Fata Morgana. Concorso letterario

Fata Morgana 11. Introduzione
Fata Morgana 11. Introduzione

Musica
note, pause, silenzi

La musica esprime ma non dice. Non afferma né dichiara. Risveglia, piuttosto, evoca, suggerisce. Come un profumo o un riflesso di luce può cancellare il tempo e rendere di nuovo presenti e vivi ricordi che si credevano dimenticati.

Musica e libertà formano un binomio inscindibile che certamente non è stato inventato nel XX secolo. La musica diviene ascesi e veicolo per nuovi stati di coscienza da quando l'umanità esiste, spesso accompagnata – con buona pace di bourgeois e alti prelati – dall'uso di sostanze atte a rendere tali stati di coscienza più vividi.

Ma la musica può essere addomesticata e divenire così blanda, innocua e commerciabile, essere resa complice di massacri – i tamburi negli eserciti del XVIII e XIX secolo avevano la funzione di sovrastare le urla dei feriti e i rantoli dei morti –, collaborazionista e guerrafondaia. Può stimolare alla lotta, allo scontro, alla furia incontrollata.

La musica è un cerchio senza interruzioni sul quale sono contigue le pulsioni animali e le percezioni più immateriali e trascendenti. Se è possibile pronunciare la parola «anima» in riferimento alla nostra specie è molto probabile che la sua espressione sia musicale.

La musica è una vibrazione armonica, un ritmo percepibile. A produrre ritmo, quindi musica, sono gli oggetti e le creature più disparate – dai quasar alle balene, dai contatori Geiger a un gruppo garage –, ma il ritmo, come il linguaggio binario, è basato su due elementi fondamentali: la vibrazione (la nota) e il silenzio. E l'attesa della prossima vibrazione è qualcosa di diverso dal semplice silenzio: è una pausa.

Per questa edizione di Fata Morgana abbiamo tentato una strada difficile, forse impossibile. Abbiamo avuto l'idea insana di tentare di restituire attraverso il linguaggio scritto non tanto l'esperienza musicale quanto l'intreccio di emozioni, ricordi, sogni e passioni che questa può suscitare. Mettere a fuoco il senso dell'attesa di una successiva vibrazione e il silenzio come assenza ma anche come ingorgo senza esito di possibili significati. Come in un romanzo di Helmut Krausser recentemente uscito – Melodien – eravamo alla ricerca di qualche frammento di uno spartito «definitivo» che trascrivesse i ritmi e delle pause della realtà.

Che l'impresa fosse pericolosamente superba e il tema ostico per molti l'abbiamo dovuto constatare dalla sensibile diminuzione del numero di brani giunti alla giuria del concorso. A nostra consolazione, tuttavia, il fatto che chi ha accettato la «sfida» l'abbia accettata fino in fondo e che, a differenza delle precedenti edizioni, il numero di testi di un qualche valore fosse proporzionalmente molto più alto.

Alla fine ne abbiamo scelti quattro per la pubblicazione e altrettanti ne abbiamo segnalati, sentendoci almeno un po' come Zero Mostel e Gene Wilder nel film Per favore non toccate le vecchiette!, stanchi, scarmigliati, con gli occhi rossi e in mano un dattiloscritto a dirci: «Anche questo è decente… Ma sono diventati tutti William Shakespeare?».

In questa Fata Morgana, come è ormai diventata una buona abitudine, compaiono anche alcuni autori stranieri. Tre autori giapponesi – Ekuni Kaori, già apparsa in Fata Morgana 10, Colori, profili, ombre, sospetti con un racconto tenue e amaro: Il solco, la scrittrice Miura Shion e lo scrittore, regista, musicista e fotografo Tsuji Hitonari – e uno cinese, lo scrittore e saggista Wu Yan, il cui racconto, Mousepad, è stato tradotto da Federico Madaro, titolare della libreria «Mangetsu» di Torino.

A fare compagnia a questi ultimi e ai premiati alcuni «ospiti fissi» dell'antologia quali Cettina Calabrò, oltre che scrittrice, autrice delle fotografie che accompagnano i testi della collana «N&D» di CS_libri, Adolfo Marciano, Mirella Nicola, Fabio Lastrucci, Andrea Rossi e Marilde Trinchero e la pattuglia degli «anfibi» divisi tra ALIA e Fata Morgana, cioé il sottoscritto, Massimo Soumaré – presente anche in veste di traduttore dal giapponese – Davide Mana e Silvia Treves. A darci manforte con un suo testo inedito, infine, Francesca Ortenzio, redattrice della rivista telematica «Rudi Mathematici».

È buona norma dell'introduzione a un'antologia presentare brevemente i racconti pubblicati, anche se – a rigore – dal momento che l'ipotetico lettore starà leggendo queste righe su una copia di sua proprietà, non avrà bisogno di ulteriori chiacchiere ma soltanto di poter finalmente assaggiare i testi. Stando così le cose mi sembra opportuno non introdurre ma piuttosto commentare. Scrivere in sostanza ciò che bisognerebbe definire una postfazione e che, se fossimo le persone serie che non siamo, dovremmo inserire in coda all'antologia.

Non solo.

I commenti non saranno né equanimi né letterariamente corretti ma parziali e personali. Ho lavorato un bel po' all'antologia e credo sia giusto scrivere che cosa ne penso. Se, dopo la lettura dei racconti, avrete voglia di ritornare qui e confrontare i vostri pareri con il mio non avrò speso inutilmente il mio tempo. Se lo farete e deciderete che ho torto su tutta la linea e che ho preso lucciole per lanterne, io non lo saprò ma voi ne sarete comunque soddisfatti, dal momento che il pensiero di quanto siano pirla prefatori, postfatori e introduttori unisce tutti i lettori da quando esistono i libri. Se temete che sveli qualche particolare dei racconti, tanto che la lettura ne sarà sabotata… beh, non avete che da sfogliare qualche pagina e passare direttamente ai testi.

Stefano Mola, uno dei vincitori del concorso, ha scritto Precario equilibrio, una piccola storia di tono «minore» come si direbbe di uno spartito musicale. Senza nomi, sostituiti, come si fa nelle orchestre, con il nome del loro strumento. Una storia d'amore nata e germogliata tra Andanti, Presto e Adagio Cantabile, raccontata con un garbo e una misura invidiabili.

Il racconto di Alessandra Rosa, Non voglio magliette dei Misfits ha qualcosa di dickensiano. Non parlo dello stile, frizzante il giusto, ma del fatto che, come nel David Copperfield, il lettore voglia terminare il racconto nell'attesa che sia in qualche modo «fatta giustizia», ovvero che qualcuno – la protagonista, ovviamente – metta finalmente al loro posto gli Uriah Heep (non nel senso dell'omonimo gruppo musicale) di turno. Il fatto che questo puntualmente avvenga rasserena chi legge, anche senza togliere del tutto il gusto un po' amarognolo del racconto. Blues, di Bruno Bianco, lascia addosso la sorridente malinconia che suscita ripensare alla propria giovinezza e alle scemenze subite o combinate. Lo fa senza compiacimenti, reducismi o complicità, nel modo giusto, insomma. Conto alla rovescia di Piero Fabbri, last but not least nel poker dei premiati, è un flash nella vita di «un fisico matematico fallito». Racconto ricco di uno humour sapientemente trattenuto, dà il meglio di sé in un surreale dialogo tra il protagonista e una collega. Un dialogo fatto di tempi perfettamente scelti e di piccoli e grandi equivoci. Una paginetta che, da sola, racconta un'esistenza.

Né sicuro né adatto per nuotare di Ekuni Kaori (grazie alla pubblicità Kaori è uno dei tre o quattro nomi propri giapponesi che chiunque conosce) più che un racconto di undici (11) pagine è un vero miracolo. Riesce infatti, con poche parole e qualche immagine attentamente scelta, a restituire il sapore di una vita. Come promesso non sarò equanime né corretto: amo il racconto e ne venero l'autrice. Nient'altro da segnalare. Frammento d'osso di Miura Shion è uno di quei racconti che suscitano quasi automaticamente il pensiero: «questo l'ha scritto un giapponese». È un racconto con un tema «sconveniente» (niente di pornografico, non correte subito a leggerlo) ma dotato di una sconcertante leggerezza. Non si dimentica tanto facilmente… Un'immagine potente ed evocativa è al centro de Il sogno nel dormiveglia di Tsuji Hitonari, un'immagine che è contemporaneamente sogno e ricordo, un «sogno del dormiveglia». Un racconto fatto di piccole e grandi attese, pause di un ritmo che ci è nascosto.

Completamente diverso spunto, tema e ispirazione di Mousepad di Wu Yan, uno dei maggiori scrittori cinesi di fantascienza. Può un semplice e banale accessorio diventare strumento di liberazione e di felicità? Wu Yan fa finta di crederlo e chiede al lettore di essere suo complice, una complicità che la divertita vivacità del racconto rende praticamente scontata.

Dalle cinque alle otto di Cettina Calabrò è un racconto sorprendente. Inizio ambiguo, lo so. Sorprendente può voler dire «deludente» come «bizzarro». E invece no. Sorprendente significa che da Cettina non mi sarei aspettato la cronaca di un'autosegregazione urbana, ll racconto puntualmente inquietante di una frattura che si propaga, inesorabile come un cerchio nell'acqua. E ci arriva gradualmente, Cettina, lasciandoci credere sia soltanto lo sfogo amaro dell'ennesima desperate housewife…

Il racconto di Adolfo Marciano, Senza parole, ha la breve durata e l'allegra leggerezza di una bolla di sapone. La sceneggiatura essenziale di un equivoco che può essere la fine anticipata ma anche l'inizio di una lunga storia. Mirella Nicola, adesso, con Flamenco!, racconto morbidamente perfido come solo lei sa scriverne. Marzia, Irina e Gigi protagonista e comprimari di una storia che si potrebbe anche raccontare in poche parole ma che narrata da lei assume colore, sostanza e pepe. Molto pepe.

Del racconto di Fabio Lastrucci, Larve, dirò soltanto lo stretto necessario. Non per celarne qualche inconfessabile difetto ma semplicemente perché è un brano a suo modo perfetto, scritto con il ritmo giusto per l'ambientazione scelta – una discoteca – e efficace nel graduare la crescente sensazione di orrore. Ma anche un godibilissimo divertissement per gli amanti di Brahm Stoker e di H.P.Lovecraft. Sorprendentemente (…e due! Si vede che questo FM ha allentato diversi bulloni e sollevato più di una botola) aspro ed enigmatico La bottiglia di Amos Casarsa di Andrea Rossi, il tipo di racconto che crea interrogativi destinati a rimanere senza risposta e stimola inquietanti riflessioni. La sensazione che mi ha lasciato è di una fitta trama di menzogne circolarmente ripetute che trabocca dalla pagina e rischia di sedurre il lettore. La stessa che domina il protagonista, proprio come un incantesimo o una maledizione. Non troppo diverso il «colore» del racconto di Marilde Trinchero, Notte, lo «studio in grigio» di una vita possibile e verosimile, la confessione di una sofferenza – scandita dalla frase sempre uguale che apre ogni paragrafo – che è probabilmente il solo vero peccato originale della nostra specie.

La danza della scimmia è il mio racconto e in proposito posso soltanto denunciare le mie intenzioni. Volevo scrivere un calco vittoriano basato su Lo strano caso del Dr. Jeckyll e Mr. Hyde di Stevenson… Il che fa automaticamente di me un povero illuso, lo so. E nel contempo volevo esprimere la mia sofferenza (e insofferenza) per tutti i mortiferi jingle che ammorbano il nostro universo sensoriale, attaccandosi inestricabilmente ai nostri poveri neuroni. Se anche il racconto non è granché, farete comunque fatica a darmi torto. Il che è già qualcosa.

Il racconto di Massimo «Maz» Soumaré, Maboroshi - Visioni d'estate, possiede l'ambiguità dei racconti nati per rimanere esattamente in equilibrio tra il fantastico e il reale. Si può leggere come la malinconica ammissione di un fallimento esistenziale o come la beffarda vendetta del soprannaturale nei confronti di chi ha tradito i propri sogni in cambio di poco o nulla. È bene comunque sapere che lo stile, accuratamente ambiguo, non permette facili scelte…

La quarta scimmietta di Davide Mana ha l'apparenza di un noir dalle sfumature patologiche. L'ambientazione – la California della fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta – è quella giusta e perfetta è l'onnipresenza dei media. Senonché man mano che si procede nella lettura le incongruenze, le imprecisioni, le fratture si sommano e si moltiplicano spostando gradualmente il lettore da un passato noto e familiare a uno dei tanti possibili contropassati prossimi che abbiamo probabilmente evitato per un soffio. Un racconto a orologeria che merita il surplus di attenzione che richiede.

L'ultima finesta del cubo, di Silvia Treves può anche passare per una storia di fantasmi. Particolarmente ingegnosa, d'accordo. Inconsueta, va bene. Basata su un'ambientazione che ricorda Magritte molto più di quanto ricordi M.R. James, come no. Ma sempre una storia di fantasmi. Già. Ma costruita con un'economia di mezzi e una sapienza di costruzione che possono anche disturbare o addirittura irritare quelli come me o come Piotr (non posso dire pubblicamente di chi si tratta, ma potete sempre venire fin qui a chiedermelo) che non sono poi troppo sicuri del proprio talento narrativo.

Osservazioni aggiuntive all'esplorazione di Francesca Ortenzio è il tipo di racconto metafantascientifico che temevo ormai morto e defunto e che invece ritorna episodicamente a rivivere, sornione e paradossale come certi scritti di Swift e saggiamente assurdo come gli apologhi più graffianti. Un omaggio a Fata Morgana che abbiamo molto apprezzato e che siamo certi sarà apprezzato anche dai nostri lettori.

Narrativa e musica condividono un elemento essenziale: il ritmo.

A questa Fata Morgana potrete certamente rimproverare molti difetti, accusarla di essere poco armonica o carente di affiatamento. O dichiarare che non siete riusciti a «fare l'orecchio» ad alcuni racconti. Ma non potrete dire che manchi di ritmo, di concentrazione o di suggestioni.

Una Fata Morgana che è più di un'antologia.

Praticamente, un festival.

Massimo Citi



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