Alia06




ALIA 2006




Se il «fantastico» è un prato selvatico
di Vittorio Catani


Renato Pestriniero, veneziano «verace», autore di Quelli dei quadri, è uno dei fondatori della sf italiana. Incominciò a pubblicare racconti nel 1958 su Oltre il cielo. Si trattava di un quindicinale dedicato a missili e razzi (erano anni di guerra fredda e di «corsa allo spazio» da parte di Usa e Urss), e con lungimiranza e apertura mentale la rivista volle inventarsi una sezione dedicata alla fantascienza scritta da autori italiani.
La fantascienza (science fiction) moderna, nata sulle riviste statunitensi degli anni venti, era stata introdotta in Italia nel 1952 soprattutto tramite le collane «Urania» e «I romanzi di Urania» (Mondadori). Presto numerosi lettori del nuovo genere narrativo vollero a loro volta cimentarsi nel campo. Tra i nomi che ottennero risultati di rilievo, ci fu appunto Renato Pestriniero.
Era tutt’altro che facile rielaborare in chiave nostrana temi, stili, strutture, di una narrativa «straniera» che, per quanto di origini popolari, aveva avuto modo di evolversi tematicamente e divenire fortemente specializzata.
L’obiettivo - quasi spontaneo, si può dire - di Pestriniero, e di altri autori italiani, fu non di perseguire l’imitazione dei «maestri» d’oltreoceano (Asimov, Simak, Williamson, Van Vogt, e mille altri), ma tentare la reinvenzione d’una fantascienza ancorata alle nostre ambientazioni, figlia della cultura letteraria del Vecchio Continente. Fra l’altro gli scrittori americani mostravano una preparazione scientifica, una padronanza dei «luoghi» della narrativa popolare, una capacità fantasticatrice, di estrapolazione sociale su temi tecnologici, cui noi (nazione ancora prevalentemente agricola) non eravamo avvezzi, né preparati; quella narrativa giungeva davvero «da un altro mondo». Quindi - era la conclusione - scrivere senz’altro science fiction ma ponendo lo spunto «futuribile» sullo sfondo, esaltando per contro le conseguenze sui personaggi. In tal modo si poneva l’accento sugli aspetti psicologico, sociale, etico, esistenziale, allegorico: caratteristiche alle quali, peraltro, la science fiction americana concedeva pochissimo spazio. Si cercava insomma una «via italiana alla fantascienza».
Non tutti gli autori (e i lettori, e gli editori) italiani videro di buon occhio questa soluzione. Molti scrittori ritennero di voler seguire più da vicino le orme dei maestri d’oltreoceano. Quanto ai risultati, vi fu del buono e del meno buono da una parte e dall’altra; ma indubbiamente - secondo il parere di chi scrive - una fantascienza italiana «alla Pestriniero» appariva più consona alle nostre corde, meno frutto di imitazioni, insomma più idonea a esprimere l’essenza del nostro immaginario. Sta di fatto che, per una serie di circostanze prevalentemente editoriali, una fantascienza del tipo non ebbe mai il modo di svilupparsi, maturare e imporsi. Anzi, a distanza di oltre cinquant’anni si può dire che una fantascienza italiana tout court non ha mai avuto modo di emergere dal suo ambito, sebbene annoveri autori e titoli di notevole interesse.
Un tipico esempio della fantascienza perseguita da Pestriniero ci è dato dal breve racconto che qui presentiamo, Quelli dei quadri (1972). Il lettore non troverà mirabolanti invenzioni o guerre intergalattiche, ma pennellate d’uno scenario futuro di degrado totale, «felicemente» sposato a una commercializzazione grottesca, umiliante, della memoria storica. Vera protagonista della narrazione è una Venezia molto diversa dall’attuale, eppure noi lettori odierni la intuiamo inquietantemente «vera». Pestriniero ha sempre mantenuto un rapporto privilegiato con il fascino antico e segreto della città lagunare, cui ha dedicato numerose storie di fantascienza e fantastiche.
Di Gianluigi Pilu, autore di Sabato mattina con Cole Porter, potrei dire, usando la classica espressione, che è passato come una meteora nei cieli della fantascienza e del fantastico nostrani. Fu scoperto da Curtoni con un racconto su Robot (prima serie, 1977). Le sue storie - una ventina o forse meno, apparse fino al 1989 - hanno lasciato un segno; c’è solo da rammaricarsi - per i lettori - che successivamente Pilu si sia dedicato a tempo pieno al suo lavoro, peraltro di notevole importanza e interesse: medicina fetale. Quanto a Sabato mattina con Cole Porter, è un breve testo che apparve nel 1981 su una rivistina sconosciutissima. Non c’è in queste pagine alcun evento eclatante, pure allorché lessi questa storia la prima volta, «mi prese allo stomaco». Credo anche che questo racconto sia stato tra i precursori di una moda esplosa più di recente.
Il falcone marziano, di Riccardo Valla e Diego Gabutti, è un’intelligente e divertente parodia della fantascienza e del fascismo. Per chi non sia addentro alla materia, vorrei sottolineare che alcuni dati sono reali: i personaggi Isaac Asimov (descritto ai suoi esordi) e John Campbell (editore della rivista Astounding, che ebbe un’importanza fondamentale nella storia della science fiction) corrispondono esattamente ai personaggi veri; come pure è realissimo il racconto di Asimov «incriminato» (il titolo italiano è Esseri superiori, 1942; uno dei primi della sua serie sui robot). Anche l’ambiente dell’editoria fantascientifica statunitense dell’epoca - benché appena accennato - è ripreso dal vivo; felice la contaminazione con l’universo narrativo di Dashiell Hammett. Questa storia fu pubblicata nell’antologia Fantafascismo! (2000), curata da Gianfranco de Turris. Quanto ai due coautori: Valla opera professionalmente nel campo della fantascienza da circa quarant’anni quale curatore, prefatore, critico, traduttore (per conto di editrici di fantascienza e non: Mondadori, Nord, Bollati Boringhieri). La sua eclettica cultura, che include fra l’altro letteratura, scienza, fantascienza, politica e opera lirica, e il suo spirito tra il bonario e il sarcastico, ne hanno fatto una sorta di mito nell’ambito della fantascienza. Ultimamente su www.carmillaonline.com è apparso un suo racconto-parodia a puntate, Il coccige Da Vinci. Quanto a Gabutti (giornalista, critico, scrittore), resta famoso il suo volume di saggistica Fantascienza e comunismo (1979). Valla e Gabutti stanno scrivendo due romanzi ambientati nello stesso universo de Il falcone marziano (rispettivamente La primavera del mondo e Gli assassini del chiaro di luna).
Il racconto di Danilo Arona Jack di paglia è esemplare delle caratteristiche di questo autore: una scrittura smaliziata e una notevole personalità di «narratore di storie». Anche Arona è attivo da un bel po’ nel settore della fantascienza (1979): incominciò con articoli, saggi, poi libri, quale esperto del cinema fantascientifico, horror e fantastico in genere. Data da tempi più recenti invece la sua felice vena di scrittore. Al riguardo si segnalano le Cronache di Bassavilla, che appaiono frequentemente su www.carmillaonline.com e propongono - tra fantastico e mistero - angoli ambigui, negletti, talora violenti, della provincia italiana.
Vittorio Catani, alias il sottoscritto, è un altro dei... «giurassici» presenti in questa sezione. Il breve L’area 52 sembra suggerire che «un mondo migliore è possibile», ma forse dista anni luce dal nostro. (Il racconto è tratto dall’antologia personale Chimere senza tempo, contenente dodici storie dal 1972 al 2005; su www.librinuovi.info c’è una recensione di Massimo Citi, che si diffonde anche sulla fantascienza italiana in genere).
Gianluca Cremoni («Kremo») è il poliedrico autore di Ghiaccio mauve (il titolo si riferisce a una droga e riecheggia il celebre romanzo Giaccio nove di Kurt Vonnegut). La storia si svolge in una futura società degradata, scenario che mescola elementi cyber e orwelliani con tratti di originalità nel tema e nella scrittura. È in corso un ampliamento a romanzo.
Nel 1995 Kremo ha fondato la KOL (Kipple Officina Libraria), che ha dato vita a numerose iniziative: nel 2000 ha varato la notevole fanzine Avatar, che in alcuni fascicoli includeva Cd-rom di musica elettronica e industriale; è seguita la creazione di collane di libri dedicate non solo al fantastico. Si sono realizzati reading con musica, portati in varie città; produzioni multimediali (video-letteratura-immagini- musica: l’artista è scrittore, poeta, ma anche musicista, attore, esperto in computer, o viceversa); è stato perfino... fondato uno stato: Nazione Oscura. Il tutto in puro, provocatorio spirito «connettivista» (il Connettivismo, che in parte eredita da situazionismo e futurismo, tende a una sintesi fra arte e nuove tecnologie dell’informazione). Notizie più esaurienti su www.kipple.it.
Mario Giorgi vinse nel 1993 il Premio Calvino con un romanzo pubblicato da Bollati Boringhieri, Codice. Seguirono i romanzi Biancaneve (1995) e Sulla torre antica (1998), nonché testi teatrali e radiofonici. Il racconto che qui presentiamo, Configurazione alieno, ci trasporta in un universo immaginifico decisamente personale. Le pagine sono una sorta di futuribile relazione tecnico-scientifica su inverosimili eventi di resurrezione umana, con successive mutazioni dei corpi. Invenzioni e giochi linguistici accrescono il senso di alienità della storia. Se mai il fantastico riesce a essere al contempo grottesco, onirico, carico di mistero, inquie-tante - in quanto distruttore di certezze basilari - è questo il caso.
E il mistero, o comunque il dubbio sul mistero, è anche la sostanza del racconto Il trucchetto di Olindo di Fabio Lastrucci, nome già noto ai lettori delle edizioni CS Libri. Olindo è un vecchio pazzo che gira stranamente agghindato per assolate strade ferraresi, additato tra sorrisetti e sberleffi, ma attenzione: quando ne ha piene le scatole, lui tira fuori «il trucchetto», che però «è così: un’apocalisse veloce-veloce, mica il Crepuscolo degli Dei». Ma voi che siete lì non potrete saperlo...
Rimarchevole l’uso del linguaggio. Lastrucci scrive, disegna, è scultore, autore di testi teatrali, di fumetti. Vedasi su www.metaluna.it.
Con Il melo, lungo racconto di Silvia Treves, siamo a uno dei titoli più personali e complessi della sezione. Il tema è affascinante e oggi, direi, poco frequentato narrativamente; o comunque trattato un po’ «a senso unico», in quanto condizionato dalle impellenti tematiche ecologiste. Mi riferisco al rapporto fra specie umana e mondo vegetale. Nella storia, protagonista incombente è un albero - il melo del titolo - unitamente a due personaggi umani. Uno di questi ultimi, nelle pagine iniziali, pronuncia una frase significativa: «Vorrei sdraiarmi e lasciare che le foglie mi coprano, mi scaldino, mi sciolgano lentamente sino a trasformarmi in terra». Il racconto è la progressiva scoperta di un mondo alieno che abbiamo sotto gli occhi ma di cui non ci accorgiamo. Forse i tempi che attraversiamo sono inadeguati, sono ciechi, per farci comprendere anche questa «diversità»: accanto al nostro, esiste un universo spietato, ma ricco di una ricchezza insospettabile, «un mondo lento di sorelle verdi che sopravvivono a se stesse e al tempo, dove la vita è acqua e luce, e ciò che vive muore ma non va perduto». Da sottolineare, come sempre, la scrittura precisa ed evocativa, il «montaggio» incalzante verso la soluzione di un mistero che si può solo intuire, o nel quale ci si può perdere; l’accenno al mito tutto «nostro» di Filemone e Bauci. Per pura associazione di idee la memoria mi conduce a opere note e meno note di Ursula LeGuin, nei quali il mondo vegetale ha un ruolo basilare: il romanzo Il mondo della foresta, e il racconto Più vasto degli imperi e più lento. Non sarà un caso se proprio un’epigrafe della LeGuin precede il racconto di Silvia Treves.
Di tutt’altro genere e diversa impostazione la storia che narra Davide Mana, Buran. La parola russa significa - viene spiegato - «tempesta di neve» (avrà un’etimologia comune con «buriana», che pare derivi da «borea»?) A ogni modo «Buran» è un tipo di navetta spaziale già sperimentata negli anni Ottanta. A mio avviso, in questa storia l’autore riprende a suo modo quella che può essere considerata una tematica-madre della fantascienza moderna: l’avventura astronautica. Eclatante, ottimistica e un po’ ingenua su riviste di science fiction quali Amazing Stories o la citata Astounding. Ma ottant’anni non sono trascorsi invano: oltre l’avventura spaziale, rivisitata e aggiornata in modo personale, s’intravvede in rapide pennellate il degradato scenario sociale che forse ci aspetta, e nel suo insieme Buran è un «pezzo» pirotecnico per scrittura, struttura, inventiva, reinvenzione. Con in più un finale... controcorrente, che lascia intravvedere una speranza.
Con Sul fondo del mare, Massimo Soumaré crea una sorta di elaborato pannello che alterna sensazioni limpide e soavi a scatti di orrore e di pura ferocia. Siamo in un contesto che, come di solito per l’immaginario di Soumaré, attinge a miti e antiche favole del Giappone. Stavolta si narrano le vicende di Shihuangdi, spietato imperatore del Paese di Mezzo e di Sakata No Sokune, ucciso in una cruenta battaglia ma che risuscita per portare a fine una particolare storia d’amore. Un contesto, un’ambientazione, nel quale l’autore si muove del tutto a suo agio.
Quanto a Un rifugio a Baba Yaga di Massimo Citi, si tratta anche in questo caso di un breve racconto, quasi un flash, che riprende ambientazioni e creature di un universo già noto al lettore, comune ad altre storie dell’autore. Le vicende si svolgono su mondi stranissimi, lontani, riuniti in (o divisi da) federazioni di dimensioni galattiche, abitati da bizzarre forme di vita locali, da esseri umani, e da creature (i tranx) che sono umani incrociati geneticamente con animali (o viceversa). Questi ultimi hanno accettato i loro habitat alieni e tendono a difenderli gelosamente, a qualunque costo. Come accade in Un rifugio a Baba Yaga. Storie che smuovono sentimenti di appartenenza, richiamano il sempre più raro ma ineliminabile (per fortuna) sense of wonder della fantascienza, e si segnalano - come in questo caso - per l’ingegnosa invenzione fantastica, e il gusto d’una sorta di folklore locale espresso in una serie inesausta di varianti.
Concludo con una delle storie più belle e intense della raccolta, Il sogno di Federico di Alessandro Defilippi. Credo che Defilippi sia una delle collaborazioni più felici per le edizioni CS Libri. Il sogno di Federico, come lascia intuire il titolo, è basato su un personaggio storico, la cui biografia conserva vasti tratti di mistero: Federico II di Svevia. Per me, che vivo in Puglia da una vita, Federico - con i suoi pregi, i suoi difetti, la sua corte punto d’incontro con le tradizioni greca, araba ed ebraica, le tracce della sua permanenza nel sud (in primis il celebre enigmatico castello, a Castel del Monte) - è una sorta di mito. Ma non credo d’essere di parte, se ritengo il racconto (onirico, simbolico, borgesiano) particolarmente riuscito.
Vorrei chiudere con un paio di considerazioni generali, suggeritemi da recensioni di ALIA lette qua e là. Credo che una raccolta di racconti (fantastici), specie se breve (com’è per la sezione che mi compete), debba cercare di avere - e i lettori saranno giudici - anzitutto un ovvio requisito: non far rimpiangere il tempo speso nella lettura; possibilmente lasciare una traccia. In secondo luogo, credo sia il caso di rendere una simile sezione variegata: nei temi, nella scrittura, nelle atmosfere. Perché il fantastico è inesauribile, non imbrigliabile, e mi sembra bello che esso possa presentarsi nelle forme e nei generi narrativi più disparati. A parte tali considerazioni, non penso sia comunque il caso di organizzare raccolte a tema, anche per motivi pratici. Per esempio: il tema dovrebbe in ogni caso essere molto generico, altrimenti al terzo racconto il lettore già prova un senso di saturazione; oppure: la raccolta di storie tematiche implica una ricerca lunga e onerosa, e dai controversi risultati, posto che non tutti gli autori si sentono di scrivere su ordinazione; e i tempi e modi di ALIA non lo permettono. Ma soprattutto vedo - almeno nelle mie intenzioni - la sezione affidatami come una sorta di prato «spontaneo», selvatico, nel quale inoltrarsi ammirando la varietà floreale (ammesso, ripeto, che il gioco riesca): a chi può non piacere la festosa confusione di colori in un prato fiorito? È questa la mia idea, almeno per ora.
Dopo l’immagine... primaverile, il secondo punto. Vorrei sottolineare - e credo che l’editore sarà d’accordo - che ALIA non ha problemi di spazio: d’altronde lo attestano le dimensioni dei volumi. Quindi, nella sezione italiana di ALIA c’è posto per tutti: almeno finché va così. Per tutti coloro che vorranno proporsi, e - ovviamente - che a nostro avviso ci diranno (fantasticamente) qualcosa di buono. Felice lettura!