ALIA 2005

Introduzione alla sezione US, UK e dintorni
di Davide Mana



È passato un anno, e siamo da capo.

Ricordo, durante una delle iniziali riunioni editoriali e, più tardi, quando il primo volume di alia venne presentato ai coraggiosi che sfidarono le intemperie dell'inverno torinese, la facilità con la quale tutti coloro che erano coinvolti iniziarono a usare, per la nostra antologia a venire, la metafora della mappa.

Alia sarebbe stata una mappa.
Una mappa per esplorare il fantastico.
E per esplorare, a ben guardare, tre fantastici molto diversi, tre continenti, tre luoghi, lontani culturalmente e storicamente forse più di quanto noi stessi non avessimo immaginato.
Teniamoci stretta questa metafora.
Continenti diversi richiedono guide, mappe diverse, diversi compilatori.

Vittorio Catani, impareggiabile editor della sezione italiana, si accollò a suo tempo il lavoro di cartografare Atlantide. Come l'Atlantide, il fantastico italiano è qualcosa di favoleggiato e di vagamente intuito, che forse non è mai esistito, o forse è sprofondato da millenni in un oscuro mare di oblio. E lo immagino con una certa facilità, il nostro Vittorio Catani, coinvolto in un dialogo platonico sul fantastico italiano con un barbuto filosofo greco.

Massimo Soumaré, coraggioso curatore della sezione nipponica, venne paracadutato nel cuore del continente nero, a cartografare un luogo del quale tutti sanno, in qualche modo, qualche cosa, le cui mercanzie vengono spesso esposte nei nostri bazar, ma che per la gran parte rimane avvolto dalle nebbie del mito. E mi piace pensare al mio vecchio amico Massimo come a una sorta di Allan Quatermain del fantastico giapponese, l'unico occidentale di cui gli indigeni si fidino, pronto ad aprire un sentiero in aree finora mai battute. Ungawa!

Dal canto mio, io venni scaricato in centro a Firenze, con un biglietto del tram, una guida del Touring Club e un post-it giallo su cui era scarabocchiato «Facci vedere qualcosa di nuovo!»

Come se fosse facile.
A Firenze ci sono stati tutti.

E il fantastico anglosassone è così frequentato, così inflazionato, così straripante, che per molti è l'unico fantastico possibile. L'offerta è enorme e accessibilissima, perché il linguaggio del fantastico è ormai, per la maggioranza, il linguaggio del fantastico made in USA.

Per trovare qualcosa di nuovo, si poteva solo fare affidamento sull'istinto.
È passato un anno, e siamo da capo.

Ora, una sagoma spettrale e malandata si aggirava, ricorderanno i lettori più assidui, per i bui corridoi dell'introduzione alla sezione anglosassone del primo volume di alia, in quel lontano e sbiadito passato. Evocato in veste di genius loci, improbabile versione «pulp» del Virgilio dantesco, il compianto Lin Carter fece sentire la sua presenza fantasmatica fornendo un criterio per la selezione dei racconti in quel primo volume.

Una base di partenza.
Un metodo.
Una semplice selezione di principî, che vogliamo ripetere in questa sede, per chi se li fosse persi: «titoli che dovrebbero far parte del bagaglio di esperienze di un appassionato, e che possano riuscire a sorprendere il lettore occasionale, che dal genere si aspetta determinati cliché; storie quindi non banali, che ridefiniscano il genere esplorandone i confini; e infine, storie che l'editoria nazionale abbia trascurato di rendere disponibili».

Ma il commercio con i trapassati, come sa bene qualunque frequentatore del fantastico, comporta un prezzo da pagare. E se Carter ci fornì un criterio di lavoro, d'altro canto il primo volume di alia, e la sezione anglosassone in particolare, ricevettero da parte di alcuni critici proprio lo stesso trattamento normalmente riservato, tanto in vita quanto post mortem al povero Lin Carter e ai suoi sforzi letterari.

Racconti vecchi e di scarso interesse, dissero.
Brutti e mal tradotti.
Un'accozzaglia raccogliticcia e insulsa nel quale il pezzo migliore è l'unico che non abbia nulla a che fare col resto.

È quindi con una certa apprensione mista a orrore che riveliamo ora una realtà innegabile e angosciante: lo spettro di Lin Carter sta bene e vi saluta tutti (soprattutto i critici), continua a infestare queste pagine, e i suoi criteri continuano a guidare l'editor nelle sue scelte.

A tal punto siamo fedeli al principio di dare al pubblico qualcosa di nuovo e di diverso, e di fondante per il genere, che la nostra selezione per questo secondo volume replica quasi esattamente la selezione del primo.

Con un solo, notevole «Ma»: i racconti che vi apprestate ad affrontare non vengono più da pacate riviste letterarie e da supplementi domenicali di giornali per bene.

Tra la stesura originale delle storie comparse nel primo alia e (con una sola eccezione) la prima pubblicazione di quelle che state per leggere, sono passati quasi esattamente trent'anni.

Il lungo pomeriggio dorato a cavallo dei due secoli è stato bruscamente interrotto dalla Grande Guerra, e poi, dopo un decennio di follia e iperattività, un'autentica ubriacatura da imputarsi al sollievo travolgente dei sopravvissuti, la Grande Depressione del 1929 ha proiettato la propria ombra sul mondo occidentale.

Complici mutamenti sociali ed economici troppo complessi per essere trattati in questa sede, i «penny dreadful» dell'epoca vittoriana sono mutati in riviste sgargianti e innumerevoli, che per dieci centesimi promettono avventura, azione, orrore, crimine, immagini di un lontano futuro pieno di pericolo ma anche di promesse.

Gli spettri della letteratura vittoriana hanno lasciato il posto ai più inquietanti mostri dell'immaginario lovecraftiano.

Siamo negli anni Venti e Trenta del secolo scorso: dalla palude dell'editoria popolare, nella quale i «penny dreadful» strisciavano e sguazzavano su tozze pinne deformi, dove «The Strand» dominava come unica forma di vita superiore, è ora emersa e si erge su gambe ingannevolmente malferme una nuova creatura, privilegiata dalla selezione naturale – il «pulp magazine».

Spaccio di letteratura sensazionalistica a buon mercato, i «pulp» furono un fenomeno principalmente americano (che richiamò anche parecchi scrittori inglesi, e che comunque ebbe emuli ormai dimenticati oltre oceano – qualcuno ricorda «Biggles'» e la «Sexton Blake's Library»?).

«Intrattenimento da idioti» a detta di un critico che doveva poi ammettere nella stessa frase che non meno di cinque milioni di idioti ogni settimana ne decretavano il successo, i «pulp» furono la palestra, la casa e la principale fonte di reddito per autori come Raymond Chandler e Dashiel Hammett, che rivoluzionarono l'uso della lingua inglese ben prima di Hemingway, al contempo popolari e colti; come E. R. Burroughs, autentico «padre» dei pulp; come tutti gli scrittori di quella che Asimov chiamava «età dell'oro» della fantascienza (Williamson, Hamilton, «Doc» Smith), come Howard, e Lovecraft, e C. A. Smith.

Il commediografo Tennessee Williams esordì sulle pagine di «Weird Tales», il più pulp dei pulp, con una pallida imitazione di Lovecraft.

Il curatore ammette la propria vocazione di «pulpofilo»/«pulpologo» errante.

Vediamo dunque che cosa si allinea nelle prossime pagine per la gioia dei nostri lettori e l'orripilazione dei nostri critici.

La fantascienza, specie nella sua incarnazione più fredda, tecnologica, che brillava per la propria scarsità nel primo volume di alia, nacque sulle riviste pulp, a opera di un omino con una incrollabile fede nel futuro e nella tecnologia, e nella capacità della letteratura popolare di educare il pubblico.

Si chiamava Hugo Gernsback, e a lui è ancora intitolato il principale premio professionale della fantascienza.

Di Gernsback è l'introduzione a La Città dei Morti Viventi, di Laurence Manning e Fletcher Pratt.

Comparso su «Science Wonder Stories» nel maggio nel 1930, il racconto è un solido affresco di storia futura, sviluppato con il linguaggio e i modi di quella che sarebbe stata chiamata solo in seguito «fantascienza hard»; un occhio alla tecnologia, un occhio alle sue conseguenze sulla società.

Il canadese Laurence Edward Manning (1899-1972), uno dei padri fondatori della fantascienza canadese prima e americana poi (fondò l'American Interplanetary Society), si costruì una solida reputazione con una serie di racconti costruiti attorno ad ampi affreschi del futuro a venire, sfruttando tecniche narrative sviluppate da Olaf Stapledon e poi abbracciate da molti altri (Heinlein e Dickson, per esempio). Collaborò frequentemente con Fletcher (Murray) Pratt (1897-1956), che iniziò la sua carriera come traduttore proprio per Gernsback, e che molti ricordano oggi soprattutto per le sue collaborazioni con Lyon Sprague DeCamp – gioielli di quel fantasy razionalizzato, sofisticato e umoristico che costituiva una frazione consistente di ciò che riviste come «Amazing Stories» e «Unknown Worlds» amavano pubblicare. Pratt fu anche e soprattutto un grande storico della Guerra di Secessione, e un esperto di crittografia.

La Città dei Morti Viventi resta la più famosa fra le collaborazioni di Manning e Pratt, e in essa si possono osservare le notevoli noti narrative del canadese, accoppiate alle capacità logiche e analitiche che avrebbero permesso a Pratt di portare ordine nelle sgangherate avventure degli improbabili eroi di Sprague DeCamp. La prosa di Pratt, scarna, quasi giornalistica, emerge in alcuni passaggi, ma è chiaramente l'autore canadese il principio informatore del racconto.

Un semplice artificio narrativo permette agli autori di far sì che la tecnologia sia descritta minuziosamente e con parole semplici (anche se, per il lettore odierno, in termini paurosamente anacronistici), e potrebbe sorprendere che il tecnofilo Gernsback abbia accettato di buon grado una storia che, sorretta da infinite meraviglie tecnologiche, tratteggia comunque un quadro estremamente negativo del progresso tecnologico, arrivando a sfiorare modelli che la fantascienza sociologica scoprirà solo vent'anni dopo. E in effetti, le trovate tecnologiche e sociologiche dell'accoppiata Manning/Pratt sembrano un piccolo catalogo del possibile: linguistica come arma politica e ascesa dell'Estremo Oriente, trapianti bionici e collasso della civiltà occidentale, la «società dello spettacolo» e i giochi di ruolo, le manipolazioni politiche dei media e la realtà virtuale, il paesaggio post-apocalittico e la rivolta anti-tecnologica. Autori successivi hanno scritto interi cicli di romanzi costruendoli su una sola di queste idee.

Qualcuno riconoscerà poi, in questo futuro incubo di soggettività dominante e di realtà simulata, un tema reso recentemente popolare da una trilogia di film fantastici di notevole successo.

Con La Figlia di Satana, di E. Hoffman-Price, ci spostiamo in un altro campo di pertinenza dei pulp, quello forse più popolare, e quello dal quale attinsero a piene mani Lucas e Spielberg nel creare Indiana Jones. Avventura archeologico/orientale con toni sovrannaturali scritta da un pilastro di «Weird Tales», la storia venne pubblicata su un pulp di seconda classe («Spicy Mystery»), nel gennaio del 1936, probabilmente perché era considerata troppo scollacciata per quella rivista. L'ambientazione, oggi a noi vicinissima per tristi motivi di cronaca, era all'epoca uno dei capisaldi dell'esotismo letterario.

Edgar Hoffman Trooper Price (1898-1988), reduce della Grande guerra e con il brevetto di ufficiale preso a West Point, fu astrologo, teosofo, buddhista praticante e fervente repubblicano. Collezionava tappeti orientali e quando scriveva del Medio Oriente poteva attingere a una vasta scorta di esperienze personali. Oggi viene ricordato principalmente per la sua amicizia con H. P. Lovecraft (col quale scrisse Through the Gates of the Silver Key), ma durante una carriera oltre che sessantennale come scrittore, contribuì a creare un vastissimo corpus di storie di avventura a sfondo mistico e sovrannaturale al quale cinema e fumetti attingono ancora oggi a piene mani, spesso inconsciamente. Proprio mentre questo volume va in stampa, la Wildside Press americana ha annunciato l'uscita di un volume dedicato a Hoffman e intitolato, appunto, La Figlia di Satana.

La Figlia di Satana, con il suo tema piccante e le sue passioni ardenti, appena smorzate dagli anni, era probabilmente una storia troppo «calda» per il morigerato pubblico di «Weird Tales» o di «Thrilling Wonder Stories» – che frequentemente protestava, nelle rubriche della posta, per il contenuto «eccessivo» di certe storie.

Il racconto contribuisce a sfatare il vecchio adagio di asimoviana memoria, secondo il quale «c'era poca religione nelle storie dell'Età dell'Oro, ma c'erano anche pochi peccati».

I peccati c'erano, e pure trattati (da alcuni autori, per lo meno) con un certo gusto e un certo umorismo.

«Spicy Mystery», nonostante il titolo, non era dedicata al poliziesco – «mystery» appunto, in inglese – ma al sovrannaturale; frequentata da autori come E. Hoffman-Price e Hugh B. Cave (che per «Spicy» scriveva con lo pseudonimo di «Justin Case»), era probabilmente la più popolare delle molte riviste che sbandieravano l'aggettivo «Spicy» (piccante) nel titolo, promettendo ai lettori non solo brividi, ma anche una dose di sensualità sopra le righe. «Spicy Mystery», insieme con le consorelle «Spicy Adventure Stories» (avventura esotica), «Spicy Detective» (poliziesco), e «Spicy Western» (storie di cowboy), fu costretta a chiudere bottega nel 1941, quando qualcuno decise che i temi «eccessivi» avrebbero potuto promuovere la decadenza, e implicitamente danneggiare lo sforzo bellico statunitense.

Con La Stanza Lunga, di Olivia Howard Dunbar (1873-1953), proseguiamo il discorso sulla storia di spettri al femminile iniziato sul precedente volume di alia.

Si è detto che la Grande Guerra uccise la storia di spettri.

Molto appropriatamente, questo racconto venne pubblicato nel 1914 su «Harper's Monthly Magazine», certo non un «pulp» nel senso stretto del termine.

Pare di intuire, a posteriori, l'evanescente spettro della guerra a venire in queste pagine, con la loro gioventù emancipata e artistica, perduta in ricerche piuttosto sterili sul passato dimenticato, dominata da atteggiamenti frivoli e da passioni curiosamente algide.

Ghost story dai toni femministi (lo spettro come metafora di adulterio/liberazione dei sensi?) e scritta da un'autrice militante, seguendo i canoni stilistici dei due spettrali James (Henry e Montague R.), La Stanza Lunga racchiude in sé il vicolo cieco nel quale la storia di spettri si trovava all'alba del primo conflitto – narrativa troppo semplice in un mondo nel quale i problemi si vanno facendo troppo complicati.

Forse per questo il linguaggio dell'autrice-narratrice si dimostra a tratti troppo complicato, vecchio, o forse indeciso. Forse non fu la Grande guerra a uccidere la storia di spettri classica, ma piuttosto il sorgere della modernità come forma mentale e come linguaggio che mal si adatta ai protoplasmi vittoriani.

L'americana Olivia Howard Dunbar non scrisse più storie di spettri dopo il 1917, confermando in questo modo la teoria che vede nel primo conflitto la tomba della ghost story classica.

Molto attiva nel campo dei diritti umani, l'autrice si dedicò da quel momento al problema razziale e sui diritti delle coppie omosessuali, lasciando che il passato inghiottisse le sue storie di spettri psicologicamente complesse e non più adeguate al clima dei tempi.

Lo Spiritista, di Rafael Sabatini, rappresenta una divertente e divertita digressione nella letteratura fantastica del maggior romanziere storico della sua generazione.

Italiano trapiantato negli Stati Uniti, Rafael Sabatini (1875-1950), figlio di due artisti d'opera, crebbe in circoli artistici internazionali, lavorò a lungo come traduttore (conosceva e praticava fluentemente una decina di lingue) e come insegnante di scherma, e raggiunse la notorietà nel 1915 con Lo Sparviero del Mare, dal quale venne successivamente tratto un film molto popolare. Altri titoli indimenticabili includono il ciclo di Captain Blood, Scaramouche e The Black Swan – tutti tradotti sullo schermo. I suoi racconti vennero pubblicati indifferentemente da riviste patinate e da pulp di bassa lega – al contempo un tributo alle sue capacità narrative e una testimonianza della dura vita di coloro i quali, fra le due guerre, vollero vivere della propria scrittura. Fu anche biografo di famosi personaggi del Rinascimento, e rimane uno dei grandi autori del romanzo storico del xx secolo. Poco frequentato in Italia nonostante la popolarità dei film tratti dalle sue opere, Rafael Sabatini non viene ristampato seriamente da alcuni decenni. Un peccato, considerando l'incredibile verve che riusciva a infondere alle proprie storie.

Con Lo Spiritista, comparso sui pulp negli anni Venti, Sabatini si cimenta con la classica «Storia vera», proponendo un sovrannaturale demistificato e umoristico.

Il racconto è, a seconda di come lo si vuol guardare, un fantastico razionalizzato, un mystery storico o un frammento ironico sull'infatuazione per il sovrannaturale che, a ridosso della Rivoluzione Francese, spazzò l'Europa come reazione al razionalismo illuminista.

Anche qui si potrebbe ravvisare un collegamento allo stile narrativo di M. R. James, ma James stesso, forse, non avrebbe pienamente apprezzato il paragone.

«L'entusiasmo mi impone una pausa dal bruciare le spine sui cactus per le mie capre assetate, il tempo necessario a lanciare tre evviva appena arrochiti dalla polvere per l'illustrazione di copertina di Aprile» (Robert E. Howard, lettera a «Weird Tales», maggio 1936).

Come ci si deve sentire, giovani, intelligenti, dotati, con una cultura fuori dell'ordinario (i classici, la poesia, la storia) faticosamente costruita da autodidatti, con un padre autoritario e una madre possessiva fino all'ossessione, intrappolati in un paese nel quale per dimostrare le proprie qualità è necessario fare il cow-boy, letteralmente o metaforicamente, e dove bruciare le spine sui cactus in modo che le capre, in tempi di magra, li possano brucare, è pratica normale?

Claustrofobici?
Isolati?
In trappola?

Stiamo per parlare di Robert E. Howard e del suo racconto, Vermi della Terra.

Si tratta dell'unico lavoro presente in questa collezione che sia già comparso, e più volte, in Italia.

La presente traduzione è tuttavia nuova, e basata sul testo originale comparso su «Weird Tales» nel novembre del 1932. Non sono stati aggiunti o tolti paragrafi per rendere la storia più «politicamente corretta» (come era solito fare Lyon Sprague DeCamp nei suoi lavori di editing howardiano), e se il linguaggio non è sempre aulico, il traduttore si è sforzato di mantenerlo il più vicino possibile all'originale – che soffre di alcune ripetitività fastidiose per il lettore moderno.

Fantasy storico con toni lovecraftiani, Vermi della Terra riunisce in se tutti i punti di forza e tutte le pecche di Robert Ervin Howard (1906-36), giovane genio del fantastico morto suicida a trent'anni, uno dei «Tre Moschettieri» di «Weird Tales», padre di Conan il Barbaro, di Solomon Kane, e di Bran MacMorn, che proprio in questo racconto fa la sua comparsa nell'opus howardiano.

Leggere Vermi della Terra significa calarsi nella mente strapazzata da oscure passioni dell'autore. E davvero più di ogni altro, Howard è a tal punto parte della propria opera da esserne inscindibile. Parlare del racconto è parlare dell'autore, e viceversa.

Il racconto è costruito attorno a un cuore di oscurità dal quale attinge tutta la propria vitalità e il proprio fascino psicotico. Storia di una vendetta portata ai propri estremi limiti, Vermi della Terra è abbastanza forte e prepotente da aggredire il lettore e mascherare così i propri punti deboli, che compaiono evidenti a un'analisi razionale per la quale l'autore non ci concede comunque il tempo.

Il tono e il linguaggio sono a tal punto «virili», nella scelta degli aggettivi e dei verbi, che il traduttore deve preoccuparsi di non scivolare involontariamente nella parodia; le parole «nero», «cupo», «oscuro», costellano la pagina in una ripetizione quasi ipnotica, continua, ossessiva, quasi psicotica, come se l'autore avesse deciso di scrivere la propria storia nero su nero, senza lasciare uno spiraglio di speranza o di leggerezza al racconto. Gli spigoli della prosa sono tuttavia smussati dall'energia che l'autore infonde alla trama – non c'è un capitolo, una scena, una singola frase che non sia essenziale alla creazione di un piccolo incubo in forma di avventura storica e fantastica.

Nato e cresciuto in un piccolo centro del Texas che oggi gli dedica un museo ma che all'epoca non fu in grado di offrirgli alcuno sbocco, Robert Howard visse trent'anni di isolamento intellettuale e frustrazione, circondato da persone con le quali aveva ben poco in comune, ma che non poteva fare a meno di considerare propri simili. La rabbia e l'orrore, il senso di paura e di isolamento percolarono in tutti i racconti dell'autore, che scrisse sempre di avventurieri truci e solitari, di vagabondi e reietti, di persone sospinte su di una traiettoria autodistruttiva da una profonda e nichilista sfiducia nel significato della storia, della cultura e della civiltà, rappresentanti di qualità morale, o forse genetica, che li separa dalla massa.

Facile a questo punto ravvisare ispirazioni destroidi nell'opus howardiano. Ma ingabbiare Robert Howard in una struttura ideologica è tanto facile quanto inutile.

Terrorizzato dai serpenti nella vita reale, Howard usa la propria paura per costruire (e vivere) l'orrore del proprio protagonista, incorporando nella storia elementi mutuati da Machen e dai malaugurati studi folklorico-darwiniani della Folk Lore Society; il piccolo popolo howardiano assume quindi tratti orientali – interpretati come più primitivi di quelli occidentali dagli studiosi tardo-vittoriani – e si esprime nel personaggio più intrigante del racconto, una femme fatale lontana dagli standard del fantasy e al contempo insinuantemente affascinante e visceralmente repellente.

Ma anche questa è solo una maschera indossata dall'autore.

Se la violenza verbale verso i romani, in Vermi della Terra può farci sorridere, rimandando il nostro pensiero a ben poco howardiani sostenitori nostrani della superiorità celtica, dall'altro l'orrore provato verso le creature che danno il titolo alla storia ci fa riflettere; forse ciò che Bran Mac Morn affronta in questo racconto, è più vicino a ciò che Howard affrontava quotidianamente di quanto egli stesso avrebbe osato ammettere.

Unico autore vivente della selezione, David Farnell (1968) è un giovane accademico texano, attualmente docente di Lingua e Letteratura Inglese all'Università di Fukuoka, città in cui vive con la propria famiglia da alcuni anni.

Grande esperto dell'opera di Melville e forse il massimo conoscitore di Robert W. Chambers oggi a piede libero, Dave Farnell da alcuni anni scrive racconti e organizza esperimenti di scrittura attraverso la rete globale. Nel 2000, il suo progetto «Challenge from Beyond 2000» allineò venti autori (alcuni professionisti, altri dilettanti) nella stesura di un colossale racconto millenarista, liberamente ispirato all'opera di H. P. Lovecraft e modellato sul round robin «Challenge from Beyond» che «Fantasy Magazine» commissionò nel 1935 a C. L. Moore, A. Merritt, H. P. Lovecraft, Robert E. Howard e Frank Belknap Long.

Per alia, Farnell si cimenta con Tigre (2000) in un horror contemporaneo e lovecraftiano che è una elaborazione di temi chambersiani, una riflessione sulla violenza e sull'atto della creazione e dell'insegnamento, e una esplorazione di luoghi dell'esotismo e della propria storia personale, attraverso una lente deformante.

Tigre è un racconto duro, violento, e fortemente spiacevole, un unicum nella produzione di un autore che invece è noto e stimato, tra fan e colleghi, per la propria pacatezza ed eleganza formale.

È quasi come se, nello scrivere Tigre, Farnell avesse voluto condensare ed esorcizzare in toto proprio quel nucleo scuro che era la forza di Howard, e che ne segnò la fine prematura.

Abbiamo dibattuto a lungo se inserire Tigre in questa selezione.

Lo stesso autore ha espresso non pochi dubbi.
Lo ripetiamo, si tratta di un racconto duro.
Duro ma potente.

L'esatto opposto di Don Giovanni su Marte, Parte seconda, di «Marc», comparso su «Hot Stories» nell'aprile del 1930, e ultima (in tutti i sensi) delle nostre storie.

Ammettiamo che si prova un piacere ribaldo nel tradurre (e ci auguriamo anche nel leggere) la poco conosciuta e prevalentemente perduta fatica letteraria del misterioso «Marc».

La rivista, come altre più note e di un minimo più letterariamente dignitose – come nel caso della già citata «Spicy Stories» – rifornivano di avventura a buon mercato un pubblico che voleva un po' di sesso (morigeratissimo, per gli standard moderni) nel proprio fantasy (o western, poliziesco, fantascienza, horror); a differenza dei lettori indignati che affollavano «The Eerie», la rubrica della posta di «Weird Tales», protestando per le vamp discinte nate dal pennello di Margaret Brundage o di Virgil Finlay, o per certe allusioni nei lavori di R. E. Howard e di Clark Ashton Smith, il pubblico dei pulp più «caldi» (aggettivi come «Hot», «Spicy», «Saucy» si sprecavano nei titoli) gradiva alquanto i voyeurismi da liceale e il sesso da calendario del barbiere che pennivendoli senza volto erano più che disposti a sfornare. Se in più ci scappava un'ambientazione esotica, tanto meglio.

Ma non affrettiamoci a crocifiggere il povero Marc, nascosto dietro il suo misero pseudonimo fracofono (la Francia era considerata una fonte inesauribile di materiale osé fin da prima del primo conflitto – come testimoniato dall'ammiraglia di tutte le riviste scollacciate, «Parisien») e oggi dimenticato. Di Marc rimane solo un misero capitolo di quello che – ci piace immaginare – fu il suo opus magnum, un autentico tour de force di prosa mediocre, provocazioni al limite della decenza (dell'epoca), umorismo che non vogliamo credere involontario e una spudorata faccia tosta.

In primo luogo perché, come abbiamo visto, anche scrittori «seri» si abbassarono a titillare i lettori con facili nudità e passioni da operetta. E secondariamente perché, a ben guardare, Thol, il troppo passionale e ormonalmente ipertrofico protagonista del perduto romanzo di Marc, si delinea immediatamente come l'anello di congiunzione fra il John Carter di Edgar Rice Burroughs e la Barbarella di Forest, due icone della cultura popolare.

Non si tratta di un accostamento azzardato – il Marte di Marc poco si discosta, per flora, fauna e popolazione, dal Barsoom burroughsiano, e il povero Thol in fondo fa esattamente ciò che fa John Carter, solo che poi ce lo racconta, soffermandosi con un certo autocompiacimento più sulle donnine in deshabillé e sugli amplessi roventi che non su battaglie e capitomboli. Ma non è in fondo il Marte di Burroughs un pianeta popolato di donne seminude e disponibili (e ovipare, per il cinico divertimento dei lettori più moderni), dove nerboruti terrestri possono scavarsi a fil di spada una nicchia fra la nobiltà decadente di civiltà rantolanti e prossime all'estinzione?

E come Marc, Burroughs conosce molto bene il proprio pubblico – entrambi gli autori danno al lettore esattamente ciò che cerca, disdegnando palesemente di chiedere clemenza a quei lettori che rifiutano di prestarsi al gioco. Marc è solo un po' più esplicito, un po' meno raffinato.

La Disney non comprerà mai i diritti della sua opera.

A Forest invece dobbiamo, nei confusi anni Sessanta, la storia del «risveglio» alla passione fisica di un personaggio (portato sullo schermo da una giovanissima Jane Fonda) cresciuto in un mondo di passioni intellettuali e amplessi telepatici, per approdare a una consapevole ed entusiastica adesione alla promiscuità assoluta, nella sua variante più fisica. Proprio ciò che Marc ci descrive, senza l'ausilio del disegno inconfondibile dell'artista francese, ma forse condividendone un certo umorismo. Barbarella come Lheeta, o viceversa.

Sciocco, fasullo, legnoso, il Capitolo 2 di Marc rimane perciò traccia indelebile, uno dei più rari reperti di un passato che la moderna fantascienza ha preferito spazzare sotto al tappeto, e dimenticare – salvo poi reinventarlo con una etichetta pseudointellettuale in occasione di una qualsiasi delle molte «rivoluzioni» (normalmente solo guerre di successione) che dovrebbero aver stravolto il genere.

E questo, come diceva il poeta, è il catalogo.

Storie non necessariamente splendide, non necessariamente simili a quelle che avete già letto.

Un'accozzaglia di generi, di temi, di approcci alla narrazione.

Quello che è, poi, per sua natura intrinseca, il fantastico, da qualunque paese provenga.

E prima di chiudere, un ringraziamento, allo staff di alia, per la pazienza e il coraggio, ai lettori del primo volume, per il buon gusto dimostrato, e ai compilatori del Catalogo Generale SF, Fantasy e Horror, primo fra tutti l'eccellente Ernesto Vegetti – senza il Catalogo, rintracciare inediti appetibili sarebbe infinitamente più difficile.

Grazie a tutti.
E buona lettura.