Alessandro Defilippi, torinese, psicoanalista e scrittore. Ha esordito con i racconti di Una lunga consuetudine presso Sellerio e i romanzi Locus animae e Angeli presso Passigli. Da qualche tempo scrive per il cinema e ha collaborato alla sceneggiatura di Prendimi l'anima, l'ultimo film di Roberto Faenza.

Collabora a "Tuttolibri-TTL", a "Torino Magazine" e, naturalmente, a "LN-LibriNuovi".

Il suo desiderio è di aprire un bar su una spiaggia, da qualche parte, un giorno.




Angeli: un romanzo gotico sospeso tra mistica e politica.

Si può ancora scrivere, oggi, qualcosa che incuta davvero "paura"? E soprattutto, si può ancora incutere paura scrivendo un vero romanzo gotico che, come i grandi classici del genere, affronti gli interrogativi etici e filosofici dell'umanità, la passione e il potere, il peccato, la morte e la vita oltre la tomba?

Si può, se si ha il coraggio di rischiare. L'ha fatto Alessandro Defilippi con Angeli, edito da Passigli nel 2002.

Alessandro Defilippi, oltre che scrivere, ama anche parlare di scrittura e, qualche mese fa, ospite delle Biblioteche civiche Torinesi e in collaborazione con LN-LibriNuovi, ha incontrato i sui lettori in compagnia dello storico torinese e autore di romanzi Alessandro Barbero. Insieme i "due Alessandri" hanno esplorato in maniera piacevole e per nulla formale, il romanzo e il rapporto complesso tra Letteratura e Storia, le somiglianze e le differenze tra "mestieri" apparentemente così differenti come quelli di Scrittore, di Storico e di Analista.

AB: Per quale motivo hai deciso di ambientare il tuo romanzo in un'epoca così fortemente caratterizzata come quella fascista? Per te che cosa rappresenta il fascismo?

AD: Un organismo fortemente centralizzato, nel quale le cose tendono ad una realizzazione il cui senso è molto scarso. E l'assenza di senso, la sua banalizzazione è una delle cose che conducono al male, come suggerisce il libro della Arendt, La banalità del male. Voglio dire che il male nasce anche dall'assenza di senso. Per uno psicoanalista junghiano, il mestiere che faccio nell'altra parte della mia vita, Senso e Sacro hanno un legame molto forte: il Sacro è la concezione che esista un Senso nel mondo. Di fronte alla angoscia, alle catastrofi, agli eventi apocalittici che ci arrivano dalla Storia e dalla quotidianità la domanda che sorge spontanea in tutti noi è "qual è il senso di tutto questo?". La mia risposta è stata il tentativo di scrivere un libro su questo tema. Ecco la ragione della figura dell'Angelo, il Messaggero che da un lato, annunciando l'Apocalisse, porta la perdita catastrofica del senso, ma che dall'altro è un possibile portatore di senso.

Ma esiste anche una risposta meno complicata: a posteriori mi sono reso conto che questi Angeli somigliano in qualche modo ai replicanti di Blade Runner, un film che io amo moltissimo. Come i replicanti, questi Angeli sono potenti, apparentemente malvagi, ma fondamentalmente dolenti. Roy, il replicante di Blade Runner, dialoga con Tyrrel, lo scienziato che lo ha creato, come se parlasse con il suo Dio… Questo è, credo, il significato profondo della figura angelica e dei miei Angeli: il rapporto con il Divino, perché l'Angelo è un garante del Divino.

AB: A Blade Runner ritorneremo perché è uno dei grimaldelli per entrare nel tuo libro. Ma, prima di tornare al cinema, parliamo ancora un po' dell'ambiente letterario, della Torino anni trenta. Torino è un luogo che occupa uno spazio preciso nella letteratura italiana, eppure non è entrata nella coscienza collettiva come uno dei grandi luoghi che la letteratura italiana ha raccontato, probabilmente perché gli scrittori torinesi sono sempre stati un po' isolati, non hanno formato una scuola. Invece è così, e questa sua natura "letteraria" è evidenziata da alcuni momenti molto precisi: la Torino degli anni trenta e quaranta dei libri di Soldati e di Pavese; nella Bella estate, per esempio, Torino è uno dei personaggi, anzi un protagonista, ed è rappresentata da Pavese con crudezza e crudeltà stupefacenti. Poi la Torino degli anni cinquanta e sessanta dei libri di Arpino, con la sua piccola borghesia, e il suo mondo soffocante ma che, al tempo stesso, conserva sempre una voglia di rottura, di fuga, di pazzia. Poi c'è la Torino degli settanta e ottanta di Fruttero e Lucentini, anche loro grandi scrittori. Adesso possiamo cominciare a dirlo: non so quanti, come me, si siano accorti di aver sempre tenuto La donna della domenica nello scaffale dei gialli e, con un po' di vergogna, abbiano finalmente provveduto a spostarlo nello scaffale della letteratura italiana: C'è una continuità, che prosegue anche oggi, quando finalmente esiste una scuola di scrittori torinesi, alcuni dei quali veri eredi di Fruttero e Lucentini, ad esempio Farinetti. Ce n'è abbastanza per poter dire che questa nostra città è un luogo letterario e che ambientare un romanzo a Torino non è una scelta neutra perché con Torino bisogna fare dei conti.

Tra l'altro, uno dei personaggi collaterali del tuo romanzo, ambientato nella Torino della fine degli anni trenta, è il federale Brandimarte, un personaggio che vorrei conoscere meglio; purtroppo, essendo un medievalista, non sono autorizzato dall'accademia a occuparmi troppo di storia contemporanea. ma un giorno vorrei riuscire a occuparmi di figure come Brandimarte, che incarnano particolari aspetti del fascismo, mai abbastanza studiati. Il vero Brandimarte, e lo definisco così perché non so quanto il tuo personaggio corrisponda alla figura reale, è stato un personaggio a suo modo straordinario degli inizi del fascismo nei suoi aspetti peggiori e più negativi; è stato un esponente del fascismo picchiatore più spudorato e contemporaneamente più ammanicato e più arrivista politicamente. Ricordo che quando ero ragazzino c'era stata una mostra fotografica sulla Torino degli anni venti e una delle fotografie rappresentava un graffito sul muro "vogliamo Brandimarte capolista"; ecco già da questa frase, incomprensibile per chi non sapesse di cosa si trattava, in realtà traspariva tutto un universo di lotta politica interna al fascismo torinese di allora. Ecco, nel tuo romanzo ritroviamo Brandimarte un po' di anni dopo, invecchiato, ingrigito, imbolsito. È sempre il Brandimarte degli inizi? e com'è la Torino fascista dell'anno XVI del regime?

AD: Per me, Brandimarte è un nome pieno di ricordi: come tutti i genitori, anche mia madre e mio padre mi parlavano della Torino fascista e mi raccontavano spessissimo di Brandimarte, un personaggio che per me aveva acquisito un'allure particolare, quasi una figura mitica. Quando ho cominciato a scrivere Angeli, Brandimarte si è presentato da solo e io ho evitato di proposito qualsiasi ricerca storica su di lui. In seguito mi sono documentato su di lui e sulla Torino di allora, leggendo la storia di Torino pubblicata da Einaudi, ricavandone l'impressione di un personaggio davvero sconcertante, nei termini descritti da Alessandro Barbero, ma fondamentalmente per me Brandimarte è restato uno dei simboli di quella Torino degli anni trenta e quaranta che per me continua a restare il "luogo degli eventi". Io credo che noi europei siamo, in realtà, rimasti ancora lì, a quegli anni. In seguito il mondo ha visto molte altre guerre, la guerra del Vietnam, le guerre nella ex Iugoslavia e forse, il cielo non voglia, vedrà un'altra guerra in Iraq. Eppure, razionalizzando una mia sensazione, direi che il nostro immaginario, la nostra concezione del male, sono ancora fermi a quell'epoca, a cavallo tra gli anni trenta e quaranta, come se proprio in quel momento la modernità si fosse svelata completamente. Gli anni trenta erano quindi un simbolo di ciò che stava per accadere, un periodo nel quale la situazione diviene greve e grave. Il Brandimarte di Angeli, unica figura storica che agisca, in una dimensione molto collaterale, nel romanzo, è quasi parte dell'immaginario collettivo torinese, quello ricordato da mia madre e da altre persone che ho incontrato in seguito, quello che si invocava come capolista e che si sperava di vedere impiccato. L'altra settimana, a Firenze, ero a cena con il mio editore; passando davanti a un negozio ho letto un nome: Brandimarte. La coincidenza mi ha colpito, come se quel nome, nella sua accezione di "male", di "diavolo" fosse uscito dalla mia fantasia per diventare patrimonio di tutti.

AB: Devo ammettere che se ascoltassi soltanto la mia curiosità ti chiederei cosa raccontavano i tuoi di Brandimarte, almeno un aneddoto...

AD: Su di lui non mi raccontavano aneddoti, in realtà, perché era già un grande personaggio. Mia madre mi raccontava altri episodi, dei fascisti o di partigiani impiccati per strada, o mi raccontava di quando lei, che all'epoca era una diciassettenne molto graziosa, passava sorridendo davanti ai soldati tedeschi…loro le sorridevano in risposta e intanto, suo fratello, alle loro spalle, portava via un sacco di carbone in più. Ma mi parlava semplicemente dei "tempi di Brandimarte". Attraverso Brandimarte, probabilmente, ho anche voluto raccontare un po' di storia dei miei: nelle prime pagine del romanzo compare il nome di mio nonno, che faceva un mestiere molto umile, il ciabattino. Credo che, per la nostra generazione, parlare di quell'epoca sia pagare un debito ai genitori; gli episodi raccontati da mia madre non sono citati esplicitamente nel romanzo, eppure ne formano il milieu. Quegli anni sono nel mio libro perché sono un "luogo degli eventi" a cui noi siamo ancora fortemente legati. Torino, invece, è nel romanzo in primo luogo perché è la mia città e trovo giusto raccontare la propria città, poi perché è una marca di frontiera, un luogo dove le cose accadono ma non succede mai nulla, un luogo isolato, dove tutti sono sempre appartati. Torino è sempre stata collaterale alle cose che passano per l'asse Milano e Roma; qui nascono e muoiono altre cose, che però sono sporcate, segnate intendo dire, da altre zone, come la Francia; credo che metà dei torinesi odi la Francia e l'altra metà rimpianga di non esservi nata. Torino è questo, una marca di frontiera con tutti i problemi e tutti gli stimoli di una marca di frontiera, una città "laboratorio", per usare un'espressione abusata.

AB: La prima volta che abbiamo discusso insieme di questo tuo romanzo è emerso che, scrivendolo, tu, in realtà, più ancora dell'atmosfera torinese del 1938, avevi in mente quella del 1944, la Torino occupata dai nazisti. Allontanandoci da Torino, andiamo nell'altro luogo del romanzo: l'Africa orientale, l'Etiopia, la Dancalia. È un luogo che si presta alle speculazioni del lettore e io, da lettore, ne ho fatte, mi dirai tu quanto azzardate. Il primo presagio del male che incombe si manifesta attraverso un'icona straordinaria, di incerta datazione e provenienza e che, in realtà, proviene dall'Etiopia. A margine, si potrebbe osservare che solo oggi cominciamo a riscoprire l'enorme importanza artistica della tradizione bizantina delle icone. Oggi questa forma d'arte è valorizzata come merita, ma nel 1938 nessuno se ne occupava, e questa è l'atmosfera che tu descrivi. L'icona che "parla" a chi ha già dei presentimenti, ma senza rivelare nulla perché nessuno sa decifrarla, è un simbolo del cotè di spiritualità di Angeli, una spiritualità alta e lontana che si manifesta in forme simboliche difficili da decifrare. Dietro l'icona compare il Libro di Enoch, uno dei testi dei Vangeli apocrifi, che continua a essere utilizzato soltanto dalla chiesa copta etiope, mentre le altre chiese cristiane lo hanno abbandonato. Ecco, all'orizzonte del tuo romanzo preme tutto un mondo "altro da noi".

Mi pare che questi elementi alludano ad alcune grandi "rimozioni". In primo luogo la rimozione definitiva dei cristiani d'Oriente, attuata secoli fa dalla nostra cultura occidentale. Per lungo tempo noi europei occidentali abbiamo condiviso con l'Europa orientale la comune tradizione ellenistico/romana e cristiana – perché questi sono i nostri fondamenti, indipendentemente dal nostro essere o no cristiani individualmente; poi, improvvisamente già nell'epoca medievale che io studio, abbiamo smesso di percepire il mondo greco-ortodosso, balcanico e russo, come parte di noi, e abbiamo cominciato a sentirlo come estraneo e, naturalmente, inferiore. A questa prima rimozione se ne sommano altre, perché l'Etiopia è un'appendice di questo mondo rimosso. È un paese cristiano, ma credo che solo pochissimi tra i soldati italiani partiti negli anni trenta per andare a conquistarla si rendessero conto che questi "negri", "selvaggi e schiavisti" - così erano loro presentati – erano non soltanto cristiani ma fedeli di una delle più antiche chiese cristiane del mondo. Dietro la trama del tuo romanzo c'è proprio questo cristianesimo copto. L'Etiopia, infine, è una grande rimozione tutta italiana: noi abbiamo cancellato tutto ciò che essa ha significato per noi tra la fine dell'Ottocento e la seconda guerra mondiale. nella nostra cultura recente vi è forse un unico tentativo di recupero di questi elementi rimossi, un tentativo che potrà anche far sorridere: quando tu hai portato i tuoi protagonisti in Dancalia mi è venuto in mente Hugo Pratt, grandissimo disegnatore di fumetti, che, proprio in quei luoghi, ha ambientato alcune delle sue storie.

AD: Hai ragione, l'unica mappa veramente precisa che ho trovato della Dancalia era stata disegnata da Pratt. Non mi ero assolutamente reso conto di averle indicate nel mio romanzo, ma le rimozioni di cui tu hai parlato sono vere. E io ne citerei un'altra, la rimozione di tutta quella branca del pensiero cristiano, ma anche ellenistico ed ebraico, che ha originato lo gnosticismo, ossia quella forma di filosofia, e al tempo stesso di religione, che basa la salvezza sulla conoscenza. Una sovrapposizione straordinaria di mitologia e di pensiero che concepisce l'esistenza di un'anima in qualche maniera "caduta" dal cielo iperuranio sulla terra, dove si sporca, perde contatto con dio e cerca di ristabilirlo. La ricerca di dio per gli gnostici avviene attraverso la conoscenza. Il dio che emerge in Angeli è probabilmente il demiurgo gnostico, una delle sottodivinità che creano il mondo ma che non fanno i conti con una divinità ulteriore, inconoscibile, nascosta, posta sopra di loro e con la quale non si può avere contatto. Il pensiero gnostico, l'Europa orientale, l'Africa orientale, che fanno parte delle rimozioni di cui parlavi, sono elementi simbolici molto forti, che ho introdotto nel mio romanzo probabilmente per contrastare 'impressione che il nostro mondo attuale sia un luogo spoglio, poco divertente, poco interessante, dove le cose sono soltanto ciò che sembrano. Il peccato maggiore del mondo attuale è l'assenza delle ombre, dell'ulteriore. Nel senso che in televisione io vedo la pubblicità di una merendina, e mi sembra che la merendina sia lì. Le cose sono senza ombra, illuminate da una luce cruda e molto banale, che non ci consente più di fantasticare. Nel mondo di oggi accadono cose spaventose eppure, paradossalmente, anche molto noiose, perché noi non siamo più in grado di lavorare con il nostro immaginario attorno alle cose, alle persone, alle vicende. Luoghi come l'Etiopia del mio romanzo, elementi come la gnosi, ci restituiscono il valore del simbolo.

Queste, naturalmente, sono riflessioni a posteriori. In realtà, io credo di aver ambientato il mio romanzo in Dancalia perché è il luogo più inospitale della terra, un immenso deserto di sale dove in estate si raggiungono temperature di 70 gradi, e che quasi nessuno ha mai attraversato; un luogo straordinario, pochissimo studiato tuttora, e dove vivono gli Afar, una popolazione orgogliosa, dura, pericolosa. Recentemente è stato pubblicato il libro di un signore che sostiene di avere attraversato la Dancalia. E' un libro molto carino, perché racconta di una buffa spedizione durata due giorni: gli esploratori si sono inoltrati in Dancalia per circa 10 km poi la Land Rover si è rotta e tutto si è fermato. Sono arrivati gli Afar e li hanno portati al loro campo, tenendoli prigionieri sino a quando non sono stati liberati per un intervento diplomatico.

In realtà la Dancalia fu raccontata in maniera straordinaria in un libro edito a suo tempo da Bemporad e scritto da un italiano di origine inglese, Ludovico Nesbitt . È intitolato La Dancalia esplorata, pubblicato nel 1935 ed è bellissimo: sembra di leggere Salgari o una storia di Indiana Jones e, contemporaneamente, lo studio di un etnologo; sembra di leggere Tristi tropici, È un testo di incredibile fascino, oggi è quasi introvabile, è possibile trovarlo soltanto nelle librerie antiquarie o, se si è molto fortunati, su qualche bancarella; qualche editore dovrebbe ripubblicarlo. Solo in Dancalia, il luogo più inospitale della terra, potevano accadere le vicende di Angeli.

C'è poi un altro elemento, del quale mi sono reso conto a posteriori: la Dancalia mi ricorda la terra di Mordor. Fin dall'età di diciassette anni, io ricorro ad una cura antidepressiva segreta, che non consiglio ai miei pazienti soltanto perché altrimenti non verrebbero più da me, e che voglio svelarvi: leggere Il signore degli Anelli ogni due o tre anni; cominciate a leggere il Signore degli Anelli nei momenti peggiori e i problemi depressivi spariranno. Nel libro, quando Frodo comincia ad attraversare Mordor, trova un deserto simile alla Dancalia, un luogo nudo, spaccato, dove non esistono oggetti, dove non esiste nulla e dove, davvero possono albergare il male e il mistero assoluti.

AB: Per chiudere il cerchio e continuare questo gioco di libere associazioni che ci portano in maniera trasversale dentro il tuo libro, potremmo fare un gioco con il pubblico: tu hai parlato della gnosi, della religiosità gnostica: chi ricorda un importante romanzo torinese pubblicato venti o trenta anni fa, che ha al centro il problema della gnosi, pur essendo un romanzo popolare? Ecco, brava, A che punto è la notte.

Continuiamo andando dal particolare al generale. Tu sei, come molti che scrivono oggi, me compreso, una persona che ha un mestiere e un ambito di interessi intellettuali, approdata in seguito alla narrativa. Io mi sono reso conto che si può continuare per un certo periodo di tempo a fare lo storico medievalista e a scrivere romanzi, fingendo di essere due persone differenti e senza punti di contatto, poi, però, bisogna ammettere che non è così, che le due attività si rispecchiano a vicenda; ho dovuto ammettere che scrivere romanzi è una forma di conoscenza degli esseri umani non troppo diversa dallo studio della storia, ad esempio, un altro modo per cercare di capire come reagiscono se messi in certe situazioni, come "funzionano". Cosa significa scrivere narrativa per uno psicoanalista?

AD. Fondamentalmente l'analisi è sempre un ri-raccontarsi. Il mio maestro che è uno psicanalista di straordinaria levatura qui a Torino -Augusto Romano, mi piace farne il nome perché credo sia un modello gigante fra gli analisti junghiani di tutta Italia- una volta mi disse una frase molto affascinante, e cioè che l'analisi è "una riappropriazione emotiva di sé", cioè che, l'analisi è il modo in cui noi possiamo ritornare a noi stessi, tramite le nostre emozioni, che sono coartate, mortificate. Il modo in cui ci si può riappropriare di sé passa, io credo, attraverso il tentativo di dare un senso a ciò che ci è accaduto. Quando noi giungiamo a vedere la nostra storia personale sotto un aspetto narrativo, a vedere un "prima" un "dopo", un "perché", io credo che qualcosa per noi cambi. Il problema della nevrosi è la mancanza di un senso, di un perché. Uno scrittore americano straordinario, Paul Auster, ha scritto in Trilogia di New York, un libro bellissimo, credo sia il suo primo, una specie di triplo giallo metafisico, una frase molto significativa: "l'investigatore e lo scrittore cercano di mettere ordine, di trovare un senso, nella confusione del mondo". Io ho sempre pensato che questa coppia, l'investigatore e lo scrittore, in realtà dovesse essere una triade insieme all'analista, o allo storico. Io credo che tutti e tre cerchino di muoversi all'interno di questo binomio ordine-caos. Io non credo che il mondo debba essere ordinato, credo che sia soprattutto caotico; la fisica del caos ci ha insegnato che il mondo non è costituito soltanto di eventi collegati fra loro da nessi causali o da eventi semplicemente casuali. Il mondo è fatto anche di eventi sincronici, collegati fra loro in un'altra maniera, un po' strana, che può essere definita con una frase molto poetica e suggestiva: "se una farfalla batte le ali a Pechino, c'è un terremoto a New York". In altre parole la catena degli eventi è talmente sottile, complessa, amplificabile che un evento lontanissimo, minimo, ne può determinare – che non significa causare – un altro. Questi eventi possono essere collegati tra loro in ogni maniera, anche non causale. Credo che narrare sia un modo per stabilire i nessi fra le cose, nessi che possono essere nessi di ordine o nessi di caos. C'è un altro concetto della fisica del caos che è quello di "attrattore strano", un luogo dello spazio-tempo che determina attorno a sé un disporsi delle cose, delle particelle. Penso che i libri funzionino come attrattori strani, che tentino di determinare, di porre un ordine diverso dal solito, un ordine "altro". Perché fondamentalmente non cero che esista un ordine solo o che il mondo sia comprensibile soltanto attraverso la scienza, la psicoanalisi, la storia. Le interpretazioni possono differire totalmente: noi possiamo essere certi che la terra sia rotonda e, nello stesso tempo, preoccuparci, stando agli antipodi, che il cappello non ci cada dalla testa. In noi, cioè possono coesistere, senza contrapporsi, un pensiero scientifico e un pensiero magico. Entrambi sono modi di interpretare il mondo e ci consentono di funzionare al suo interno. Ad esempio io so che, se schiaccio l'interruttore, la luce si accende; questo non è un pensiero scientifico, ma magico, semmai, perché la mia certezza non si basa su una vera conoscenza dei principi dell'elettricità. Fino a che questi due tipi di pensiero coesistono dentro di me senza urtarsi, senza provocare strani cortocircuiti, io posso funzionare nel mondo. Noi interpretiamo il mondo con più chiavi e ogni chiave, sino a che non ci conduce alla follia, funziona ed è accettabile. Scrivere, come fare l'analista, è un tentativo di trovare delle chiavi, che sono assolutamente individuali, personali per ciascuno. Ogni romanzo è un tentativo di raccontare una chiave, altrettanto valida delle altre.

AB. Una delle prime parole che hai pronunciato in questa tua risposta è stata "storia". "Storia" è una delle parole semanticamente più complesse della nostra lingua: è la "storia" in quanto disciplina scientifica, cioè il mio mestiere; è anche ogni "storia" che si possa narrare, ed è, infine la "storia" personale di ognuno di noi. Volevo chiederti se per te vi sono differenze tra scrivere un romanzo e scrivere un romanzo storico. In realtà tu mi hai già risposto prima, dicendo che gli anni che tu racconti in angeli sono il cuore oscuro del nostro passato, il tempo nel quale ci siamo fermati. Quindi ti chiedo più semplicemente: "Ho ragione di credere che, per chi fa il tuo mestiere, lo spessore dato dalla "storia", nel senso di ciò che si è accumulato ed è ancora lì, è importante come per chi fa il mio mestiere?".

AD: Assolutamente sì. Se manca il senso della profondità non c'è la storia, storia con la esse minuscola. Io ho tentato per mesi, su pressante invito della mia agente letteraria e del mio amico Eugenio Pintore, di scrivere un romanzo ambientato nel mondo contemporaneo. Ho messo insieme ottanta pagine dopo averne buttate via duecento, dopo di che ho buttato anche le altre ottanta. Semplicemente non sono stato in grado di farlo, mi sembrava tutto falso. Per scrivere un romanzo ambientato nel mondo contemporaneo bisogna avere un occhio molto particolare, penso a Ballard, per esempio, che è comunque nato come scrittore di fantascienza, autore ad esempio, di un romanzo, Crash, dal quale Cronenberg ha tratto un film straordinario. Ballard è un grande interprete del mondo contemporaneo e lo guarda con un occhio che Pintore definisce "cattivo", durissimo, tagliente. Io non possiedo quel tipo di sguardo, quando guardo le cose, devo poter vedere retrostrutture, forme rotonde, un po' impolverate, io non so vedere alla luce della contemporaneità, una luce intensissima, che non conferisce ombre o ne dà di molto piccole. Il romanzo storico mi consente di muovermi fra ombre molto più sfumate, di raccontare anche ciò accade dentro a me, oggi, ma in maniera molto più sfumata, di quanto potrei fare affrontando la contemporaneità. Con la contemporaneità, quando ci provo, mi pare di cadere nel peggior peccato degli scrittori, che è la confessione intima, che è assurda, terribile. La nostra autobiografia se non è trasformata non è interessante. Questo si impara scrivendo. Tutti i primi libri sono autobiografici e non sempre è un bene. Poi i libri lo ridiventano quando si è vicini alla morte, ma soltanto allora acquistano un senso.

A me, personalmente, la contemporaneità non consente il distacco necessario per scrivere una storia. Non ci sono personaggi, ci sono soltanto io. Se invece mi sposto nel tempo, i personaggi improvvisamente nascono. E questi personaggi hanno infatti tutti legami con me, com'è naturale, ma molto lievi.

AB: Vorrei chiederti, infine, di tornare sul cinema. L'ombra di Blade Runner aleggia nel tuo romanzo, ma il cinema è stato direttamente presente nella tua scrittura, al di fuori quindi della tua professione di analista. Tu infatti sei stato uno degli sceneggiatori del film Prendimi l'anima, il film sulla vita di Sabine Spierein... Naturalmente questo film parla di Jung, quindi di un argomento non troppo lontano dalla tua "parrocchia". con questa esperienza, però, hai affrontato una forma diversa di espressione. Com'è stato, dopo la narrativa scritta, cimentarsi con la sceneggiatura cinematografica?

AD: È stato un lavoro infernale. Tu sai bene come vanno queste cose: ti telefonano da Roma, mentre sei a Torino, e ti dicono: "Dovremmo scrivere una scena di dodici pagine". E tu: "Va bene, ma per quando vi serve?". Risposta: "Dunque, sono le cinque… Facciamo per le cinque e mezza?". Questo è il primo problema, il secondo è che a queste persone, il regista, gli sceneggiatori di professione la tua fatica appare minima.... Tu ti affanni a scrivere la scena in mezz'ora, la spedisci via e-mail, e loro ti dicono " Ah, bella quella frase". E basta. Ma il vero problema è dover scrivere per telefono, cosa di una difficoltà terribile. Però si tratta di un'esperienza istruttiva, che ti insegna tantissime cose: ad esempio a utilizzare una prosa molto più asciutta, oppure che talvolta gli effetti non sono disprezzabili. Quando scrissi il mio primo libro, non avrei mai scritto certe frasi che invece ho scritto in Angeli. Questo fa parte del modo in cui si scrive un romanzo, delle cose imperfette, magari non sorvegliatissime che però non possono non esserci. Pintore, che insegna scrittura creativa qui a Torino, dice, ad esempio, che in un romanzo "le descrizioni devono esserci". Il lettore le salterà, ovviamente, ma l'autore le deve ben scrivere. Chi ha letto tutte le descrizioni di Guerra e pace? Uno su dieci. Sono straordinarie ma chi le legge tutte? E papà Goriot, di Balzac? La descrizione della casa di Papà Goriot: tutti dicono che è bellissima ma quasi nessuno l'ha letta. L'unico scrittore di cui leggo tutte le descrizioni è Dickens, ma si tratta di un caso particolare, uno scrittore di tale livello da rendere personaggio persino la nebbia di Londra... Però io credo che fondamentalmente le descrizioni siano come le frasi ad effetto che si imparano scrivendo una sceneggiatura: parti necessarie di una meccanismo, perché un romanzo è "anche" un meccanismo, una struttura nella quale devono esserci momenti di grande tensione e momenti che permettono al lettore di riposare. Quando passi dal racconto al romanzo, ti rendi conto che mentre il racconto è una specie di freccia, il romanzo è tutta un'altra cosa. Ecco perché il romanzo fondamentalmente fa parte della maturità, anche anagrafica di un autore, mentre il racconto fa parte della giovinezza, perché allora si è frecce, e è poi di nuovo dell'età tarda di un autore, perché allora si ha fretta e si vede la freccia puntata verso di noi. C'era uno scrittore che riusciva a scrivere romanzi come fossero racconti e racconti come fossero romanzi: Simenon, uno dei grandi maestri un po' misconosciuti del Novecento, che ha scritto alcuni dei più incredibili, straordinari romanzi del suo secolo. Parlando di scrittori francesi certamente Proust va bene, ma Simenon è un grande. Un autore che ha scritto settanta romanzi con Maigret, un'altra sessantina senza Maigret, romanzi lunghi da 120 a quattrocento pagine. E che scriveva racconti perfetti, scritti tutti alla medesima maniera. Forse saprete che Simenon, tutte le mattine, prima di mettersi a scrivere aveva dei conati di vomito. Solo dopo i contati di vomito poteva cominciare a scrivere. E davanti a sé doveva avere un portamatite pieno di matite da temperare, le guide telefoniche su cui scegliere i nomi dei personaggi, la rubrica sulla quale avrebbe scelto i nomi delle amiche a cui, dopo, avrebbe telefonato. All'inizio di ogni nuovo romanzo, Simenon era terrorizzato che non si ripetesse l'incantesimo. Allora ogni cosa doveva essere come la volta precedente, tutto sistemato nel medesimo modo, ogni gesto ripetuto nuovamente. E, finito di scrivere il romanzo, doveva avere le medesime avventure erotiche, perché tutto si potesse, in seguito, ripetere ancora, nella stessa maniera. Non so perché ho parlato di Simenon.

AB Me lo stavo chiedendo anch'io ma hai fatto benissimo a farlo.

Pubblico:

1) Vorrei chiedere una cosa. In Angeli ritorna tantissimo l'archetipo del sangue. Su quest'aspetto ho riflettuto molto e, mentre prima la presenza del sangue mi era sembrata quasi ovvia –c'erano i morti, il romanzo è anche un thriller e il sangue non era fuori posto– adesso, invece, mi pare che il sangue sia qualcosa di più, che riecheggi l'Antico Testamento, dove il sangue è "la vita". Da dove viene fuori, quindi, tutto questo sangue? E quante altre cose ci sono in Angeli che io non ho ancora compreso?

AD: C'era molto sangue in Locus Animae, ma forse in Angeli ce n'è di più, anche se io non credo che sia un libro splatter, le descrizioni a volte sono dure perché il male è duro, ma non vi sono, io credo, compiacimenti splatter. Il sangue e lo sperma sono la parte di Dio, dice l'Antico Testamento. Sono il il sacer, che è contemporaneamente sacro e corrotto, nefasto e fasto, santo e perverso. Il sangue contiene tutte le possibili ambiguità. Questa è la risposta colta, la dico per fare bella figura… Credo però che questo sangue sia anche molto legato all'immaginario filmico. Di Shining, ad esempio, ricordo una delle immagini più inquietanti che io abbia visto al cinema: ricorderete anche voi, un bambino che percorre un lungo corridoio sulla sua macchinina a pedali e improvvisamente scorge le due gemelline – il tema del doppio è un altro tema straordinario della narrativa fantastica. Tornando a Shining, a quel punto, da una scalinata gemella che si apre in fondo al corridoio scende una fiumana di sangue. In realtà non accade nulla, non ci sono efferatezze, ma il sangue ha un portato simbolico fortissimo e, nel film questa massa di sangue è terribile, pare una inondazione, non è neanche il male, è l'incomprensibile. Ecco perché in Angeli compare tanto sangue, tanto che talvolta sembra un lago. Un lago di sangue, poi, suggerisce tante altre immagini…Ad esempio, anche se non c'entra nulla a me viene in mente L'Isola dei morti, un dipinto di Boecklin, del quale esistono almeno tre o quattro versioni, e nel quale si vede una barca arrivare all'isola dei morti; si dice che l'isola che ha ispirato sia San Michele, il cimitero di Venezia. E poi il sangue perché in Dylan Dog ce n'è moltissimo.

2) Io non ho letto il tuo ultimo romanzo, avevo letto i precedenti e avevo avuto la sensazione che anche le descrizioni più minute, luci, ombre, momenti appartenessero più al mondo del sogno che al mondo reale. Probabilmente anche questo libro è così. Che peso dai al sogno nella narrazione? E' un elemento pianificato o una modalità che emerge, che scaturisce dal fatto che l'esperienza di scrivere ha anche le modalità del sogno?

AD: io credo che fondamentalmente scrivere un libro sia come un sogno, una produzione che si possa interpretare come un sogno, che abbia collegamenti tipici dei sogni, un sogno peraltro molto logico. Nella mia esperienza scrivere un libro ha una connotazione da "stato oniroide", come dicevano i vecchi psichiatri. È stato detto che "scrivere è costituito per il dieci per cento di ispirazione e per il restante novanta di traspirazione" e anche che: "l'ispirazione è l'atto di accostare la sedia alla scrivania". È vero, se non c'è elemento di grande disciplina, questo lavoro paziente, non c'è narrazione. Ma l'ispirazione esiste, nel senso che, nella mia esperienza, si è scritti dal libro, cioè esiste una cosa dentro chi scrive che preme per essere detta, ed è una cosa inconscia, ecco perché la scrittura, talora, ha l'aspetto di un sogno. Peraltro, io ho orrore dei libri cosiddetti onirici vero e proprio. Amo moltissimo la letteratura fantastica, soprattutto quella inglese del tardo Ottocento, quella con i college, gli armadi, i signori che bevono il tè seduti in giardino, tutte cose concretissime che riempiono i racconti di Montague Rhode James, un altro maestro misconosciuto, o le opere fantastiche di Henry James, come Il giro di Vite. Il fantastico deve nasce ed è veramente onirico quando nasce dal concreto: l'onirico è nel particolare. Tanto più lo scrittore è lucido e particolareggiato nel descrivere una situazione, una cosa, il sangue stesso, tanto più è in grado di allucinarla, di renderla onirica. Io fatico moltissimo, ed è un vero peccato dal punto di vista intellettuale che il mio maestro Augusto Romano mi rimprovera, a leggere i romantici tedeschi. Novalis, per esempio, lo trovo straordinariamente commendevole ma mi annoia a morte, perché nella sua scrittura non c'è concretezza, non ci sono colori, suoni, odori, c'è il fantastico tipico del pensiero tedesco e della scrittura tedesca a cavallo tra il Settecento e l'Ottocento, un fantastico che non poggia sul reale. Invece io credo che il fantastico nasca dalla realtà e che solo stando fortemente nel mondo se ne senta l'aspetto fantastico. Fuori del mondo il fantastico non esiste più.

3) Vorrei farti una domanda non tanto sulla forma quanto sul genere del tuo libro. Angeli, come anche il precedente Locus Animae sono anche ottimi esempi di romanzo "gotico", dove il mondo è descritto con estrema concretezza ma poi la presa sul reale scivola, Tu sei uno scrittore e un lettore di fantastico estremamente colto e, in occasione della presentazione di un altro tuo romanzo, hai detto che le convenzioni di genere sono simili a gabbie che stimolano lo scrittore a forzarle, ad andare oltre. Recentemente ho letto una frase simile, detta da un poeta inglese, sul fatto che le regole, le gabbie, come le chiami tu, consentono all'autore di liberarsi delle pastoie del proprio ego. Tu condividi questa riflessione?

AD: Completamente. Sono convinto che più la struttura è rigida più lo scrittore è spinto ad affinare le proprie capacità per uscirne, a inventare. Così facendo, l'autore si libera appunto del proprio ego ed evita i rischi, ai quali prima accennavo, della scrittura autobiografica che non è interessante perché non è universale. Chiunque scriva, anche se pubblica un romanzo come Angeli, desidera dire qualcosa che venga ascoltato anche da altri. L'unico modo, però per farlo, però, è attenersi a regole molto rigide. Io questo credo di averlo capito leggendo uno straordinario scrittore argentino. Cortazar, autore di alcuni fra i più bei racconti fantastici mai scritti. Cortazar è un autore che si dà tantissime gabbie, proprio come se le davano i surrealisti, o gli autori del gruppo dell'OULIPO, del quale facevano parte Queneau e Perec, che ha scritto tutto un romanzo, La scomparsa, senza usare la lettera "e", e un altro romanzo, La vita, istruzioni per l'uso, partendo dalla pianta di uno stabile. Proprio la presenza della regola consente lo scatto del fantastico, senza la regola non si possono apprezzare i salti di livello: il fantastico diventa possibile soltanto se esiste un reale con il quale possa contrapporsi, scontrarsi. Anche in campo cinematografico, i film che fanno veramente paura non sono i film splatter, che sono soltanto brutti, Ad esempio, Zombie, un cult movie di Romero, a me non piace perché in quel film non esiste contrapposizione tra reale e fantastico. È la contrapposizione a determinare la paura, è il momento nel quale ci si rende conto che nel nostro solito mondo, in una stanza come questa, dietro quella porta, può esserci qualcosa di incomprensibile. Ciò che funziona davvero e che fa paura è l'irruzione del fantastico nel reale quotidiano. Per citare un altro un classico, Il gabinetto del dottor Caligari – un vecchissimo film muto – è un film completamente onirico, proprio perché interamente giocato sullo scarto tra realtà e fantastico, alla fine del quale si scopre che tutto ciò che è accaduto è una proiezione fantastica, e che la realtà. È quella del manicomio.

3 bis) Quando ho letto Angeli ho apprezzato molto il fatto che pur partendo da un'ispirazione veramente gotica – perché temi come il rapporto dell'umanità con il divino e la salvezza appartengono al genere gotico – riuscisse a raggiungere una dimensione politica, collettiva; nel tuo romanzo infatti gli angeli sono una collettività, piccola e composita, che prende posizione contro il potere. Il tuo discorso sulla gnosi, sulla salvezza attraverso la conoscenza, però, mi ha fatto riflettere su un altro aspetto: forse non è un libro sul potere, ma un libro sulla conoscenza e sulla sua mancanza, perché mi sembra che il vero dramma di questi angeli sia soprattutto la difficoltà di esibire la conoscenza e che forse nel momento in cui uno di loro, almeno, riesce a raccontare la propria conoscenza a padre Ferraris, in qualche modo trovi anche la pace.

AD: Sono completamente d'accordo. La parola che userei, però, è "senso". L'angoscia degli angeli è dovuta al fatto che non trovano un senso; l'angoscia di padre Ferraris, un personaggio che io ho amato moltissimo e che è nato come un fungo, in maniera sorprendente, dentro di me, è non trovare senso. Quando uno degli Angeli trova un senso al mondo, quando lo trova padre Ferraris, in qualche modo c'è pacificazione. Una cosa che mi era stata rimproverata di Locus Animae era il fatto che fosse un romanzo privo di speranza. In parte è vero, Locus Animae era un romanzo senza redenzione. Io mi sono sforzato di scrivere un romanzo diverso, non per accontentare i lettori ma perché mi pareva giusto che ci fosse una speranza. E la speranza alla fine c'è, c'è persino una sorta di happy end, e coloro che non partecipano dell'happy end sono però coloro che alla fine riescono a concludere la loro parabola, trovano un senso, trovano pace.

4) La mia lettura di Angeli è stata assolutamente "non dotta". La mia lettura è quella di una frequentatrice della biblioteca, una lettura molto semplice, fatta tutta d'un fiato, in un week-end, perché una volta cominciata la lettura non sono più riuscita a uscirne fino all'ultima pagina. Secondo me questa è la grandezza di Angeli, il fatto di poter avere molte letture diverse: una lettura dotta, la lettura dell'autore e le tante letture dei lettori. A me è parso che questi personaggi potessero interpretare la mia vita nel libro e desidero anche confrontarlo con Locus Animae, che ho amato molto e ho letto senza conoscere l'autore, mentre Angeli l'ho letto conoscendo già l'autore. C'è fra i due romanzi un collegamento molto vivo, la prima cosa che sono andata a cercare in Locus Animae è la corrispondente dell'anziana signorina Ferrero, che in Locus Animae è la Rosa. Questo personaggio che in Angeli sembra così comprimario, per me è stato invece importantissimo: la presenza nella storia di qualcuno che sia depositario della memoria. Sono io che ho visto nel personaggio più di quel che c'era?

AD: Assolutamente no. È veramente colei che custodisce la memoria, colei che ha fede. In Angeli hanno questo ruolo anche altri personaggi: Abdul Kader, ad esempio. Tanto per ritornare sul paragone, del tutto arbitrario, con Il Signore degli Anelli, sono personaggi come Sam, come Pipino e Merry, che sembrano quasi inutili e invece sono centrali. Di Sam, poi sappiamo bene che ruolo gioca alla fine e come sia importante quanto Frodo. Credo che personaggi come la signorina Ferrero e Abdul in Angeli, o Rosa in Locus Animae siano importanti proprio per questo. Non so però come nascano, i miei sono tutti ragionamenti a posteriori.

4 bis) Mi sono chiesta come viva lo scrittore il rapporto con le proprie creature, perché se certi personaggi ritornano, sono comuni a due romanzi, significa che l'autore vuole dirci qualcosa, insiste su qualcosa. È così?

AD: Non c'è nulla che io consapevolmente cerchi di trasmettere. C'è però sicuramente qualcosa che filtra. Io sto tentando di scrivere un altro libro, ma non riesco a scrivere il libro che ho progettato. Due notti fa mi sono ritrovato su una collina in Etiopia e questo significherà ben qualcosa. Forse qualcosa deve ancora accadere, forse questi personaggi devono dire ancora qualcosa che sta a loro e non a me dover dire, ma che per me è importante venga detto. Credo che tutti i miei libri oscillino tra il senso e il male, tra il dolore e la pace.

5) Io vorrei tornare un momento sul tema del senso, partendo da qualcosa che ho vissuto io. Una volta, per un certo periodo di tempo, mi sono trovata a fare una ricerca sui piloni religiosi, quelli che si trovano nei boschi, nei paesetti e avevo constato che mano a mano che esaminavo materiale più recente, più vicino a oggi, la rappresentazione iconografica perdeva di simbolicità e le figure diventavano fortemente stereotipe…

AD: Forse perché è scomparso un po' il senso. Io credo questo, almeno.

6) Io non ho ancora letto il libro e non pretendo di dare un senso a tutto ciò che ho sentito. Io non scrivo narrativa, mi occupo di letteratura sul versante critico, amo molto e ho scritto qualcosa su Rilke. Sono d'accordo sul fatto che lei non sia un "venditore di storie", ma un autore che ritiene di essere ispirato – in senso vorrei dire "modesto", non "profetico" –, che scrive sotto "dettatura", come se un dio le rivelasse qualcosa. Lei racconta la realtà concreta trovandola o già dotata di un senso, di una sorta di epifania, oppure dando lei stesso un senso al reale. Citando un classico eccezionale, l'Ulisse di Joyce, direi che il suo tema sia il rapporto padre/figlio, (intesi in senso trinitario), che il figlio, Dedalus, sia il Logos e il padre, mister Bloom, la realtà. E vorrei chiederle, il senso che lei cerca non è forse la letteratura che lei costruisce, mentre la realtà resta fuori? Questo senso non riesce mai a incarnarsi nella realtà, è come Stephen Dedalus, che non riesce mai a incontrare il padre che è la realtà.

AD: Credo di essere d'accordo con lei: la letteratura è il tentativo di non riesce mai e forse proprio per questo va ripetuto sempre, perché se Dedalus incontra il padre finisce tutto. Credo che alla fine il "senso" sia la ricerca del senso.

dr. Messina: Anch'io avrei una domanda. Abbiamo parlato di una professione e di una scrittura praticata. Di una professione in cui narrare ha un peso notevole sia nella formazione di chi la professa, sia nel misurarsi con il male, con il dolore, la causa scatenante dell'incontro e con obiettivi come pace e serenità da raggiungere insieme ai pazienti. Quanto di tutto ciò è intralcio alla vita dello scrittore quanto è una delle sue risorse?

AD: Io credo che l'analisi non sia né medicina né un'arte, ma un lavoro di artigianato. Credo che la persona che più somiglia a un bravo analista sia un ebanista, che lavora passando la cartavetro su un oggetto di legno ed è contento di ciò che fa. Ricordo una bella storia su S. Antonio Africano. Antonio è il più grande santo del mondo e viene visitato dall'Angelo di Dio, che gli dice: "C'è un uomo più santo di te". Antonio è sorpreso: "Ma come? Ma chi è?". L'Angelo lo trasporta nel suk di Alessandria e gli fa conoscere un ciabattino che sta lavorando al suo deschetto. Antonio lo interroga a lungo su questioni religiose e il ciabattino non sa rispondere, e gli dice "Ma io faccio scarpe, e le faccio bene". Allora Antonio capisce che il ciabattino è più santo di lui perché è dentro le cose che fa. Sono convinto che qualsiasi lavoro, l'ebanista, l'analista, posano essere risorse per lo scrittore, non perché gli forniscono materiale (il mio lavoro non mi ha mai fornito direttamente materiale, non sarebbe giusto verso i miei pazienti), ma in quanto lo rendono libero. Scrivere pur facendo un mestiere, un altro mestiere, non è una brutta situazione, perché si è liberi. Certo, sarei molto contento se il mio prossimo libro vendesse come un best seller di Stephen King, ma non accadrà mai, ovviamente. Però avere un mestiere è una straordinaria risorsa, che consente, con enormi sacrifici di tempo e fatica, di scrivere davvero le cose che si ritiene giusto scrivere. Se poi si trova un editore disposto a pubblicarle, si è molto fortunati, ma non si è mai "costretti" a scrivere, che è una delle esperienze più terribili che un autore possa fare.

Una lunga consuetudine

Sellerio 1994

Alessandro Defilippi è un esordiente torinese trentottenne, che ha evidentemente letto e meditato autori come Henry James e Dino Buzzati. Il lato positivo della cosa è che lo ha fatto con discreto profitto, scrivendo racconti come Una lunga consuetudine e Diaframma/tempo di posa.

Defilippi è narratore curato, attento, sorvegliato e sa creare con attenzione atmosfere, tempi e respiro dei testi. Significativo a questo proposito il racconto che apre l'antologia, L'appartamento, ispirato a The Jolly corner di Henry James e costruito con tattica narrativa esemplare (anche se parzialmente indebolito da un finale romanticamente prevedibile).

Non posso che sperare che Defilippi perseveri – magari augurandogli di sfuggire con maggior successo ad alcune suggestioni cindematografiche non del tutto asssimilate – anche perché autori come lui, dediti a esplorare gli aspetti meno comuni dell'esperienza quotidiana, le fissazioni, le assenze e gli abbandoni, così attenti e coscienziosi nei confronti del lettore, sono un bene piuttosto raro. ( Giulio Artusi, Da LN vecchia serie n° 31, dicembre 1994)

Locus Animae

Passigli 1999
Continuerò con un libro che, probabilmente, avrebbe dovuto trovare posto nelle pagine della rubrica dedicata alla letteratura del soprannaturale. Viceversa è toccato a me, che non sono altrettanto ferrato in tema di scienziati pazzi, invasamenti e lugubri laboratori abbandonati. Ma il libro era meritevole e quindi non ho sentito la necessità di girarlo a Carmilla e Failù. Anzi.

Locus Animae di Alessandro Defilippi, Passigli editore, è un appassionato (e appassionante) omaggio alla letteratura gotica, una rivisitazione incisiva che sfugge al gioco/trappola della letterarietà .

L'ho letto in un pomeriggio di caldo africano, su un treno ultraaffollato di ritorno dalla riviera e per due ore circa sono stato altrove, in una Roma autunnale, cupa e fredda come una metropoli del Nordeuropa, sospeso tra l'inizio e la fine del secolo, in compagnia dei benevoli fantasmi del dottor Viktor Frankenstein e del dottor Henry Jeckyll. E anche soltanto per avermi procurato una fresca parentesi l'autore si merita tutte le mie benedizioni.

Protagonista del libro è un docente universitario dell'ateneo torinese, un accademico di Medicina giunto al vertice della carriera, con alle spalle un matrimonio da poco fallito e una relazione senza futuro con una giovane collaboratrice.

Ma il professor Riccardo Gribaudi non vive solo di miserie accademiche e di sterili passioni presenili. Sta infatti lavorando da tempo a una biografia di Irving Kastner, un allievo di Freud che aveva compiuto studi sul rapporto tra sistema nervoso centrale e sistema endocrino, suicidatosi in circostanze poco chiare. Un congresso a Roma si prospetta come l'occasione per consultare nuove fonti e per arrivare finalmente a un chiarimento con la giovane amante.

È il caso di dire che le ricerche biografiche di Gribaudi hanno un successo davvero eccessivo. Egli si trova ben presto in possesso di una quantità di informazioni sulla vita privata e sulla follia di Kastner da mettere in pericolo il suo stesso equilibrio mentale.

In un crescendo di allucinazioni, apparizioni, possessioni, Gribaudi ricostruisce, meglio rivive, le ricerche di Kastner fino all'epilogo, decisamente rivelatore.

Non è perfetto, Locus Animae, soffre, come molti altri romanzi dello stesso impianto, di scompensi tra le promesse della prima parte e gli esiti della seconda. Agli interrogativi sollevati, infatti, e alle suggestioni di un percorso serrato verso la follia difficilmente si può far fronte con una serie di argomentazioni razionali, che non arrivano comunque a esaurire la vastità dei temi evocati. Il romanzo gotico, un affascinante percorso narrativo che narra la sconfitta di un orgoglioso razionalismo scientista da parte di un'oscura forza mistica, finisce spesso per deludere proprio nella raffigurazione piana e razionale dell'ineffabile, del caotico id (termine che rubo volentieri al film Il pianeta proibito di F.Wilcox), ossia di ciò che da bambini avremmo definito il Babau.

Ma la delusione connaturata al gotico è qui ben contenuta; non solo: nelle ultime pagine Defilippi "rilancia" con una potente suggestione ontologica che suggerisce la fondamentale identità tra Dio e il maligno.

Uno dei temi essenziali della gothic novel, ovvero il senso del peccato collegato all'attrazione sessuale, viene affrontato da Defilippi con un taglio particolare, sottolineandone apertamente le valenze omosessuali maschili - da rileggere la prima "apparizione" a pagina 118 - ossia ciò che nei romanzi d'epoca non poteva essere neppure sottinteso.

Curiosa e ricca di riferimenti narrativi e cinematografici la ricostruzione del laboratorio di Kastner e della sua prassi scientifica, come pure la delirante grandezza dei suoi propositi che richiamano immediatamente le nobili imprese scientifiche (punite con la morte o la follia) dei personaggi letterari di Mary Shelley e di Stevenson.

La sensibilità scientifica di Defilippi, tuttavia, è quella di un moderno e non è paragonabile a quella, venata di positivismo, degli autori classici del gotico. Nel romanzo, infatti, si coglie, in contrasto, l'anonimato della scienza contemporanea, la stanchezza per i vuoti rituali universitari, si racconta del timore e della ritrosia davanti agli interrogativi di fondo della ricerca.

In quanto allo stile si può dire, come per gli arbitraggi più efficaci, che non se ne avverte la presenza, tanto più che Defilippi evita intelligentemente di aggiungere al ricercato anacronismo della vicenda un inopportuno anacronismo del linguaggio.

Se non l'avete già letto quest'estate, leggetelo adesso. L'ambiente autunnale vi regalerà qualche brivido in più. (Giulio Artusi, da LN 11, autunno 1999)



Angeli

Passigli, 2002

(da Torino, pag 136)


Torino, autunno 1938.

Oggi Collegno è un comune della cintura torinese ma in passato, a Torino, era il nome che evocava follia e demenza, malattie mentali forse inguaribili, stati da nascondere e tacere, infelici relegati nell'antico convento adibito nell'Ottocento a ospedale psichiatrico. È proprio dal vecchio edificio che, avvertite soltanto da pochi predestinati, si irradiano manifestazioni psichiche e visioni intollerabili che spingono gli "eletti" ad accettare senza resistere una morte sanguinosa. L'epidemia dei suicidi ha colpito in precedenza altre città europee e le autorità, non soltanto italiane, tentano di venire a capo del mistero tenendo all'oscuro la stampa di regime.

Perno occulto della vicenda è Il libro di Enoch, un antico testo apocrifo, non accettato nel canone biblico e ammesso soltanto dalla Chiesa Copta, che narra la caduta degli angeli che si unirono alle donne umane e, come Prometeo, insegnarono all'umanità le arti, la scienza, l'artigianato. Il libro era composto originariamente da cinque volumi ma uno, Il libro dei Giganti, è andato perduto; conteneva rivelazioni terribili che, divulgate in un momento così oscuro della storia europea, potrebbero privare l'umanità di ogni speranza nel futuro e nella vita eterna.

Per motivi differenti, i regimi fascista e nazista e le gerarchie ecclesiastiche vogliono impadronirsi del libro dei Giganti. Poche persone diversissime tra loro vengono coinvolte nella ricerca dal caso, dagli ordini ricevuti, dalla sorte che li ha resi sensibili all'atmosfera oscura che grava sulla città: un sacerdote colto, antropologo e viaggiatore, ormai pieno di dubbi sulla natura del suo Dio; un giovane maggiore delle SS che detesta la propria divisa; uno psichiatra dalla promettente carriera universitaria che è tornato in città per cercare il padre sparito da più di vent'anni; una giovane donna tormentata da sanguinose premonizioni sull'apocalisse nazista che incombe; sua sorella…

Una scia di morti incomprensibili e segnate da un rituale macabro e feroce guida il gruppo sulle tracce di presenze occulte, ultraumane, possenti e inafferrabili, apparentemente empie e malevole verso l'umanità…

Sullo sfondo, ma nitida fin quasi a diventare comprimaria, una Torino riconoscibile ma mai ostentata, severa, avara di sé e un po' provinciale come realmente era e come in parte è restata, nella quale convivono senza disprezzarsi e senza fraternizzare i circoli operai e i salotti delle vecchie famiglie, l'unica vera borghesia torinese, ambienti esclusivi e zone franche nelle quali, con l'attenta regia di abili padrone di casa, possono ancora sedere alla medesima tavola enigmatici SS, arroganti gerarchi fascisti in carriera e qualche ricco ebreo che, senza comprendere, si annovera tra "i più fieri sostenitori del Duce". Una Torino che non si concede, lungamente diffidente verso gli estranei ("i meridionali", "i marocchini", "gli albanesi"…), una Torino abitudinaria che allora rivendicava con orgoglio lontane origini francesi, dove la governante di qualche vecchia parente poteva chiamare con naturale sussiego "concierge" la portinaia e dove parlare in torinese non era (e non è) esprimersi in dialetto ma praticare un'arte antica, oggi a rischio di estinzione. Una Torino esoterica e insieme piccina e soffocante.

Complesso da riassumere ma avvincente e scorrevole alla lettura, Angeli è un testo raffinato, leggibile a vari livelli, che mescola le caratteristiche di molti sottogeneri del fantastico: il gotico, il giallo di indagine, la favola (dalla quale prende a prestito il tema della compagnia eterogenea che conduce "la cerca"). Il regista Roberto Faenza, in quarta di copertina, lo presenta giustamente come un "romanzo cinematografico" per il ritmo incalzante e la vividezza delle immagini. Ma Angeli resta un romanzo intensamente letterario, che cita e richiama senza arroganza altri testi di genere e non, e che – come il gotico ottocentesco – avvicina i grandi temi della letteratura e della filosofia, quelli più trasgressivi: l'amore e il piacere, il potere e la conoscenza senza limiti, la vendetta e il godimento per la sofferenza altrui, la natura ultima del reale e dell'anima.

Per essere all'altezza dei classici non basta imitarli, occorre rinnovarli, procedere oltre. Angeli ci riesce, esplorando la dimensione collettiva dell'anima umana e della Caduta; è un romanzo intensamente mistico che della mistica sa esplorare la dimensione politica. (Carmilla)

(Carmilla, da LN 23, autunno 2002)
















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