Aavv - Sviluppi imprevisti - CS_libri - ISBN 88-901455-5-2 - € 11,00 - Ordina

sviluppi imprevisti
/ 7 racconti per 7 fotografie

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Cettina Calabrò è, da sempre, terreno di scontro tra opposte pulsioni e passioni, fotografia e scrittura non sono che due fra le tante presenti. Eppure, almeno in questo caso, invece di una inconcludente frammentazione, ciò ha prodotto proficui sviluppi imprevisti.

Nota dell'autore:
dedico un grazie di cuore a Nino per esserci sempre;
a Sergio per aver ritagliato un'impagabile disponibilità fra i mille voli del suo lavoro;
a tutti i miei autori, per aver messo in questa avventura le mani, la testa e il cuore;
all'editore, temerario, con l'augurio di non doversene pentire;
a Marco per aver vestito d'arancio il mio bianco e nero;
a me stessa, perché sì.
E ai lettori che verranno.


Introduzione

di Sergio Ramazzotti

Se, come sostiene qualcuno, un’immagine vale più di mille parole, allora a che cosa servono le parecchie migliaia di parole che sono state scritte per raccontare o spiegare o accompagnare o sottolineare queste otto fotografie? La risposta ovvia sarebbe: a nulla.
O forse non è così, forse sono le parole a valere mille volte più dell’immagine, nel qual caso questo libro sarebbe potuto essere una semplice antologia di racconti, senza che vi si dovessero aggiungere otto fotografie a corredo (nonostante sia a queste che si ispirano i racconti suddetti). Sarei in effetti tentato di credere a quest’ultima ipotesi: in genere un uomo privo della vista è infinitamente più ricco di un analfabeta.
Ecco, però, alcune immagini che, con la sola forza del segno, hanno cambiato il corso della storia: la croce, il monogramma di Allah, la svastica, la falce sovrapposta al martello, il diagramma dell’atomo. O altre meno essenziali, meno grafiche (pur se altrettanto mute), ma capaci di stravolgere la vita di un essere umano per il solo fatto di averle guardate: la Gioconda, gli affreschi della Cappella Sistina, il segno che il giovane Costantino vide in cielo alla vigilia della battaglia di Ponte Milvio, un Boeing 767 che si infila come un pugnale nelle Torri Gemelle (quella non era un’immagine, era la realtà: ma quanta presa avrebbe fatto su tutti noi che non eravamo a New York quel giorno, se ce la fossimo sentita raccontare solo a parole?).
Ma ecco, sull’altro angolo del ring, alcune semplici frasi che, con la sola forza delle poche parole di cui sono composte, hanno deciso il destino dell’umanità, e grazie alle quali (o per colpa delle quali) ciascuno di noi è oggi esattamente ciò che è e non un altro, si trova esattamente dov'è e non altrove, pensa esattamente ciò che pensa e non ciò che potrebbe pensare se le cose fossero andate diversamente: «Alea iacta est», «I had a dream», «Chi crede in me non morirà in eterno», «Attraversa questo Giordano, tu e tutto il tuo popolo, verso la terra che Io consegno agli Israeliti». O una breve formula composta da tre lettere, un numero, un segno matematico: E=mc2. E se, dopotutto, le parole valessero o pesassero o contassero esattamente quanto le immagini e le une fossero all’eterna ricerca delle altre, o l’una dell’unica possibile altra, come l’uomo lo è della sua anima gemella?
O se fossimo noi ad aver deciso, come un’agenzia matrimoniale, che le une e le altre debbano per forza incontrarsi e convivere, a vantaggio della nostra ansiosa necessità di completezza che ci spinge senza posa ad aggiungere parole alle immagini e a tramutare in icone le parole? Una necessità senza la quale, tuttavia, non avremmo la Divina Commedia, l’Odissea, la Conversione di San Paolo di Caravaggio e la Deposizione di Rembrandt…
In questo dimostra una suprema raffinatezza – o un supremo sadismo – la religione islamica, che proibisce la rappresentazione del volto di Dio, e in generale della figura umana, negando all’uomo la soddisfazione del suo viscerale bisogno di tangibilità, che affligge gli occhi prima ancora che i polpastrelli. Noi cattolici abbiamo dovuto dare un volto o corporeità non soltanto a Dio e a Suo figlio, ma addirittura allo Spirito Santo.
Questo libro contiene otto fotografie, che raffigurano cerchi tracciati sulla sabbia, teste di bambole rotte, mani che si sfiorano delicatamente, libri bruciati, una bautta del Carnevale di Venezia, una valigetta d’alluminio, ombre sul selciato e un tetto di tegole. Quali storie potrebbero suggerirci tutte queste immagini messe insieme?
Forse quella di un commesso viaggiatore che, spostandosi da un condominio all’altro attraverso i tetti (il sole che proietta la sua ombra lunga sul selciato sottostante) cerca di vendere le bambole rotte che si porta appresso in una valigia, sforzandosi di convincere con i gesti delle mani e con le parole (le parole) coloro che lo fissano esterrefatti oltre le porte socchiuse («Guardi, la può usare anche come maschera di Carnevale»), ma alla fine della giornata, rattristato per non aver venduto nulla, si siede sulla spiaggia, brucia in silenzio l’agenda degli appuntamenti, e qui lo ritroviamo ancora all’alba, nella stessa posizione, a tracciare cerchi sulla sabbia.
O forse quella di una setta segreta di bambole assassine: si annidavano sui tetti, la notte penetravano nelle cartolerie e nei supermercati, si disponevano in fila sugli scaffali camuffate da maschere di Carnevale e, una volta che le avevate prese fra le mani, portate a casa e indossate, vi succhiavano il sangue lasciando di voi soltanto l’ombra (come quelle forme umane impresse per sempre sul cemento di Hiroshima dall’onda d’urto della bomba atomica, così simili a figure tracciate sulla sabbia), la vostra valigetta, i libri, che per l’immane calore sviluppatosi nel processo di assorbimento delle energie vitali prendevano fuoco.
O quella di un’abile prostituta specializzata in certi giochetti con le mani, le maschere e i giocattoli rotti (si presentava a domicilio con tutto l’armamentario chiuso in una valigetta d’alluminio, molto professionale), precisa e cruda e al tempo stesso lieve come un’ombra, richiestissima da clienti adulti in piena fase di regressione, che sognava di costruirsi con i soldi guadagnati una casa sulle rive del lago Onega, fra le betulle, dove ogni tanto si rifugiava a tracciarne il perimetro immaginario sulla sabbia, e nel frattempo viveva nel sottotetto di San Pietroburgo che, molto tempo prima, era stato occupato da Raskol’nikov. Lei non lo sapeva, ma quei frammenti di pagine stampate ammucchiati in un angolo della soffitta appartenevano ai libri che il giovane bruciava per scaldarsi nelle notti d’inverno.
Otto fotografie, otto botole spalancate sull’abisso dell’anima (l’anima, come una fotografia, può contenere entro il suo perimetro la luce più viva e l’ombra più densa: in fotografia, il limite tecnico di ogni pellicola sta nel non poter riprodurre entrambe nello stesso momento con uguale accuratezza), otto sublimati di sentimenti a partire dai quali, come in chimica, potremmo costruire infinite storie (un calcolo algoritmico dà come risultato minimo 208 miliardi di combinazioni): ammesso che qualcuno volesse darsi la pena di scriverle tutte, che cosa aggiungerebbero, che cosa toglierebbero, alla forza di quelle immagini? Forse la risposta è: tutto e nulla (non necessariamente in quest’ordine).
Come le parole che ho appena finito di scrivere.


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