiasi ripresa di un terreno di lotta vincente.
Altrimenti non ci resta che rimanere
seduti nella caverna a contemplare quelle effimere ombre che danzano in fronte a
noi, pur sapendo, però, ch’esse ricevono la loro propria sostanza da un mondo
per noi esterno e ad opera di forze che non siamo in grado d’immaginare. Ed
allora non ci resterà che prendere i nostri sogni per realtà, essendo noi, in
ultima istanza, fermamente convinti della realtà dei nostri sogni.