Note sulla
riforma Moratti
In questi giorni molti insegnanti stanno
discutendo della proposta di riforma Moratti e per lo più e ne hanno tratto motivi d
preoccupazione.
In tanti abbiamo letto i documenti del Grl
coordinato da Bertagna. Anche se non si sa per nulla – e già questo è vergognoso –
come ed in qual misura gli indirizzi definiti dal Grl saranno applicati.
Mi capita di essere a disagio, ascoltando i
colleghi che discutono della riforma Bertagna, Moratti, ecc. senza che in verità ci sia
nulla di fermo e di definitivo.
Inoltre succede che, nel dibattito su questa riforma, come sul precedente progetto Berlinguer – De Mauro, si mescolino piani discorsivi differenti.
Semplificando, c’è da un lato la polemica politico-sindacale:
si sta attuando anche tramite queste riforme una trasformazione organizzativa ed
ideologica che attacca alcune prerogative degli insegnanti.
Potremmo evidenziare una serie
di punti già presenti nel progetto di Berlinguer e accolti, o ripresi o addirittura
approfonditi dalle misure presenti e venture della Moratti:
·
La regionalizzazione dell’istruzione e formazione professionale,
che è già sciaguratamente prevista dalla l. cost. 3/2001. Il richiamo al territorio, al
superamento della frattura scuola / società significa nella realtà effettuale dipendenza
dai poteri forti locali. Si può pensare che non ci sia nulla da temere in un controllo più
vicino e penetrante su organizzazione e programmi degli istituti professionali; però
l’esperienza della gestione regionale della formazione professionale è stata in genere
tutt’altro che positiva.
·
La conseguenza più evidente dell’autonomia è stata
l’esaltazione della figura del preside manager, che per i lavoratori della scuola vuol
dire una gestione più personale e quindi particolaristica. L’autonomia didattica, di
fatto, significa già una nuova divisione nel gruppo dei docenti tra chi assieme al
preside organizza corsi, integrazioni, progetti e chi è tagliato fuori da queste
dinamiche e destinato ad un ruolo esclusivamente esecutivo.
·
Il Pof non è solo la raccolta di progetti disparati, ma in
prospettiva il meccanismo per imporre gerarchie e limitazioni alla libertà
d’insegnamento. Dalla programmazione didattica collegiale è quasi naturale passare a un
qualche meccanismo per “mettere in riga” i colleghi che rifuggono la disciplina
collettiva. Questo meccanismo si sta formando: è il nuovo ceto scolastico degli estensori
del Pof che si lega organicamente allo staff di presidenza; le differenziazioni nel ruolo
docente prefigurate dal ddl Moratti si pongono in questa prospettiva
·
La giustificazione fondamentale dell’autonomia, comune a Moratti e
Berlinguer, è che la competizione tra le scuole funga da principio regolativo
dell’attività scolastica. Efficacia delle strategie didattiche ed efficienza delle
scelte organizzative nascerebbero naturalmente dal pluralismo concorrenziale delle
istituzioni scolastiche. (vedi su questo punto, G. Baccelli, Pregi e rischi del “quasi mercato” nel sistema di
istruzione, in Scuola & città, dicembre 2001).
·
Da questo punto di vista è utile sia per Berlinguer che per Moratti
ammettere alla competizione anche le scuole private. E per ammetterle alla competizione
bisognerà pur trovare un qualche metodo di finanziamento pubblico.
·
All’ideologia della concorrenza si sposa la nuova “centratura”
sul ruolo produttivo della scuola. Viene sempre più assunta come luogo chiave della
produzione del capitale umano; perché questa produzione non sia obsoleta, il rapporto con
le imprese, col mondo del lavoro, deve farsi sempre più organico. E quindi consigli
d’amministrazione con rappresentanti del mondo imprenditoriale; proliferare di stage e
sponsorizzazioni; riqualificazione di dirigenti ed insegnanti da parte di esperti
aziendali o confindustriali; identificazione dei profili formativi in base all’impiegabilità.
·
Questo ha un effetto anche sull’identità della
cultura scolastica di cui viene svalutata la tradizione, anche quando si dice – a parole
– di volerla valorizzare (Dichiarazioni programmatiche della Moratti). Infatti, viene
superata una certa idea della cultura come attività disinteressata e critica (l’otium contro il negotium), creatrice
di valori – non solo estetici, ma etici – estranei al mercato. Certo si tratta di
residuati prebellici, di una cultura precapitalistica, piccolo-borghese piuttosto che
popolare: ma si tratta nondimeno di un nucleo di pratiche e di valori che possono anche
essere riletti e riutilizzati per sviluppare nei ragazzi una consapevolezza critica nei
confronti del presente, per non appiattirli nel ruolo confortevole ma passivo di
destinatari di messaggi a fini commerciali. Il che, al di là di ogni ipocrisia, è un
rischio concreto che percepiamo ogni giorno, e non solo a scuola.
·
Invece la nuova scuola deve essere performativa,
produrre e certificare competenze spendibili. Persino il rapporto didattico è riletto
secondo la metafora del commercio, tra debiti e crediti.
Non si sa quanto ciò sia coerente coi proclamati obiettivi dell’autonomia
personale e della capacità critica. Ma se si assume come riferimento l’impiegabilità,
una deriva della didattica in questo senso deve essere non solo scontata, quanto
attivamente ricercata. L’offerta formativa proposta alle famiglie diventa sempre più
chiaramente un package di servizi attraenti, ma pedago-gicamente incoerenti;
l’allievo-consumatore va blandito piuttosto che formato.
Qui già siamo arrivati all’altro corno
del problema. Perché il discorso sulla riforma è
anche inevitabilmente una polemica culturale, una contrapposizione tra differenti idee
della scuola e dell’istruzione, tra principi didattici e pedagogici, tra opposte
analisi delle difficoltà attuali (su questo il saggio di Fabio Fiore, il saggio di Fiore,
I due partiti della riforma, in Scuola e Città, dicembre 2001, da cui sono
ripresi alcuni degli argomenti successivi).
Anzi Maragliano-Berlinguer prima e
Bertagna-Bottani adesso proprio su questo punto attirano l’attenzione. Che sia
mistificante una lettura unicamente culturale del dibattito sulla riforma è certo.
Però rendiamoci conto che questo è il
livello discorsivo, questo il tipo di discorso utilizzato.
E che una buona parte delle differenze e delle specificità
delle proposte si situa esattamente a questo livello.
Che gli sbocchi socio-lavorativi
degli studenti della scuola siano differenti è ovvio: viviamo in una società divisa in
classi. La scuola superiore non è più da un ventennio un’istituzione socialmente
riservata e così l’accesso all’università. Di fatto però la riuscita scolastica
continua a dipendere molto dalla classe sociale d’origine: la scuola si è
democratizzata ma ciò non sembra aver aumentato la mobilità sociale.
Non solo. I
risultati scolastici in termini di acquisizione delle competenze di base sono tanto
deludenti da essere quasi paradossali: a tanti sembra che un periodo di scolarità assai
più breve producesse in passato sia più istruzione, che maggior consapevolezza!
Bottani (seconda parte del rapporto) sostiene la necessità di sviluppare un forte e specifico sistema dell’istruzione professionale proprio per superare le difficoltà didattiche di alcuni studenti, non per selezionarli socialmente (lo sono già, nella scuola attuale). La Cgil risponde che la Confindustria è contraria alla canalizzazione precoce.
Non si sa affatto
se questo produrrebbe una maggiore o una minore mobilità sociale, o se il suo effetto
sulla mobilità sarebbe trascurabile. Non è neppure sicuro se l’area dell’esclusione
aumenterebbe o diminuirebbe (per dati impressionanti sull’esclusione scolastica attuale che non significa marginalità socio-lavorativa
vedi l’indagine Isfol riportata da Italia-Oggi del 22 gennaio 2002.).
Io insegno in un
Istituto Tecnico e ho l’impressione che questa strada sia già stata percorsa, con
scarsissimi esiti. Il valore del titolo di studio è crollato e perciò i ragazzi vedono
nella scuola soprattutto un luogo di socializzazione. Si può imporre loro di leggere e
comprendere Dante: ma se per loro la cultura scolastica non ha alcun valore, ti
risponderanno che Ragioneria è più utile e più divertente! L’idea che certe materie
portino necessariamente ad una maggiore consape-volezza mi sembra piuttosto astratta.
E’ difficile
anche solo immaginare l’istituzionalizzazione di questi ruoli in una società in gran
maggioranza eudaimonistica per quanto riguarda l’orientamento di valore (il consumismo
è un aspetto evidente di questo orientamento, ma non lo esaurisce). L’ideale sociale è
lo “star bene”, non il “fare il bene”.
Il riferimento
attuale a don Milani come ad un buon insegnante può funzionare solo nella fiction
televisiva, con le sue regole di verosimiglianza.
Il richiamo da
parte della sinistra non si capisce che cosa possa significare sul piano delle idee; le
linee di congiunzione sono al più biografiche (la provenienza cattolica di buona parte
dell’estrema sinistra sessantottina) oppure di generico richiamo all’impegno e
all’intransigenza morale.
Che però sono
valori dismessi da anni, su tutti i piani, dalla sinistra “di lotta e di governo” ed inesistenti nella pratica concreta della scuola.
Quale insegnante la concepisce davvero come suo personale mezzo di salvezza? Come momento
di comunione con i poveri? Per questo basta la vita familiare, stante il livello del
reddito.
Per una maggiore
funzionalità del sistema si propone di dividere ed articolare i due percorsi, mentre l’impostazione del precedente
Governo sembrava quella piuttosto di contaminarli: anche dai licei si sarebbe dovuti uscire con esperienze di
lavoro – diffusione di quella fesseria che spesso sono gli stages – e con competenze spendibili.
Anche qui la
differenza sembra stare più che altro nel grado di ipocrisia, di lontananza dalla scuola
reale. Chi si iscrive al liceo ha di solito l’idea di proseguire gli studi
all’università e quindi non ha interesse a una preparazione immediatamente spendibile;
chi frequenta i professionali ha un interesse contrario; gli istituti tecnici sono una via
di mezzo, con le sue (inevitabili) contraddizioni.
Si possono anche
eliminare le bocciature annuali e permettere tempi di apprendimento più distesi: ma
l’apprendimento conta ed il giudizio della scuola dovrebbe diventare rilevante (seppur
non giuridicamente vincolante) per le scelte successive. L’alternativa logica – ma non
attuata compiutamente nella riforma Berlinguer – era il “monoennio” di orientamento
nelle superiori con la riduzione delle superiori all’attuale triennio (ricordiamoci che
l’architettura originaria era: otto anni di scuola di base + quattro per le superiori).
L’attuale primo anno delle superiori come ultimo anno dell’obbligo è un non senso
didattico e pedagogico.
·
Un’innovazione forte della proposta di Bertagna è quella di
articolare il percorso dell’istruzione (nella formazione professionale molto meno) in
tre blocchi:
o 850 ore annue
obbligatorie e curricolari (venticinque ore alla settimana), decise in gran parte a
livello centrale e che determinano l’assegnazione del personale alla scuola
o Da zero a trecento
ore (fino a nove ore settimanali) di “laboratori”, che fanno parte dell’offerta
formativa della scuola e possono comprendere insegnamenti con obiettivi scolastici
obbligatori, ma la cui frequenza è libera. Teoricamente la famiglia e l’allievo
dovrebbero negoziare con la scuola la partecipazione o meno a queste attività; i
laboratori possono anche essere organizzati da consorzi di scuole. Cambia l’ambiente
educativo: “Mentre il percorso obbligatorio si regge organizzativamente sulla dimensione
dell’istituto e della classe, il percorso facoltativo si sposta sulla dimensione della
rete territoriale e dei gruppi (di livello, di compito, di elezione) ” (Rapporto, p. 40)
·
La novità maggiore è quella della secca riduzione dell’orario
scolastico uguale per tutti, specie per quanto riguarda gli attuali istituti tecnici: si
passa da 34 ore a 25. Si viene incontro anche a quella che è un’indubbia richiesta
didattica: con periodi così prolungati lo studio individuale a casa non è quasi più
praticabile; il carico delle materie e delle nozioni è eccessivo; paradossalmente questo
tende a produrre un rifiuto dell’istruzione. Malgrado i gravissimi rischi per
l’organico, alcuni insegnanti potrebbero essere a favore: si riduce l’aspetto costrittivo della scolarità.
·
I maggiori dubbi: come avverrà nei fatti la scelta individuale dei
percorsi? Quale sarà la portata sociale della differenziazione? Il percorso opzionale
introdurrà inevitabilmente una distinzione tra materie di serie A e di serie B: come sarà
gestibile? Come funzioneranno i rapporti didattici e disciplinari nei laboratori? Siamo
favorevoli o contrari ai gruppi di livello? Non porteranno anche nelle classi alla logica
di dividere secondo il “potenziale” o le prestazioni individuali?
Basta citare l’importanza di queste problematiche per vedere l’incidenza estrema di questa proposta sul meccanismo
pedagogico: è una riorganizzazione del tempo, della gerarchia delle materie, dei
rapporti tra colleghi; dal punto di vista dei ragazzi può significare una pluralità
istituzionale di gruppi di riferimento.
La scelta
pedagogica più importante forse è quella della riorganizzazione del tempo, da un modello
estensivo di controllo del comportamento (l’abitudine, la costanza) ad uno assai più
intensivo di controllo dell’apprendimento (l’ordine, l’attenzione)
·
I rischi della concorrenza tra scuole non vanno esagerati. Già
adesso nelle superiori si punta molto sulla capacità attrattiva dell’extrascolastico:
gite, corsi di pc, gruppi sportivi, bar, attività sponsorizzate… Già adesso si sceglie
un “pacchetto” di servizi più che un progetto culturale.
C’è l’idea che
la scuola operi tramite la differenziazione e si assuma la responsabilità della
selezione; questo è anche il senso della disciplina dei debiti e della reintroduzione del giudizio sulla condotta. Che
sembra un passo falso politico, in nome della logica: che senso ha proporre obiettivi
comportamentali, se poi non è possibile valutarne il raggiungimento? Perché mantenere il
voto di condotta, se non conta? Un po’ di esperienza scolastica avrebbe consigliato agli
esperti di soprassedere: nella selezione è più facile usare altri mezzi.
L’obbligo
scolastico era uno dei mezzi per consentire una reale democrazia ed anche il presupposto
per una maggior mobilità sociale, per una più facile emancipazione individuale: va letto
insieme all’obbligo per lo stato di istituire scuole di ogni ordine e grado (scuole
“aperte a tutti”) e a quello di stabilire provvidenze per i capaci e meritevoli,
ancorché privi di mezzi. Insomma l’intervento
dello stato nell’istruzione aveva programmaticamente il senso di spostare degli
equilibri sociali. Non vi è chi non veda
che questa prospettiva è stata del tutto abbandonata, non in nome della parità sociale
delle chances (che è una dimensione, seppur ristretta, dell’uguaglianza sociale), ma
del “successo educativo” individuale.
In che cosa
consista poi questo successo educativo nessuno lo sa né lo può dire: star bene con sé e
con gli altri? Orientarsi in modo intelligente sul mercato del lavoro? Disporre di
competenze spendibili? Aver maturato una coscienza critica? Anticonsumista? Una felice
identità sessuale?
Alla fine sembra
che prevalga una definizione procedurale: aver compiuto il percorso scolastico nei tempi
previsti.
Benedetto de
Gaspari
CUB Scuola Torino
Gennaio 2002