sviluppi imprevisti
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Cettina Calabrò è, da sempre, terreno di scontro tra opposte
pulsioni e passioni, fotografia e scrittura non sono che due fra le
tante presenti. Eppure, almeno in questo caso, invece di una inconcludente frammentazione, ciò ha prodotto proficui sviluppi imprevisti.
Nota dell'autore: dedico un grazie di cuore a Nino per esserci sempre; a Sergio per aver ritagliato un'impagabile disponibilità fra i mille voli del suo lavoro; a tutti i miei autori, per aver messo in questa avventura le mani, la testa e il cuore; all'editore, temerario, con l'augurio di non doversene pentire; a Marco per aver vestito d'arancio il mio bianco e nero; a me stessa, perché sì. E ai lettori che verranno.
Introduzione
di Sergio Ramazzotti
Se, come sostiene qualcuno, un’immagine vale più di
mille parole, allora a che cosa servono le parecchie
migliaia di parole che sono state scritte per raccontare o
spiegare o accompagnare o sottolineare queste otto fotografie?
La risposta ovvia sarebbe: a nulla.
O forse non è così, forse sono le parole a valere mille
volte più dell’immagine, nel qual caso questo libro
sarebbe potuto essere una semplice antologia di racconti,
senza che vi si dovessero aggiungere otto fotografie a corredo
(nonostante sia a queste che si ispirano i racconti
suddetti). Sarei in effetti tentato di credere a quest’ultima
ipotesi: in genere un uomo privo della vista è infinitamente
più ricco di un analfabeta.
Ecco, però, alcune immagini che, con la sola forza del
segno, hanno cambiato il corso della storia: la croce, il
monogramma di Allah, la svastica, la falce sovrapposta al
martello, il diagramma dell’atomo. O altre meno essenziali,
meno grafiche (pur se altrettanto mute), ma capaci di stravolgere
la vita di un essere umano per il solo fatto di averle
guardate: la Gioconda, gli affreschi della Cappella Sistina,
il segno che il giovane Costantino vide in cielo alla vigilia
della battaglia di Ponte Milvio, un Boeing 767 che si infila
come un pugnale nelle Torri Gemelle (quella non era
un’immagine, era la realtà: ma quanta presa avrebbe fatto
su tutti noi che non eravamo a New York quel giorno, se ce
la fossimo sentita raccontare solo a parole?).
Ma ecco, sull’altro angolo del ring, alcune semplici
frasi che, con la sola forza delle poche parole di cui sono
composte, hanno deciso il destino dell’umanità, e grazie
alle quali (o per colpa delle quali) ciascuno di noi è oggi
esattamente ciò che è e non un altro, si trova esattamente
dov'è e non altrove, pensa esattamente ciò che pensa e
non ciò che potrebbe pensare se le cose fossero andate
diversamente: «Alea iacta est», «I had a dream», «Chi crede
in me non morirà in eterno», «Attraversa questo Giordano,
tu e tutto il tuo popolo, verso la terra che Io consegno
agli Israeliti». O una breve formula composta da tre lettere,
un numero, un segno matematico: E=mc2. E se, dopotutto,
le parole valessero o pesassero o contassero esattamente
quanto le immagini e le une fossero all’eterna
ricerca delle altre, o l’una dell’unica possibile altra, come
l’uomo lo è della sua anima gemella?
O se fossimo noi ad aver deciso, come un’agenzia
matrimoniale, che le une e le altre debbano per forza
incontrarsi e convivere, a vantaggio della nostra ansiosa
necessità di completezza che ci spinge senza posa ad
aggiungere parole alle immagini e a tramutare in icone le
parole? Una necessità senza la quale, tuttavia, non
avremmo la Divina Commedia, l’Odissea, la Conversione di
San Paolo di Caravaggio e la Deposizione di Rembrandt…
In questo dimostra una suprema raffinatezza – o un
supremo sadismo – la religione islamica, che proibisce la
rappresentazione del volto di Dio, e in generale della
figura umana, negando all’uomo la soddisfazione del suo
viscerale bisogno di tangibilità, che affligge gli occhi
prima ancora che i polpastrelli. Noi cattolici abbiamo
dovuto dare un volto o corporeità non soltanto a Dio e a
Suo figlio, ma addirittura allo Spirito Santo.
Questo libro contiene otto fotografie, che raffigurano
cerchi tracciati sulla sabbia, teste di bambole rotte, mani
che si sfiorano delicatamente, libri bruciati, una bautta del
Carnevale di Venezia, una valigetta d’alluminio, ombre
sul selciato e un tetto di tegole. Quali storie potrebbero
suggerirci tutte queste immagini messe insieme?
Forse quella di un commesso viaggiatore che, spostandosi
da un condominio all’altro attraverso i tetti (il sole
che proietta la sua ombra lunga sul selciato sottostante)
cerca di vendere le bambole rotte che si porta appresso in
una valigia, sforzandosi di convincere con i gesti delle
mani e con le parole (le parole) coloro che lo fissano esterrefatti
oltre le porte socchiuse («Guardi, la può usare
anche come maschera di Carnevale»), ma alla fine della
giornata, rattristato per non aver venduto nulla, si siede
sulla spiaggia, brucia in silenzio l’agenda degli appuntamenti,
e qui lo ritroviamo ancora all’alba, nella stessa
posizione, a tracciare cerchi sulla sabbia.
O forse quella di una setta segreta di bambole assassine:
si annidavano sui tetti, la notte penetravano nelle cartolerie
e nei supermercati, si disponevano in fila sugli
scaffali camuffate da maschere di Carnevale e, una volta
che le avevate prese fra le mani, portate a casa e
indossate, vi succhiavano il sangue lasciando di voi soltanto
l’ombra (come quelle forme umane impresse per
sempre sul cemento di Hiroshima dall’onda d’urto della
bomba atomica, così simili a figure tracciate sulla sabbia),
la vostra valigetta, i libri, che per l’immane calore sviluppatosi
nel processo di assorbimento delle energie vitali
prendevano fuoco.
O quella di un’abile prostituta specializzata in certi giochetti
con le mani, le maschere e i giocattoli rotti (si presentava
a domicilio con tutto l’armamentario chiuso in una
valigetta d’alluminio, molto professionale), precisa e cruda
e al tempo stesso lieve come un’ombra, richiestissima da
clienti adulti in piena fase di regressione, che sognava di
costruirsi con i soldi guadagnati una casa sulle rive del
lago Onega, fra le betulle, dove ogni tanto si rifugiava a
tracciarne il perimetro immaginario sulla sabbia, e nel frattempo
viveva nel sottotetto di San Pietroburgo che, molto
tempo prima, era stato occupato da Raskol’nikov. Lei non
lo sapeva, ma quei frammenti di pagine stampate ammucchiati
in un angolo della soffitta appartenevano ai libri che
il giovane bruciava per scaldarsi nelle notti d’inverno.
Otto fotografie, otto botole spalancate sull’abisso dell’anima
(l’anima, come una fotografia, può contenere
entro il suo perimetro la luce più viva e l’ombra più
densa: in fotografia, il limite tecnico di ogni pellicola sta
nel non poter riprodurre entrambe nello stesso momento
con uguale accuratezza), otto sublimati di sentimenti a
partire dai quali, come in chimica, potremmo costruire
infinite storie (un calcolo algoritmico dà come risultato
minimo 208 miliardi di combinazioni): ammesso che
qualcuno volesse darsi la pena di scriverle tutte, che cosa
aggiungerebbero, che cosa toglierebbero, alla forza di
quelle immagini? Forse la risposta è: tutto e nulla (non
necessariamente in quest’ordine).
Come le parole che ho appena finito di scrivere.
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