ALIA 2004

Le vie di un «perdono»
a cura di Vittorio Catani

Il perdono a dio è lungo circa 60 pagine, non è un racconto ma neanche un romanzo. In Italia per questi lavori oscilliamo incerti tra l'espressione «romanzo breve» e «racconto lungo» (secondo alcuni, vi sarebbero differenze). Nei paesi anglosassoni esiste un termine preciso: novelette. E mi par di ricordare che anche nel nostro paese, decenni addietro, la «novella» (vocabolo praticamente scomparso) fosse una storia d'una certa lunghezza. Comunque – tanto per cambiare – una novelette incontra, presso la nostra editoria, anche una seconda e più concreta difficoltà: trovare un piazzamento idoneo, dal momento che le collane contemplano quasi esclusivamente romanzi, oppure – raramente – racconti.… Sta di fatto che Il perdono a dio, primo classificato nella seconda edizione del Premio Omelas (2002), finora aveva trovato spazio solo sul web, e precisamente sulla nota rivista telematica «Delos» (www.delos.fantascienza.com/delos/79).
È forse il caso di aggiungere che l'«Omelas», sponsorizzato da Amnesty International, per il suo nome prende spunto dal titolo di un celebre racconto di Ursula K. LeGuin, ed è un premio per storie di fantascienza sul tema dei diritti umani. Il premio ha vissuto notevoli traversie già nelle sue due prime edizioni, e non sappiamo se avrà un seguito. Tanto per dirne una, i racconti vincitori della precedente edizione sono rimasti praticamente inediti.
Qui su Alia, si è ritenuto (giustamente) di non inserire Il perdono a dio nel gruppo «racconti» ma di aggiungere uno spazio apposito per una novelette; con l'intenzione di inserirvi, in futuro, altro materiale meritevole, benché nato in una... «altra dimensione».

Il perdono a dio, quindi, dovrebbe essere una storia giocata su un argomento – i diritti umani – oggi di dolorosa attualità… Un tempo una science fiction «impegnata» (anche questo termine è decaduto) avrebbe fatto «storcere il naso» a non pochi lettori. Anzi: oggi stesso, molta gente vede nella fantascienza unicamente il genere fracassone e leggero, scacciapensieri, da cartoni animati per la tv dei ragazzi; e considera ogni altro utilizzo di questo filone narrativo (e cinematografico) una forzatura, uno snaturamento, peggio ancora un «volerci ficcare dentro la politica», che per la narrativa pare possa essere un delitto… Direi, per quanto mi concerne, che di narrativa e cinematografia (fantascientifica e non) con entrambi gli occhi chiusi, ve ne sia in giro anche troppa.
Il tema dei diritti umani può prestarsi a mille interpretazioni e sfaccettature. E la fantascienza italiana dei primordi spessissimo produceva esempi di narrativa di notevole «impegno»… Proprio perché numerosi nostri autori scrivevano rifacendosi spontaneamente a una tradizione culturale sostanzialmente umanistica, anziché imitare il background degli autori d'Oltreoceano, molte erano le fanta-storie che, sia pure tra le righe, trattavano temi filosofico-esistenziali (la pervasività delle macchine nell'agire umano, il terrore dell'atomica, alienazione e incomunicabilità derivanti dalla crescente industrializzazione, libertà individuali coartate in una società tesa a una maggiore efficienza produttiva e a un'aridità dei sentimenti e così via). Non si poteva parlare di «diritti umani» nel senso delle prevaricazioni attuali, specie nei paesi poveri, ma certamente un legame, una consonanza, c'erano.

Ma eccomi a Massimo Citi. Dirò anzitutto che la sua storia mi ha stupito. Conoscendo poco l'autore, non immaginavo che fosse un lettore di science fiction da decenni, con un retroterra che testimonia una seria frequentazione e assimilazione del genere, da consentirgli la rappresentazione letteraria di un universo vivido, credibile, coinvolgente; anche se a quanto ha riferito egli stesso, «l'ottanta per cento della fantascienza che ho letto l'ho letta negli anni settanta». Sottolineo altri elementi: padronanza della scrittura, caratterizzazione dei personaggi, panorami alieni carichi di sense of wonder.
Un accenno alla trama: siamo su Demait, un mondo lontanissimo, a bordo di una Geonave, ovvero in un colossale veicolo per movimenti di superficie. «Attraversiamo terre disabitate su un pianeta arido e tempestoso illuminato da un vecchio sole del colore dell'ottone, ma sappiamo che loro conoscono la nostra posizione, e che prima o poi colpiranno»… La protagonista, Verena Kunin, è giovanissima e si trova coinvolta nella battaglia per essere fuggita dal suo mondo e aver aderito al Concilio: una maniera sbrigativa per smetterla di «subire i capricci di un destino ottuso e incomprensibile», o di vivere con genitori che forse sono finti genitori, puri modelli artificiali. In questa turbolenta avventura ai servizi del Concilio (comprendente una federazione di pianeti), Verena incontrerà persone divise in varie caste o funzioni (i federali, i Prediletti, gli aderenti, le perle e così via); esseri che sembrano persone ma sono artificiali («Modelli», «temporanei», «sistemi», «aidoru») e a volte forse sono già morte ma non sono in grado di appurarlo; insoliti incroci di animali che materializzano tecnologicamente pensieri e fantasie; creature forse umane che si copiano in base a leggi che dovrebbero appartenere solo al micromondo dei quanti… Verena farà l'amore, soffrirà, odierà, e soprattutto nel finale avrà un incontro-scontro con Glenna Reich, sorta di mitico deus ex machina: a sua volta creatura umana, o duplicata, o divina: «Dio non esiste, forse, ma Glenna Reich sì»… E Verena, finora sballottata dagli eventi, prenderà la sua decisione, una volta per tutte.
Qui anche si giustificano la storia, il suo titolo, la partecipazione al Premio Omelas.
E soprattutto, si giustifica per il lettore la presenza di una storia che riesce a fondere e rielaborare varie atmosfere: space opera, film di Lucas, romanzi di Frank Herbert, quelli di Gibson & Co., e aneliti di libertà: pur rimanendo soprattutto Massimo Citi.