ALIA 2004

La leggenda dell'antologia di carta
di Danilo Arona


Esiste un assioma nell'editoria italiana a proposito delle antologie «di genere»: sono operazioni tendenzialmente fallimentari che il pubblico non ama e che procurano risultati discutibili quando non disastrosi sul versante economico. La storia vale sia per le antologie «miste» di autori vari sia per quelle di un unico autore. Il dogma è suffragato dai numeri: persino King vende di meno con Scheletri o Tutto è fatidico, due fra le sue non poche raccolte. Dati alla mano, gli editori hanno ragione. Una buona parte di quella fetta risicata di popolazione che compra libri e che, almeno in Italia, tiene in piedi il sistema editoriale (i cosiddetti «lettori forti») non ama le antologie e non le acquista per principio. Questa è statistica che non si discute.

Malgrado ciò, e certo meno di un tempo (il problema esiste, accidenti!), le antologie continuano a uscire. Gli stessi editori, per quanto consapevoli dei «rischi d'impresa», sembrano quasi costretti a misurarsi ogni volta con due incontrovertibili dati di fatto. Quali? Uno ce lo ricorda proprio King nell'introduzione a Tutto è fatidico:

ci sono ben pochi piaceri più squisiti nell'accomodarmi sulla mia poltrona preferita in una serata fredda, con una tazza di tè bollente a portata di mano, ascoltando il vento che soffia di fuori e leggendo una bella storia che posso completare in una seduta sola.

Chiaro, no?

L'altro è che la storia dei generi, questi generi, si è fatta e si è forgiata attraverso l'arte del racconto breve. È fuori luogo ricordare che due dei padri fondatori, Poe e Lovecraft, hanno a tal punto caratterizzato la loro produzione che oggi noi possiamo solo leggerne in antologie più o meno esaustive? Pensiamo di no. Ma occorrerebbe anche aver presente che sono state proprio alcune antologie «mitiche» a segnare, ciclicamente, le grandi sterzate, tematiche e strutturali, del fantastico in genere, a cominciare, almeno qui in Italia, dalla memorabile Le meraviglie del possibile che Einaudi pubblicò nel 1959 sotto la raffinata consulenza di Sergio Solmi e Carlo Fruttero e che ebbe il merito di divulgare la fantascienza al di là dell'edicola di stazione nella quale la si voleva a tutti i costi relegare, per proseguire, in tempi più recenti, con Gioventù cannibale, la famosa e discussa «prima» antologia nostrana dell'horror estremo a cura di Daniele Brolli e con le coraggiose, e per molti versi, «sovversive», Tutti i denti del mostro sono perfetti, a cura di Valerio Evangelisti, e la quasi «invisibile» Jubilaeum, a cura di Andrea G. Colombo, unico esempio planetario di raccolta di racconti «fuori del coro» in totale polemica con l'anno santo (con nomi quali Lansdale, Lucarelli, Defilippi, Nerozzi…), della cui unicità si sarà consapevoli quando sarà troppo tardi. Per non dire di operazioni squisitamente americane, che sono in seguito assurte al rango di veri e propri «manifesti», quali Mirrorshades, The Cyberpunk Anthology, a cura di Bruce Sterking per il cyberpunk nel 1986, e Book of the Dead, curato da Skipp e Spector per lo splatterpunk nel 1989. E per finire quest'assolutamente casuale elenco di «esempi», ecco un'antologia praticamente horror di un solo autore, per di più italiano, Eraldo Baldini, Bambini, ragni e altri predatori, edita pochi mesi fa (ancora) da Einaudi, laddove con evidenza si tengono in minimo conto i luoghi comuni.

Ma il Re in persona non esisterebbe poi senza un lungo processo formativo che ha compreso anche, e soprattutto, mitiche raccolte di short stories firmate da Bradbury, Matheson e Charles Beaumont in pieno stile Twilight Zone. Proprio un racconto contenuto in Alia, Messaggio notturno di H. F. Arnold, tratto da un Weird Tales del 1926, presta il fianco a queste considerazioni. Se non lo avete più presente, è quel secco reportage di poche pagine immerso in un clima quanto mai moderno nel quale una nebbia assassina, all'interno della quale si agitano adiratissimi fantasmi, azzera un misterioso e forse inesistente villaggio chiamato Xebico. Si potrebbe pur sorvolare sul fatto che, da James Herbert (The Fog) a John Carpenter (The Fog, il film che nulla spartiva con Herbert) e allo stesso King (The Mist, racconto della raccolta Scheletri), la «nebbia che uccide» è quasi un classico del gotico di fine secolo (scorso), magari presaga Apocalisse di orripilanti armi biologiche che mai vorremmo veder funzionare, ma The Night Wire, scritto ottant'anni fa – giova sottolinearlo –, si dimostra oliato da uno stratagemma narrativo che proprio King e pochi altri hanno saputo volgere in codice di straordinaria efficacia: il punto di vista di un io narrante nella fattispecie secondario, testimone scarsamente consapevole o agnostico di fatti extra-ordinari. Se vogliamo, il minimo comune denominatore di Alia sembra proprio questo: un ego al contempo protagonista e creatore. E proprio la «squadra» italiana ne fa tesoro e cifra stilistica: Nicoletta (Vallorani) che si aggira in una Milano post-cyberpunk alla Strange Days, tra «psicopula», NeoLeonka e contagi che mostrano «migliaia di facce»; Alessandro (Defilippi) che incontra la sua nemesi in un doppio femmineo ricalcato sul mito di Persefone in una Torino senza tempo e dolorosamente compartecipe; Massimo Citi che affida a un io narrante femminile il resoconto di un allucinante viaggio iniziatico spaziale dove suggestioni alla Solaris e/o alla Matrix si fondono in un'allegoria sinistra dei simulacri dell'oggi; Davide Mana con un sorprendente noir, struttura narrativa da sempre caratterizzata dalla «soggettiva», nelle cui pieghe s'insinua con straordinaria efficacia un orrore carpenteriano e geneticamente nipponico; Gloria Barberi che racconta con viscerale partecipazione «materna» l'intimo dramma che realtà già correnti come la Clone-Aid dei Raeliani rischiano di far vivere al prossimo; Vittorio (Catani) e Milena Debenedetti, interfacciati nel prospettarci un futuro (berluskoniano?) in cui il mondo è divenuto un'immensa e alienante prigione; Del Pizzo con ancora un io narrante al femminile e uno dei contributi più ambigui e devianti dove il fantastico è letteralmente «bloccato» fra le pieghe della narrazione; e Lo Jacono, in cui l'uso della «soggettiva» si legittima come «documento di difesa a memoria» in uno strano mondo futuro in cui l'umanità ha perso il libero arbitrio e il finale giudizio sulla realtà.

Non appare molto diverso l'approccio della nutrita compagine nipponica. Anche qui l'io narrante impone il suo filtro emotivo per la maggior parte dei modelli presenti, anche se si nota la maggior obiettività, filosoficamente neutrale, di un testimone comunque esterno ed equidistante, sia questo un osservatore proiettato a vaneggiare nel mondo estraniato di un futuro lontanissimo o un narratore di brevissime favole, romantiche e deliziosamente malinconiche, pensate per un'audience di bambini cui la saggezza del mondo adulto ha da consegnare, primo fra tutti, un fondamentale messaggio di tolleranza e di giustizia. Peraltro la letteratura fantastica nipponica, pianeta per molti versi ancora sconosciuto qui da noi, sta percorrendo la strada che la cinematografia del Sol Levante, soprattutto quella horror, ha da tempo intrapreso per conquistare il posto di spettanza nel panorama contemporaneo. È un'operazione silente, piacevolmente insinuante: la «giapponesità» si sta connettendo in alcuni gangli vitali dell'immaginario occidentale con un fecondo processo d'ibridazione, ovvio e legittimo frutto della cultura cyberpunk. Non sono soltanto in campo cinematografico i remakes più o meno dichiarati alla The Ring o l'apertura del mercato a opere che forse avremmo rischiato di non vedere nella normale distribuzione (l'hongkonghese The Eye dei fratelli Pang come punta emergente «commerciale» accanto al cinema di Tsukamoto Shinya come esempio più complesso e meno «compromesso»), ma anche grandi e piccoli eventi in campo letterario si dimostrano in grado di funzionare da «spia» di una tendenza inarrestabile che relegare unicamente alle dinamiche della globalizzazione culturale sarebbe limitativo e fuorviante. Pensiamo a Aidoru di William Gibson o allo spazio che ha trovato qui in Italia un'antologia come La leggenda della nave di carta per gli esempi alti. Pensiamo, senza voler neppure per un attimo addentrarci in cotanti meandri, all'influenza estetica delle tavole dei comics note come manga. Consideriamo su quanto di «nipponico» (molto, ve lo garantisco) ci sta in un fenomeno di costume come Matrix. E constatiamo come nel già citato racconto di Davide Mana (Un fil di fumo, una storia di cowboy, che promette ibridazioni sin dal titolo), l'ego narrante, scafato e vagamente amorale come in ogni noir che si rispetti, ci conduce in un labirinto che sarebbe arduo tentare di confinare in un genere: demoni, suggestioni horror alla Tetsuo, forse fantasmi, ma forse qualcos'altro d'indefinito dal fuori campo della pagina. «È lei a conoscere i nomi di quelle cose», dice uno dei protagonisti nel finale. «Io mi limito ad ammazzarle». Ibridazioni, con-fusioni cellulari e/o culturali, l'io che racconta «contro» il testimone impassibile e imparziale, non più culturalmente accettabile. Forse la vera peculiarità «sotterranea» di Alia, per quel che riguarda l'apporto dei contemporanei, consiste in questa voglia collettiva di gettarsi al di là dei confini per ri-produrre un novum (alla Frankenstein) che funga anche da metafora critica dei tempi oscuri che stiamo vivendo. Un'epoca in cui pochi potenti intendono globalizzare le ricchezze del pianeta e tenere ben distinti i corpi e le culture. Il fantastico, tramite i suoi autori (ignoti e/o famosi), ha già capito, da decenni, che non funziona così. Non per niente il fantastico è lo specchio più puntuale della realtà in evoluzione nel mondo. Non per niente quei corpi, che il Potere sempre più vuole «distinti e separati», per gli italici narratori ospiti di Alia si amalgamano l'un altro nella più evidente e «perturbatrice» presa di posizione nei confronti di un sistema planetario che sta decidendo sulle nostre teste chi è degno di vivere e chi non serve più. Il ritrovare certi rivoluzionari assunti ante litteram negli archeo-racconti delle sezioni anglosassone e giapponese non può che confermare l'assoluta e divinatrice vitalità del fantastico, qualsiasi risulti la sua epoca di riferimento.