CHAOS

Di fronte alla crisi del fordismo: il dibattito italiano intorno alla transizione sociale

Il dibattito italiano intorno alla transizione sociale

Steve Wright



Il progressivo disfacimento del patto sociale postbellico in Australia ed in altri Paesi OECD ha fatto emergere questioni fondamentali per le strategie della sinistra. In gran parte dell'Occidente, la crisi di ciò che è comunemente chiamato "fordismo" ha comportato non solo l'emergere di nuovi (e talvolta di assai vecchi) regimi di produzione, ma anche elementi di speculazione intorno allo status e alla posizione correnti dello stesso lavoro salariato. Una delle risposte più frequenti a quest'incertezza è stata l'invocazione di un "reddito garantito per tutti". I meriti relativi di tale richiesta, spesso in reciproca contrapposizione con quelli del "pieno impiego", vengono discussi criticamente con sempre maggior frequenza in numerosi incontri: per lo più in Europa occidentale, ma saltuariamente anche in questo paese (in Australia, n. d. R) (Gray, 1988; Alcock, 1988; Gorz, 1989; van Parijs, 1992; Pixley, 1993; Watts, 1995). Per alcuni, il reddito garantito offrirebbe un mezzo per assicurare stabilità sociale, di fronte alla disoccupazione strutturale e alla crescente globalizzazione del capitale; per una piccola minoranza, esso è diventato un caposaldo in un insieme di richieste intese a distruggere la relazione salariale una volta per tutte.
Nuovi regimi produttivi, nuove forme di lavoro salariato e indipendente, nuovi conflitti: una nuova composizione di classe. Come sempre, cambiamenti apportati alla composizione della classe operaia, richiedono un dibattito sul significato delle politiche rivoluzionarie - su ciò che, in queste differenti circostanze, significa realmente abolire la relazione capitalista e il suo stato. Quest'articolo è un'esposizione preliminare delle riflessioni attualmente in atto all'interno dell'estrema sinistra italiana - e in particolare tra gli autonomi italiani - sul reddito garantito e sulle questioni ad esso correlate.
La loro discussione è importante sia per il contenuto in sé, sia perché proviene da un settore della sinistra rivoluzionaria che continua ad essere poco conosciuto e compreso nel mondo anglosassone.
Alla fine degli anni '70, il movimento dell'autonomia dominava la politica rivoluzionaria in Italia. Benché la maggior parte delle sue componenti principali condividesse un punto di riferimento comune in quella branca del marxismo italiano nota come operaismo [1], l'Autonomia nel suo insieme era piuttosto un vorticoso caleidoscopio di collettivi locali ideologicamente diversi, e di gruppi politici a base regionale, uniti più dal loro rifiuto di lavorare all'interno delle strutture tradizionali del movimento dei lavoratori che da qualunque accordo comune sulle strategie.
A dispetto del suo apparente collasso conseguente ad una ondata di arresti di massa durante i primi anni '80, una "nuova" autonomia è da allora riemersa sotto forma di una piccola ma vivace corrente all'interno di un più vasto movimento per "l'autorganizzazione" delle comunità e dei luoghi di lavoro. Come tale, essa conserva una presenza reale, accanto alle politiche anarchiche, all'interno dell'estesa rete italiana di comunità squat radicali (i centri sociali "occupati, autogestiti") - e, in grado minore, nel mondo dell'antagonismo operaio, che attualmente raggruppa decine di migliaia di lavoratori dipendenti in uno sbalorditivo schieramento di comitati di base e sindacati "alternativi, autogestiti".
In ciò che segue, spero di mostrare che le riflessioni degli autonomi italiani sul "reddito garantito" e sulla costruzione di una sfera pubblica non statale, pur con tutte le loro ambiguità e omissioni, offrono un utile base schematica per coloro che, nel mondo anglofono, sono egualmente impegnati nella ricerca di un mezzo pratico per superare il capitale e lo stato.

Il reddito garantito negli anni Settanta

L'idea di un reddito garantito ha mantenuto a lungo un posto d'onore nel discorso degli autonomi italiani. Negli anni immediatamente seguenti le agitazioni operaie e studentesche del '68 e '69, il salario "sociale" o "politico" fu un tema centrale per Potere Operaio, un gruppo operaista che avrebbe in seguito espresso molte delle figure più rappresentative dell'autonomia. Centrale nell'analisi di P.O. del moderno conflitto di classe fu la proposizione di un conflitto all'interno dell'immediato processo di produzione che, sfidando le gerarchie di competenza e dominio ivi presenti, cercava di sganciare il reddito dalla produttività. Tale rifiuto del lavoro, esemplificato dalle pratiche dell'operaio massa cresciute intorno alla catena di montaggio della FIAT e di altre grandi industrie, si esprime e si organizza "positivamente" nella lotta per appropriarsi di una porzione sempre maggiore di benessere sociale: a questo punto, la lotta per il "salario sociale" (uguale per tutti e legato ai bisogni materiali degli operai piuttosto che alla produttività dei capi) diviene cosa qualitativamente, totalmente diversa dalla negoziazione del salario come ricompensa per il lavoro svolto (La Classe, 1969, n. 35).
Un salario "sociale" era richiesto anche per coloro che restavano fuori dagli ambiti tradizionali del lavoro dipendente. Poiché, per Potere Operaio, la società capitalista doveva ormai essere considerata come una fabbrica sociale soggetta alle regole dell'accumulazione, un salario "politico" si rendeva necessario per tutti quelli che non hanno nulla da vendere oltre alla loro capacità di lavorare. In un paese in cui la rete di sicurezza ufficiale privilegiava gli operai nelle fabbriche più grandi, il salario politico rappresentava più di una semplice compensazione per il lavoro non pagato; forzando ulteriormente la disgiunzione tra paga e produttività, avrebbe potuto solo esacerbare la crisi del capitale. Oltre agli studenti e ai disoccupati, anche le donne casalinghe furono viste come esemplari candidate per un salario garantito, innescando una controversia che sarebbe durata per anni dentro e intorno al movimento femminista in Italia e altrove (Malos, 1980).
Ispirate in parte dalle campagne di massa per "autoridurre" i costi crescenti dei servizi sociali, e per impadronirsi dei mezzi di consumo e riproduzione (Balestrini, 1989), le correnti dominanti all'interno dell'autonomia, a partire dalla metà fino alla fine degli anni '70 (quelle che si autodefinivano autonomia "organizzata"), puntavano tutto sulla propria capacità di fornire copertura politica e rappresentatività a tali istanze di appropriazione diretta. In effetti uno dei primi tentativi di Toni Negri di decifrare le forme del conflitto sociale in ciò che egli definì il nuovo "proletariato sociale", avrebbe esplicitamente riformulato la questione del salario in termini di "appropriazione diretta delle forze produttive del benessere sociale" nelle sfere della produzione e della riproduzione (Negri, 1976; p. 51). Piegare l'inquietudine delle masse di quel tempo alla nozione leninista di lotta politica, che la maggior parte dell'autonomia "organizzata" finì per abbracciare, si dimostrò, tuttavia, una sfida troppo grande, tanto da mettere in discussione la sua egemonia sulle pratiche radicali in Italia anche prima degli arresti di massa che nel 1979 e nel 1980 devastarono il suo organico politico (Wright, 1988, Cap.9).
La successiva distruzione della corrente autonomista faceva parte di un più vasto progetto di normalizzazione che, se giudicato sulla base della relativa pace sociale dei primi anni '80, ottenne un notevole successo. Gli ultimi otto anni, tuttavia, hanno portato ad una rinascita del conflitto sociale in Italia. Meno spettacolare nelle forme di quelle del passato, questo ciclo di lotte ha ciononostante continuato ad allargarsi, partendo dalle scuole statali, dalle ferrovie e dalle università fino a raggiungere i luoghi di lavoro del settore privato. Tra la sorpresa di molti - non ultimi coloro che si formarono nelle prime fasi della politica rivoluzionaria - questo ciclo ha inoltre infuso nuova vita ai collettivi dall'autonomia, con l'influsso degli attivisti più giovani che ha impartito un distintivo segno libertario a gran parte del movimento. E' all'interno di questo contesto estremamente originale, quindi, che le discussioni sul reddito garantito sono ritornate attuali in Italia.

Oltre Gorz? Reddito garantito come riappropriazione

Più o meno per tutto l'ultimo decennio, gran parte del dibattito della sinistra sul reddito garantito ha ruotato intorno all'opera di André Gorz. Recensendo il suo "Addio al proletariato", nel 1984 il giornale dell'autonomia americana "Midnight Notes" avrebbe suggerito che i piani di Gorz per un nuovo ambito di attività produttiva costituito fuori dai parametri del lavoro salariato, semplicemente nascondevano un progetto inteso a "precorrere (precedere) le lotte intorno al rifiuto del lavoro e collocare la sinistra nel ruolo di manager della classe operaia". Lungi dall'apportare libertà, i suoi progetti avrebbero soltanto comportato più lavoro non retribuito, una parodia del comunismo in forma di povertà autogestita. Per contro, Midnight Notes offriva l'immagine di una nuova società - il risultato delle lotte che hanno messo in crisi la relazione salariale (dall'interno tanto quanto dall'esterno) - in cui <<Ognuno fa il proprio comodo e comincia a spendere un po' del proprio tempo libero pensando a come costruire macchine che svolgano i lavori ancora fatti dagli uomini, a inventare nuove droghe, posizioni sessuali e parole crociate fatte con i nomi dei più famosi ideologi marxisti>> (Midnight Notes, 1984, 16).
Riconosciuta quest'accoglienza ostile, è curioso scoprire come il recente dibattito tra gli autonomi del nordest italiano sia stato piuttosto cauto nei confronti di Gorz. Per esempio, un pezzo scritto in occasione di una conferenza regionale tenutasi nel marzo di quest'anno (1996) sostiene che, mentre l'immagine gorziana di un settore di produzione "alternativo" non possa essere presa alla lettera, la sua visione, nonostante i suoi aspetti "proudhoniani e di retroguardia", resta suggestiva - "offrendo, come tutte le attività prefigurative, qualche elemento di verità" (Autori Vari, 1995). E in quella che è forse la più dettagliata esposizione delle idee dell'autonomia sul salario garantito che abbiamo a disposizione, Carlo Palermo ha abbozzato una posizione che, nell'intento di superare la Critica della Ragione Economica di Gorz, cerca tuttavia di costruirsi sulla base di alcuni aspetti di quel lavoro. Mentre critica l'incapacità di Gorz di vedere sia l'esistenza di forme passate di tecnica sia la divisione del lavoro, Palermo lo loda per aver insistito sul fatto che la questione del salario vada affrontata unitamente alla "progressiva ma radicale" riduzione del tempo di lavoro (Palermo, 1994, p.38). L'errore più grande di Gorz, egli sostiene, è che in assenza di ogni reale comprensione di come implementarlo, il suo progetto rimane intrappolato nei termini descritti dal capitale. Destinato ad esitare tra un mondo non retribuito di "attività autonome" e un sfera salariata di "necessità", la versione gorziana di un salario garantito, in fin dei conti, non offre strumenti per mezzo dei quali spezzare finalmente il dominio della relazione salariale (Palermo, 1994, p.40).
Prendendo in considerazione un insieme di schemi i cui proponenti, diversamente da Gorz, non hanno interesse a sfidare l'egemonia del lavoro salariato, Palermo indica le vie attraverso le quali i loro giudizi sul salario garantito sono destinati sia a perpetuare che ad esacerbare le gerarchie rintracciabili dentro e attorno al mercato del lavoro. Come lui, Massimo De Angelis ha sostenuto che, per essere usato come strumento per combattere i rapporti capitalistici, il salario garantito deve essere collegato ad una lotta sulla alla durata della giornata lavorativa. Così come molte proposte "di separare l'accesso al salario dal mercato del lavoro" sono di fatto destinate "a svolgere effettivamente la seconda funzione" (De Angelis, 1994, p.30), allo stesso modo ogni piano di riduzione del tempo di lavoro che accetti le relazioni sociali esistenti come date riguarderà solamente una "redistribuzione della miseria". Questo, afferma De Angelis, è il reale significato dello slogan - così popolare nella sinistra europea - "lavorare meno per lavorare tutti".
Si deve sottolineare che non vogliamo lavorare meno affinché tutti possano lavorare, per la semplice ragione che in un modo o nell'altro (nella produzione come nella riproduzione, nel lavoro a tempo pieno come in quello saltuario) stiamo tutti comunque lavorando per il capitale. Ciò che vogliamo è il potere di diminuire tutto il lavoro, e diminuirlo di molto, distruggendo simultaneamente la gerarchia del mercato del lavoro.
Collegare un salario garantito alla riduzione dell'orario di lavoro, conclude, procurerebbe un senso effettivo alle lotte circolanti tra coloro che il capitale cerca di dividere: occupati e disoccupati, impiegati a tempo pieno e lavoratori part-time o saltuari (De Angelis, 1994, p.32).
Seguendo Palermo, i seguenti punti compongono l'abbozzo di un "programma riformista radicale" contro il lavoro salariato e "oltre Gorz":
1) il salario garantito non deve essere legato al "diritto/dovere" di erogare lavoro salariato, come vorrebbe Gorz, ma piuttosto al diritto/dovere di erogare lavoro socialmente necessario;
2) "la liberazione del tempo di vita" deve comprendere una riappropriazione delle funzioni amministrative che combatta e superi tanto le forme che il personale politico della democrazia rappresentativa contemporanea;
3) il punto 1) non deve solo contemplare "una riduzione del tempo di lavoro generalizzata ed egualitaria, ecologicamente sensibile", ma deve anche comprendere la libera distribuzione di un'ampia serie di servizi e valori d'uso, dalle questioni collegate alla casa e alla scuola fino alla salute;
4) <<la garanzia e lo sviluppo di questi servizi e valori d'uso deve precedere gli obiettivi sociali di produzione, e dunque divenire il motore di un processo di riappropriazione delle istituzioni e dei servizi dello stato sociale, basata sull'espansione del lavoro sociale autogestito e della cooperazione>>;
5) piuttosto che restare confinato alle più ricche regioni italiane, questo pacchetto di proposte sul reddito di cittadinanza deve essere formulato in termini più ampi - e in definitiva globali (Palermo 1994, 40).
Prima di proseguire nell'analisi di alcuni dei temi sollevati da Palermo, è opportuno soffermarsi brevemente sulla sua schematizzazione delle tradizionali rivendicazioni della sinistra, segnatamente il "diritto/dovere al lavoro". Coloro che hanno familiarità solamente con gli autori dell'autonomia di espressione inglese, possono pensare che tale presenza qui sia a dir poco strana. Tuttavia, come Sergio Bologna indicò anni fa, ci sono sempre stati alcuni che all'interno del movimento autonomo italiano - tra questi lo stesso Negri - hanno in differenti occasioni espresso disagio nei confronti di certe letture del "rifiuto del lavoro" (Bologna, 1976, 26). In effetti, secondo uno dei più stretti collaboratori di Negri, il rifiuto del lavoro (work ) non è mai stato il rifiuto del lavoro in sé (labour ); esso non era diretto contro la produttività, la creatività o l'inventiva. Piuttosto esso rappresentava il rifiuto di una specifica relazione tra capitale e lavoro (Hardt, 1993, 114).
Per contro, ci si potrebbe chiedere se "il lavoro in sé" sia mai realmente esistito - eccetto forse che nella forma del dominio di classe, come lavoro astratto. Se argomenti come quello di Hardt sembrano fondati su quella sorta di sensibilità socialista (intesa come opposta a comunista) che l'operaismo italiano ha così spesso rifiutato, possono anche essere ritrovati in forma strisciante nel testo della conferenza padovana prima citato. D'altra parte i redattori della rivista milanese Klinamen continuano a rifiutare ogni critica del lavoro salariato che non sia contemporaneamente una critica del "lavoro tout court" (Klinamen, 1992, 56). La posizione presa da De Angelis è simile ed anzi quasi identica nel linguaggio usato: <<La liberazione dal lavoro è strumentale alla liberazione tout court>> (De Angelis, 1994, 35).
Oltre che nei media cartacei, questo dibattito intorno al significato del "rifiuto del lavoro" si ritrova attualmente in un certo numero di reti telematiche radicali, in primo luogo ECN (European Counter Network) e CyberNet. Un esempio piccolo ma significativo è rappresentato da uno scambio avvenuto in rete all'inizio di quest'anno riguardante un'anziana signora impiegata in un banco lotto <<i cui sorrisi ed auguri di buona fortuna>> - racconta Sandman - <<mi hanno accompagnato ogni giorno. Ora ho scoperto che è stata licenziata, presumibilmente perché incapace di imparare ad utilizzare le nuove macchine>> (Sandman, 1995). Dopo che la discussione su quest'aneddoto ebbe fatto il giro della rete, Hobo dell'ECN di Padova si aggiunse alla discussione per esprimere disaccordo con coloro che sostenevano la linea del "lavorare meno per lavorare tutti", aggiungendo: <<non mi interessa chiedere che la signora sia riassunta, ma piuttosto che abbia comunque una vita confortevole>> (Hobo, 1995).
Infine, se <<il rifiuto del lavoro si accompagna alla determinazione a fare qualcos'altro>> (Lindsay, 1995, 36), qui ci troviamo di fronte alle interpretazioni di questo "qualcos'altro", che rimangono opposte - e, fino ad oggi, largamente non riconciliate. Se un certo spazio per un accordo continua ad esistere tra gli autonomi italiani, questo è rintracciabile nella più ampia prospettiva definita dal programma di Palermo, che lega la rivendicazione di un reddito garantito all'obiettivo della riappropriazione e autogestione dei servizi sociali, come un primo passo verso la riduzione del lavoro necessario e lo smantellamento della relazione capitalista. Uno degli aspetti più interessanti di questo dibattito è l'insistente richiesta che il reddito garantito sia, fin dall'inizio, attuato in parte sotto forma di valori d'uso. Secondo Palermo, un reddito <<definito solamente in termini monetari rimarrebbe - secondo la logica burocratica dello stato sociale tradizionale - una sorta di socializzazione gerarchicamente controllata da quest'ultimo. Come "diritto" sarebbe in continuo pericolo, sia per quanto riguarda la sua consistenza monetaria che il suo carattere incondizionato>> (Palermo, 1994,34).
D'altro canto, sostiene lo stesso autore, un reddito garantito basato sulla libera distribuzione di specifici servizi sociali potrebbe fornire un punto di partenza per l'ulteriore estensione di un settore di autogestione all'interno del quale la necessità soppianti la logica del profitto.
Per quanto riguarda i settori più tradizionali della sinistra italiana, alcuni echi di questa linea di pensiero possono essere individuati negli interventi di Marco Revelli, riguardanti la necessità di una riappropriazione "dal basso" delle funzioni dello stato sociale. Dal momento che oggi questo è "inutile per i padroni [e] alienante per i lavoratori", Revelli pensa che una strategia politica fondata sulla difesa senza condizioni dello stato sociale sarebbe "suicida". La sua crisi attuale può soltanto portare a due sbocchi: un liberismo sociale come quello statunitense, nel quale ciascuno deve difendersi come può, oppure una "socialità" più matura basata sul mutuo appoggio. In Italia, fa notare Revelli, esistono già molti esempi della seconda alternativa: sopra tutti le migliaia di cooperative e di società di mutuo soccorso che forniscono ai propri aderenti cure sanitarie ed altri servizi sociali (Revelli, 1993a, 26). È dunque necessario un progetto che, "socializzando senza statalizzare", sia capace di allargare quest'area di assistenza a partire dal basso, e di <<ricostruire quelle autonomie che gli apparati inevitabilmente burocratici dei partiti, dei sindacati e dello stato hanno disperso ...>> (Revelli, 1993b, 16).
Il dibattito sullo statalismo che si svolge nella sinistra ufficiale italiana - un processo, bisogna dirlo, ancora largamente confinato alle sue frange un tempo definite "nuova sinistra" - è stato accolto con una sorta di cauto interessa da alcuni circoli libertari locali. Pertanto, il teorico anarchico Cosimo Scarinzi, in un pamphlet sulle nuove forme di autorganizzazione dei lavoratori, ha affermato che <<se collegate ad chiaro un progetto di destatalizzazione del movimento dei lavoratori e di efficace iniziativa contro la pressione fiscale, la crescita e il coordinamento di strutture di mutuo soccorso possono diventare una delle linee guida del sindacalismo di base>> (Scarinzi, 1993a, 22).
Tuttavia, al contrario di Palermo, Revelli non è favorevole alla libera distribuzione dei servizi sotto forma di mutua assistenza. Come ha fatto notare un collaboratore della rivista Riff Raff dell'autonomia padovana, lo schema di Revelli invece di "svuotare lo stato" porterebbe ad una sorta di coesistenza tra stato e settori del mutuo soccorso all'interno della quale i lavoratori sarebbero tassati due volte. Al contrario, lo scenario di medio termine avanzato da Roberto Ulargiu prevede che, come conseguenza della ristrutturazione, il punto di raccolta della tassazione sia stato spostato verso il basso, cioè verso le autorità locali e regionali. Date queste premesse, i movimenti autorganizzati dovrebbero cercare di imporre a queste istituzioni la libera distribuzione di particolari servizi sociali, e queste a loro volta dovrebbero rivalersi sullo stato centrale (Roberto Ulargiu, 1993, 59-60).

Un nuovo spazio pubblico? Una nuova composizione di classe?

La nozione di uno spazio autogestito che sfidi la subordinazione al bisogno di accumulazione è diventata, nel dibattito italiano recente, strettamente legata ad altre due questioni: la possibilità di uno spazio pubblico costruito al di fuori dello stato e le dimensioni e caratteristiche assunte dalla nuova composizione di classe; due questioni sollevate dalla crisi di ciò che, in mancanza di un termine migliore, continua ad essere chiamato "fordismo". Uno dei primi documenti in cui il problema è stato posto in questi termini è quello stilato dal comitato di redazione di Luogo Comune, composto tra gli altri da alcuni intellettuali di spicco della vecchia autonomia (alcuni dei quali furono tra gli arrestati del 1979 o degli anni seguenti) [2]. Scritto nel 1992, "Per una democrazia extraparlamentare" sfruttò l'occasione della crisi costituzionale italiana per condannare sia i difensori del vecchio regime sia quelle nuove forze politiche (dalla Lega Nord ai nuovi ricchi che gravitano attorno a Berlusconi) che competono per la costruzione di una "seconda" repubblica. Sottolineando che <<l'attuale crisi costituzionale ha le proprie radici ... nella crisi della società del lavoro>> questo documento ha puntato il dito direttamente verso l'accantonamento di quel "cittadino-lavoratore" che era stato il pilastro del patto sociale nel dopoguerra. (Luogo Comune, 1992, 49). Con l'intreccio tra ristrutturazione e "defezione di massa" che spezza il legame tra cittadino e produttore
<<la difesa della democrazia tout court oggi coincide, che lo si voglia o no, con la costruzione e con la sperimentazione di una democrazia non-rappresentativa. Qualsiasi altra cosa è chiacchiera petulante>> (Luogo Comune, 1992, 51).
Di fronte alla natura sempre più statalista dei partiti di sinistra e dei sindacati, i redattori di Luogo Comune sostengono che questo nuovo spazio pubblico va ricercato al di fuori della sfera politica tradizionale: all'interno dei centri sociali, nei nuovi sindacati "alternativi", nei gruppi locali che lavorano sui temi dell'immigrazione, della casa, dell'ambiente. Negli ultimi anni l'idea di un nuovo spazio pubblico è stata accolta favorevolmente da un numero sempre maggiore di gruppi sia dell'autonomia che della sinistra libertaria italiane. Oltre a un importante convegno nel 1994 (Padovan et al., 1995), ha contribuito a dare vita a un gran numero di progetti locali, tra i quali il tentativo di costruire a Padova una consulta cittadina aperta ad un ampio ventaglio di forze sociali, comprese alcune che vanno al di là dei confini tradizionali della sinistra dissidente (Klinamen, 1993). Lungo il percorso, nel tentativo di costruire una lingua franca con queste forze, gli autonomi padovani hanno scoperto il vocabolario della democrazia radicale come cittadinanza. <<Con democrazia>> hanno scritto <<noi intendiamo il controllo popolare diretto delle strutture della società da parte dei suoi cittadini>>, intendendo per questi ultimi tutti gli abitanti, indipendentemente dal fatto che siano in possesso della cittadinanza legale o meno (La Comune, 1993, 2). In termini più strategici, il sistema di "democrazia non-rappresentativa" costituito da questo nuovo spazio pubblico è stato teorizzato dagli autonomi come un contro-potere che anticipi l'eventuale emergenza di soviet rivoluzionari (Krasivyj, 1993, 111).
Se la "società del lavoro" basata sulla produzione di massa fordista pare essere in crisi, quale nuova composizione di classe ha cominciato ad emergere al suo posto? La proliferazione dell'autorganizzazione tra gli insegnanti delle scuole verificatasi negli anni Ottanta (in primo luogo i sindacati di base conosciuti come COBAS) e seguita dal movimento degli studenti del 1990 hanno recentemente indotto alcuni marxisti italiani a parlare di una nascente "intellettualità di massa" che, sostengono, ha soppiantato, dal punto di vista dell'importanza strategica, quegli operai-massa formatisi all'interno del patto fordista (Bernocchi, 1993). Aspramente criticata da quegli ambienti che continuano ad enfatizzare l'importanza dei lavoratori del comparto industriale (M. Melotti, R. Sbardella e M. Antignani, 1990), questa tesi attualmente domina nei gruppi dell'area di Luogo Comune e della rivista che le è succeduta, Derive Approdi. Mentre alcuni fanno coincidere l' "intellettualità di massa" con la massificazione del lavoro intellettuale e quindi la legano ad un particolare strato sociale, altri la vedono come una dimensione comune all'attuale forza-lavoro in tutte le sue articolazioni:
<<Questa forma di attività produttiva non è soltanto limitata ai lavoratori più specializzati; stiamo parlando di un valore d'uso della forza-lavoro oggi e, più in generale, della forma di attività di ogni soggetto produttivo nella società post-industriale>> (Lazzarato, 1994, 6).
Nel tentativo di legittimare questa linea di ragionamento viene frequentemente fatto riferimento ai Grundrisse - un volume da sempre tenuto in gran conto nella cultura dell'autonomia italiana - e alle elucubrazioni marxiane sull'emergenza di un general intellect come soggetto sociale. L'intellettualità di massa, si afferma dunque, è la forma assunta dalla soggettività sociale in un'epoca in cui l'accumulazione è sempre più dipendente dal lavoro immateriale (Virno, 1993; Lazzarato, 1994).
Più recentemente, il concetto di intellettualità di massa è stato nuovamente oggetto di dibattito all'interno dell'estrema sinistra italiana. Scrivendo per Riff Raff - il cui collettivo editoriale nel 1994 si divise proprio su questo tema - Umberto Plinsky ha invocato una maggior cautela nell'uso dei termini. Pur concordando sul fatto che esso <<colga una reale tendenza dello sviluppo capitalistico>>, esprime una certa preoccupazione poiché <<sembra mancare, per il momento, di una sintesi convincente in termini reali>> (Plinsky, 1944, 82). L'approccio di Cosimo Scarinzi, estraneo all'area dell'autonomia, è più scettico poiché mette in dubbio la stessa idea che <<una particolare composizione tecnica dei lavoratori dipendenti>> possa pretendere un ruolo privilegiato all'interno del processo più ampio dell'autorganizzazione sociale (Cosimo Scarinzi, 1993b, 27). Ugualmente dibattute sono le conseguenze politiche tratte dai fautori dell'intellettualità di massa come aspetto centrale e caratterizzante di una presunta composizione di classe "post-fordista".

La seconda parte di quest'articolo, che analizza il dibattito intorno al concetto di "esodo" come possibile via di uscita da un sistema regolato dai rapporti capitalistici di produzione, uscirà nel prossimo numero di Chaos.


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Note

[1] Per l'operaismo, l'unico valido punto di partenza per qualsiasi teoria che si crede rivoluzionaria dipende dall'analisi del comportamento della classe lavoratrice nei settori più avanzati dell'economia. Più di qualsiasi altra cosa, fu questo desiderio di scoprire le "leggi politiche del moto" della forza-lavoro industriale che finì per spingere la corrente operaista fuori dal resto della sinistra italiana degli anni Sessanta e Settanta. Nel migliore dei casi, il discorso sulla composizione di classe cercherebbe di spiegare il comportamento della classe in termini per lungo tempo rimasti ai margini nel marxismo, iniziando con quella lotta contro le due tirannidi gemelle che sono il razionalismo economico e la divisione del lavoro; nel peggiore, l'operaismo sostituirebbe la propria filosofia della storia con quella degli epigoni di Marx, abbandonando il confronto con l'esperienza della classe lavoratrice in tutta la sua realtà contraddittoria per esaltare al suo posto, nella sua Autonomia, una mitologica Classe. Negli anni Settanta questi due aspetti del discorso dell'operaismo - uno razionale e l'altro irrazionale - da strettamente legati che erano si separarono, sotto la pressione di necessità pratiche, in tendenze molto distinte anche se non sufficientemente da evitare il collasso sia politico sia teorico che lo stesso operaismo ebbe verso la fine del decennio (Wright, 1988, 3-4).
[2] Giusto per complicare ancor di più le cose, qui, come nel dibattito sulla possibilità di un "esodo" dai rapporti capitalistici, le diverse posizioni esposte sono ulteriormente segnate da una controversia apparentemente slegata ma che stenta a terminare, quella sulle posizioni assunte durante il periodo degli arresti di massa dei primi anni Ottanta. In quel periodo, dopo un certo numero di anni passati in prigione in attesa del processo, un gruppo di figure di spicco dell'Autonomia, tra i quali Toni Negri e Paolo Virno, si "dissociarono" formalmente dalla lotta armata portata avanti dalle Brigate Rosse e da gruppi simili. Dal loro punto di vista, questa posizione era semplicemente una conseguenza logica delle serie differenze politiche e culturali che avevano diviso per lungo tempo le correnti dominanti dell'autonomia dalle organizzazioni terroristiche; per molti altri autonomi - inclusi alcuni tra i più aspri critici delle Brigate Rosse - la "dissociazione" rappresentò un'apertura verso lo stato, fatta a spese degli altri detenuti politici, o addirittura una presa di distanza anche dalla politica rivoluzionaria. Uno dei pochi resoconti scritti in inglese disponibili sulla dissociazione può essere trovato in Ruggiero (1993).