ALIA 2004

US & UK
a cura di Davide Mana

L’ala anglosassone di Alia è infestata, e sono numerosi gli spettri che si aggirano fra le sue pagine.
I lettori riusciranno ad intravederne alcuni, certamente, ma uno, quello al quale il curatore si sente più affezionato, merita una breve ed esplicita citazione, per obblighi morali e devozionali: è lo spettro un po’ stropicciato di Lin Carter (1930-1988), mediocre - ma divertente - autore americano la cui opera quale compilatore di antologie viene riconosciuta oggi come fondamentale anche dai suoi più feroci detrattori. In veste di curatore della collana Adult Fantasy della Ballatine, a partire dal 1969 Carter raccolse e ristampò in un numero di antologie i lavori di autori fondamentali e dimenticati: William Morris, Lord Dunsany, Clark Ashton Smith, per menzionarne solo alcuni. E se Carter fu sempre non meno che partigiano nelle proprie scelte, e se non mancò mai-per l’orrore dei suoi critici-di includere una propria storia in ciascuna delle antologie da lui curate, è indubbio che quello che oggi viene chiamato “fantastico” avrebbe avuto un volto ben diverso senza le cure amorevoli, e talvolta eccessive, di Linwood Vrooman Carter.
E se nello stilare una lista di potenziali autori la mente è volata a Rider Haggard, a Lovecraft ed a Smith, a Howard, il criterio della novità e della freschezza per i lettori è prevalso; aiutati nella ricerca dal colossale data-base creato dalla Gilda Catalogatori Letterature Fantastiche (ai membri della quale va la nostra gratitudine) siamo così giunti alla presente selezione: tutti i racconti, fuorché uno, risultano essere inediti nel nostro paese. Se i nomi non sono sempre altrettanto famosi, si vedrà che questo è un torto della storia, non un segno di scarso valore.


  •  Charles Grant Blairfindie Allen (1848-99), di origine canadese, visse negli Stati Uniti ed in Francia da ragazzo ma venne poi educato ad Oxford (1867), dove il fatto di essere sposato gli precluse ogni carriera accademica; insegnò brevemente filosofia nell’unico college universitario della Giamaica, finché l’istituto non dovette chiudere per difficoltà economiche (1876). Senza lavoro e vedovo (ironia della sorte), Allen tornò in Inghilterra per intraprendervi la carriera di scrittore. Dopo un esordio come autore di dotti articoli tecnico-scientifici (su argomenti quali la fisiologia e l’evoluzione delle specie), Allen scoprì che la narrativa pagava di più, e vi si dedicò con entusiasmo forse appena macchiato da una tendenza mercenaria.
    Fu un successo. Ben presto le sue finanze furono in uno stato di salute sufficiente da permettergli di trasferirsi a vivere in Kent, passando tuttavia la stagione invernale nella Francia del Sud. Autore quanto mai prolifico (a tutt’oggi non esiste un elenco completo delle sue opere-molte delle quali vennero pubblicate sotto pseudonimo o anonimamente), Allen creò due delle prime donne-detective della letteratura poliziesca-una di queste, Hilda Wade, sviluppata in collaborazione con Arthur Conan Doyle-e raggiunse infine fama imperitura con The Woman Who Did, romanzo proto-femminista molto odiato successivamente proprio dalle femministe, su una giovane donna delle classi superiori e di cultura altrettanto superiore, che rifiuta il matrimonio col proprio amante per non compromettere la propria libertà.
    Alla sua morte, il New York Times volle ricordare Charles Grant Allen come “romanziere, storico, critico d’arte, fisiologo e scrittore sull’Evoluzione, botanico, entomologo, autore di opere sulle scienze naturali, sulla dinamica e viaggiatore instancabile.” Sempre il Times volle anche rammentare i suoi lettori che Allen “tenne anche frequenti conferenze, soprattutto su argomenti artistici e scientifici, presso le classi lavoratrici.” Conan Doyle descrisse in seguito, serissimo, le proprie esperienze spiritiche al capezzale dell’autore che aveva esordito con una feroce satira dello spiritismo (Our Scientific Observations on a Ghost, 1874). Sul letto di morte, Allen chiese a Conan Doyle di completare in sua vece l’ultima storia della serie di Hilda Wade, intitolata, ironicamente The Dead Man Who Spoke. Morto che parla.

  •  Frank R. Stockton (1834-1902) fu un autore prolifico, e scrisse dai racconti per ragazzi (Ting-a-Ling, 1870 e The Floating Prince and Other Fairy Tales,1881) ai romanzi umoristici per adulti (Rudder Grange, 1879, e svariati seguiti) e fu uno dei pionieri del racconto di spettri umoristico. La sua fama oggi è legata quasi esclusivamente a “La Signora o la tigre?” (The Lady? Or the Tiger, 1884), certamente uno dei dieci testi fondamentali della letteratura fantastica o surreale del diciannovesimo secolo; abbastanza curiosamente, non risulta essere mai stato pubblicato in Italiano.
    Non cogliere l’occasione sarebbe stato criminale.
    Il fantastico, ne “La Signora o la tigre?”, è concentrato nell’ambientazione, con il suo re semibarbarico e le sue pratiche eterodosse, ma la storia (così come il suo seguito, il rarissimamente ristampato The Discourager of Hesitancy, 1884), si pone all’origine di tutta quella serie di romanzi e racconti-come Flatland di Abbot e le storie di Lewis Carrol, fino a certe recenti uscite di Rudy Rucker-nelle quali l’azione ruota attorno ad un problema logico-matematico di qualche genere, che assume forma reale-o surreale-in un ambito fantastico, e che resta al protagonista risolvere.
    Tutti i racconti ed i romanzi di Stockton-che includono insieme a narrative più mondane anche storie su civiltà perdute, parabole sull’immortalità, riletture revisioniste della mitologia classica e financo una perfidissima parodia del Racconto di Natale di Dickens-vennero pubblicati in edizione postuma in un totale di ventitré volumi, nel 1904. La collezione, voluta dagli eredi, non poté tuttavia mai fregiarsi del titolo di “Completa”-nel 1913, infatti, l’anima inquieta dell’autore contattò la medium Etta de Camp e le dettò i racconti che sarebbero stati poi pubblicati come The Return of Frank R. Stockton. Un altro, eclatante caso di morto che parla.
    Se solo Conan Doyle avesse saputo…

  •  Sarah Orne Jewett (1849-1909) pubblicò durante la propria carriera letteraria un buon numero di racconti fantastici o sovrannaturali, spesso fonte di imbarazzo per l’autrice (stimata per la sua prosa realistica) ed ancor più per i suoi lettori.
    L’autrice fu, in vita, moderatamente famosa per i suoi ritratti di vita quotidiana sulla costa del Maine e per la lunga relazione omosessuale che la legò per anni a Terri Fields; viene oggi ricordata soprattutto per aver creato, con la cittadina di Dunnett Landing, l’unica comunità immaginaria della letteratura americana di inizio secolo (sospesa fra la Saint Petersburg, Missouri, di Mark Twain e l’Arkham, Massachussets, di H.P. Lovecraft).
    Il fantastico irrompe nell’opera della Orne Jewett in maniera tanto sottile e tanto efficace da riuscire a non turbare assolutamente il realismo del racconto. Ben più spaventosi sono i mostri umani che popolano il mondo reale di quanto non lo siano gli spettri dell’aldilà. Ed al contempo, il breve deragliamento sovrannaturale è tanto più sorprendente, ed emozionante, perché calato in una narrativa quasi perfettamente naturalistica.
    Gli spettri della Orne Jewett non sono né quelli di Dickens né quelli di Poe, e la narrativa soprannaturale dell’autrice mostra una interessante “terza via” alla narrativa sovrannaturale che non è stata ampiamente battuta, e meriterebbe maggiore attenzione.
    La carriera letteraria di Sarah Orne Jewett fu intensa ma breve: nel 1902, un grave incidente durante un viaggio in carrozza (che probabilmente le causò una frattura ad una vertebra, mai correttamente diagnosticata) pose virtualmente fine alla sua attività di scrittrice: perseguitata da emicranie, capogiri ed altri malori “inspiegabili” per sette anni, si spense nel 1909, scomparendo quasi completamente dal panorama letterario anglosassone per i successivi cinquant’anni.
    Non ci risulta che nessuno dei suoi racconti sia mai stato pubblicato in Italiano, e certo nessuna delle sue storie di spettri. E’ quindi questa un’ottima occasione per presentare al pubblico italiano un’autrice importante e la sua personale interpretazione del fantastico quotidiano.

  •  Theodore Roosevelt (1858-1919) - ex vicesceriffo e ranchero nel territorio del Dakota ed ex commissario di polizia nell’area metropolitana di New York, fanatico della forma fisica, col grado di colonnello Roosevelt organizzò i “Rough Riders” (“erano in forma, sapevano cavalcare e sparare e quindi erano in grado di fare una guerra”) e mosse guerra alla Spagna per il controllo di Cuba. Fu poi governatore dello Stato di New York ed il più giovane presidente degli Stati Uniti. L’America politicamente corretta del nuovo millennio lo vuole ricordare soprattutto per il suo impegno in campo ambientale, quale strenuo sostenitore della conservazione della natura, scordando molto volentieri il fatto che se l’orsacchiotto di tutti bambini americani, il Teddy Bear, l’Orsetto Teodoro, deve il suo nome a Roosevelt, il motivo dell’associazione orso/presidente sta nel fatto che pochi cacciatori nella loro carriera abbatterono ed impagliarono tanti orsi quanti ne abbatté il benevolo Teddy per poi esporli al Campidoglio (perché alla Casa Bianca non ci tavano tutti).
    Eppure, è proprio dalle attività venatorie nelle terre ancora ampiamente selvagge ed incontaminate dell’America del diciannovesimo secolo che deriva il racconto “Il Wendigo” (The Wendigo, 1893) che, fedele ad una lunga ed accreditata tradizione di cacciatori e pescatori, Roosevelt ci presenta come “una storia vera”, riferitagli da fonti credibili anche se lontane dall’illuminazione.
    Ciò che Roosevelt ci offre, facendosi sedere attorno al suo bivacco, è la prima comparsa in narrativa del “wendigo” o “colui che cammina nel vento”, uno spirito della tradizione degli indiani d’America che solitamente vagava per le lande spazzate dal vendo, portando la follia e la morte ai guerrieri. Nella sua semplicità, il racconto di Roosevelt si pone all’origine di una lunga serie di storie costruite sulla figura mitica del wendigo, e pubblicate attraverso gli anni da autori quali (fra gli altri) Algernon Blackwood, August Derleth, Brian Lumley e Joseph Payne Brennan, un vero e proprio gotha della letteratura orrifica post-Lovecraftiana.

  •  Robert W. Chambers (?-1927)
    “Molto autentico, benché non scevro dalla tipica stravaganza leziosa dell’ultima decade del diciannovesimo secolo, è il tono di orrore dei primi lavori di Robert W. Chambers, succesivamente noto per opere di altro genere […]Non possiamo esimerci dal rimpiangere che egli non abbia ulteriormente sviluppato una vena in cui avrebbe potuto diventare un maestro apprezzato.”
    (H. P. Lovecraft, L’Orrore Sovrannaturale in Letteratura, 1927).


    Robert W. Chambers esordì nel 1894 con un romanzo ambientato nel quartiere latino di Parigi e vagamente ispirato a La Bohéme, e dopo l’interludio orrifico-onirico de Il Re in Giallo (1895), la sua carriera di narratore si assestò sui due binari paralleli del western e del “romanzo per impiegate”-un’etichetta molto poco politically-correct usata all’epoca per designare quelli che oggi chiameremmo romanzi rosa. Chambers scrisse anche numerosi manuali sulla pratica della caccia e della pesca.
    Nel gestire l’insolito, Chambers è preciso, colto, ben documentato, e può sempre fare leva su almeno una immagine forte ed insolita.
    I maligni sono soliti commentare che la prosa migliore e le idee più vivaci nell’opus Chambersiano si trovino nei manuali di pesca. Di certo, “La Svastika” ci mostra l’inizio della decadenza di un grande, che riuscì a scrivere racconti poderosi come Il Segno Giallo (1895) e poi sacrificò il proprio talento nella composizione di opere come Un Giovanotto Frettoloso (1904).

  •  H. F. Arnold è il più misterioso degli autori in questa selezione - non possediamo dettagli biografici, e per lungo tempo è stato considerato uno dei molti possibili pseudonimi della coppia Henry Kuttner/C.L. Moore.
    Arnold era uno dei collaboratori occasionali della storica rivista Weird Tales, che pubblicò anche City of the Iron Cubes (in due parti, nel 1929), purtroppo irreperibile. Unico altro lavoro segnalato a suo nome è il serial When Atlantis Was, pubblicato in due parti da Amazing Storie, nel 1937.
    Poi il nulla.
    Il mistero che avvolge l’esistenza di Arnold - e che lo accomuna con decine di altri collaboratori delle riviste pulp, la cui stella non riuscì a sorgere alta sopra l’orizzonte - non ci impedisce di apprezzarne il racconto, forse il più vicino, fra tutti quelli presenti in questa selezione, ai temi ed ai modi della fantascienza, con il suo utilizzo di una tecnologia “di punta” (per lo meno per l’epoca) quale espediente narrativo e la sua piega catastrofica.

  •  Mark McFadden, ex tecnico della Marina Americana, a lungo guru delle comunicazioni presso la Warner Brothers e membro della prestigiosa Los Angeles Science Fiction Society (per menzionare solo alcune delle sue molte qualifiche), Mark McFadden ha iniziato da poco a colonizzare l’immaginario americano, guidato da due ossessioni parallele: la storia di Los Angeles da una parte ed il mondo dei media dall’altra. Un autore riservato a pochi, McFadden ha creato una serie di racconti di un umorismo fulminante ed al contempo molto complessi, nei quali figure tratte dall’immaginario collettivo, icone medianiche e personaggi reali si incontrano e si confrontano in una Los Angeles che è quasi letteralmente malata di Hollywood, e nella quale sogno ed incubo paiono confondersi. L' approccio di McFadden alla narrativa è caratterizzato da una prosa surreale, quasi sperimentale nell’uso di effetti grafici, sorretto da un dialogo cinematografico, sincopato e sovraccarico di slang, intessuto di riferimenti ad oscuri eventi storici ed ad ancora più oscure teorie di cospirazione, reso inaffondabile da una acuta osservazione delle persone a piede libero. Un’evoluzione, per certi versi, della retorica succosa e complessa di Stockton, mediata dall’opera di umoristi come il compianto Bill Hicks e di surrealisti come Robert Anton Wilson, senza dimenticare l'insegnamento del maestro H.P. Lovecraft.