CHAOS

Comunicazione, telematica, new media e cicli economici
Un'ipotesi di lavoro


Maria Turchetto


Comunicazione e utopie tecnologiche degli anni '70
Il termine "comunicazione" ha cominciato a riempire di sè la letteratura sociologica e filosofica (quanto meno quella "filosofia" che svolge funzioni di teoria sociale) a partire dagli anni '70. Intesa vuoi come mezzo di circolazione del sapere (e dunque veicolo delle logiche di diffusione-esclusione del potere), vuoi come mezzo di espressione di bisogni (interessi, "preferenze"), la comunicazione ha assunto progressivamente il ruolo di "rapporto sociale per eccellenza", sostituendo o sussumendo ambiti un tempo privilegiati - i rapporti di classe, il mercato, le istituzioni...
La connessione tra la nuova attitudine onnicomprensiva della categoria della "comunicazione", da un lato, e, dall'altro, la prima grande ondata di diffusione delle tecnologie basate sull'informatica e sull'elettronica è piuttosto evidente: appartengono a questo periodo alcune memorabili sintesi di filosofia sociale e fantatecnologia destinate a lasciare ampie tracce nell'immaginario collettivo. Si tratta di "scenari" di società prossime venture, completamente trasformate e riplasmate dalle nuove tecnologie della comunicazione rese possibili dagli sviluppi dell'informatica e dell'elettronica. Dal Giappone, su commissione dell'associazione dei produttori di calcolatori Jacudi, arriva nel 1972 lo scenario di una società compiutamente razionalizzata grazie all'attività decisionale di un think tank (serbatoio di idee) centrale collegato a tutte le fonti di informazione del paese: "Nel centro di Tokio si costruirà un gigantesco grattacielo [...]. L'edificio ospiterà tutti i think tanks del paese, sia di origine statale che di origine privata, e sarà dotato di tutti i mezzi da utilizzare in comune per realizzare in termini operativi nuovi strumenti di lavoro (calcolatori, modelli di programmazione di vario tipo, programmi speciali, aggiornamento biblioteche, impianti sperimentali ecc.). Il centro sarà collegato on line con la banca statale dei dati, con il centro informativo di tecnologia scientifica e con varie altre banche dati" [1]. Qualche anno dopo la Francia, impegnata in quel periodo nella promozione statale del videotex (pagine video contenenti testi o immagini veicolate su rete telefonica), risponde all'utopia decisionistica giapponese con un progetto di "armonica regolazione" sociale su base telematica. Il rapporto Nora-Minc fonda sulla circolazione e "socializzazione" dell'informazione consentita dalle nuove tecnologie il progetto di uno Stato capace di recepire costantemente le esigenze e le aspirazioni dei diversi gruppi sociali e di modificare i propri obbiettivi in base alla combinazione delle preferenze espresse: "Socializzare l'informazione significa dunque [...] favorire la formalizzazione dei dati in base ai quali la strategia centrale e i desideri della periferia possono trovare un accordo: quell'accordo grazie al quale società e Stato non solo si tollerano ma contribuiscono alla reciproca realizzazione" [2].
Se filosofie sociali e nuove tecnologie sono in sintonia (balza agli occhi la vicinanza delle "città future" immaginate dai giapponesi e dai francesi rispettivamente all'analisi funzionalizta luhmanniana della decisione razionale e all'idea habermasiana della comunicazione universale finalmente disalienata [3]), i rapporti sembrano invece più difficili per una consolidata disciplina specialistica come l'economia. La teoria economica ufficiale si attesta su posizioni pessimistiche: l'informatica e la telematica potranno anche cambiare il mondo, ma sembrano ininfluenti su ciò che dai tempi di Adam Smith sta a cuore agli economisti, vale a dire la "ricchezza delle nazioni". Alle magnifiche sorti e progressive delle utopie sociotelematiche gli economisti oppongono la constatazione di una crisi economica profonda e perdurante, di cui non si vede l'uscita a dispetto del galoppante progresso tecnico. Si parla così di "limiti dello sviluppo" [4], di "crisi della crescita economica", addirittura di "rendimenti decrescenti" (in assoluto) della tecnologia [5].

Dalle delusioni degli anni '80 all'attuale rilancio dell'immaginario tecnologico
Per tutti gli anni '80 i "fatti" sembrano dare ragione agli economisti. Non solo le serie relative all'andamento dei PIL, dell'occupazione, dei redditi: anche la fisionomia "merceologica" della produzione globale. La telematica non decolla, né come consumo di massa né come servizio pubblico, nonostante le effettive potenzialità esistenti. Decolla il personal computer, il cui mercato compie nel giro di una decina d'anni un rapido percorso dalla concorrenza "classica" (differenziazione della produzione, forte innovazione, prezzi in caduta) a quella "monopolistica" (innovazione frenata, obsolescenza programmata, aumento dei prezzi, differenziazione del prodotto), e che comunque non riesce a svolgere un ruolo trainante dell'economia paragonabile a quello dell'automobile. Il computer trasforma radicalmente tutta una serie di attività (dalla scrittura all'archiviazione di dati, alla grafica e al disegno tecnico) ma, per il momento, non colonizza la sfera - cruciale, secondo i sociotecnologi - della comunicazione. Quest'ultima resta affidata a mezzi "tradizionali" come la televisione e il telefono, la cui tecnologia non conosce innovazioni di rilievo (nel caso della televisione, ad esempio, l'alta definizione sembra irraggiungibile) o comunque tali da modificarne profondamente l'uso (come nel caso della telefonia cellulare). Certamente in questi settori qualcosa si muove, soprattutto a livello "istituzionale": i grandi monopoli pubblici e privati si sfaldano, si frammentano, sono oggetto di vaste ridefinizioni [6]. Per il momento, tuttavia, sembra trattarsi di un processo di "privatizzazione" tra i tanti, un effetto tra i tanti dell'ondata di deregulation neoliberista che ha investito il mondo. In linea di massima, alla fine degli anni '80 la telematica non sembra aver toccato, se non di striscio, né la vita quotidiana (i "consumatori"), né quella pubblica (i "cittadini"): essa è semmai appannaggio delle grandi corporations che se ne servono per gestire i flussi finanziari e commerciali della ricchezza "transnazionale".
Solo all'inizio degli anni '90 si assiste a una ripresa dell'epopea della telematica. Internet e i suoi cibernauti riempiono i giornali e l'immaginario collettivo, facendo da sfondo a quella che sembra essere una storica unione tra i personal computer della nuova generazione e i mezzi di comunicazione tradizionali. Da questa unione nascono i cosiddetti new media, che sembrano destinati a diffondersi attraverso le "autostrade elettroniche" che avvolgeranno il mondo (via cavo? via etere?) come fecero ai loro tempi la rete ferroviaria e quella elettrica. Le utopie degli anni '70 sono dunque sul punto di realizzarsi, anche se con qualche ritardo rispetto alle prime previsioni? E sapranno finalmente far uscire l'economia dal lungo trend negativo, o dovremo abituarci a convivere - come ormai tutti predicano, da "destra" e da "sinistra" - con i raggiunti limiti dello sviluppo, del benessere e dell'occupazione?

Ipotesi a confronto: il modello marxista
Prima di rispondere a domande così impegnative, è bene fare i conti con i principali modelli di sviluppo - o meglio, di dinamica economica - che in questo secolo hanno orientato i tentativi di spiegare e prevedere la trasformazione sociale. Semplificando al massimo, sono soprattutto due i filoni teorici da interrogare criticamente sul problema della dinamica del capitalismo: il marxismo e l'elaborazione schumpeteriana [7].
Il marxismo ha finora pensato la dinamica del capitalismo secondo un modello che definirei a "fasi di crescita", caratterizzato da cumulatività (ogni fase è un "di più" - eventualmente in senso negativo, "più contraddizioni" - rispetto alle precedenti) e irreversibilità delle fasi stesse. Gli elementi caratterizzanti ciascuna fase (capaci di "dare nome", di identificare mediante un carattere la fase stessa) sono stati per lo più individuati in elementi istituzionali (comprendendo nella nozione di "istituzioni" anche le strutture del mercato). Sul piano dei processi di lavoro, a ben vedere, sembrano mancare all'apparato concettuale marxista elementi idonei a marcare discontinuità significative (nonostante l'evidenza empirica di differenti "ere tecnologiche" che scandiscono la storia del capitalismo). Con riferimento ai processi di lavoro e alle loro trasformazioni si è parlato in passato di sviluppo (o mancato sviluppo) delle forze produttive, mentre oggi si parla prevalentemente di diminuzione del lavoro. Nessuno dei due discorsi sembra capace di indicare chiare cesure: l'impostazione sembra più idonea, semmai, a individuare un limite. Di conseguenza, le dinamiche "continue" del lavoro e del progresso tecnico sono state di fatto tenute sullo sfondo rispetto a una dinamica istituzionale che sembrava invece marcare tappe più distinguibili. Dalla classica bipartizione tra capitalismo concorrenziale e capitalismo monopolistico della prima metà di questo secolo si è passati alla tripartizione ortodossa del dopoguerra in capitalismo concorrenziale, capitalismo monopolistico e capitalismo monopolistico di stato. Oggi molti marxisti sembrano propensi ad aggiungere a questa catena l'anello del capitalismo globale o transnazionale, in cui la funzione degli stati-nazione risulterebbe superata.
Il modello di questo tipo più completo (perché prevede una "fase" in più rispetto agli altri) e coerente (perché si affida a un univoco meccanismo cumulativo, quello della progressiva estensione dell'ambito di "regolazione" delle contraddizioni capitalistiche) è forse quello tracciato da Claus Offe in Lo stato nel capitalismo maturo. Offe segue un itinerario di botte e risposte tra "contraddizioni crescenti" del sistema capitalistico e "meccanismi di recupero" che ne rinviano il crollo. Prima entra in crisi la capacità di sopravvivenza del capitale singolo, e viene compensata dalla organizzazione monopolistica del mercato; poi sorgono problemi a livello di "capacità di sopravvivenza del capitale complessivo", cui si rimedia con la "istituzionalizzazione del progresso tecnico"; infine viene messa in discussione "la capacità di sopravvivenza della struttura complessiva politica, economica e sociale del capitalismo" e si ricorre all'intervento dello stato [8]. Offe scriveva negli anni '70, quando la dimensione statale sembrava un orizzonte estremo; ma l'impianto era sufficientemente eclettico da consentire di aggiungere, col senno del poi, la crisi della forma-stato indicando negli organismi sovranazionali (banca mondiale, FMI, ecc.) il nuovo "meccanismo di recupero".
La struttura di progressione cumulativa che in tal modo risulta è ideologicamente tranquillizzante, ma coerente solo in apparenza. Essa è, a ben vedere, il risultato di progressivi aggiustamenti dell'approccio marxista tradizionale di fronte a ricorrenti smentite. Nell'impostazione leninista classica, la fase monopolistica era definita stadio "supremo" (cioè ultimo) del capitalismo, nel significato preciso del raggiungimento del limite storico rappresentato dalla capacità di sviluppare le forze produttive, dunque di svolgere una funzione positiva "per l'umanità". Quando le forze produttive continuano platealmente a progredire entro la cornice dei rapporti capitalistici, si tira in ballo il "trucco" della "istituzionalizzazione del progresso tecnico". Ciò consente di far fronte a una smentita storica senza cambiare l'impianto teorico di fondo, ma si paga pur sempre un prezzo: si deve rinunciare a usare lo sviluppo delle forze produttive come "legge" di trasformazione, motore della storia. Anche il coinvolgimento dello stato nella "regolazione" capitalistica è stato a suo tempo interpretato come limite in qualche modo "supremo" (basti pensare all'idea operaista della trasformazione del dominio economico in dominio politico che segnerebbe l'"inutilità" dello sfruttamento capitalistico e dunque il venir meno della sua ragione d'essere): oggi si scopre che esistono "meccanismi di recupero" ulteriori e ci si parano così le spalle da un'altra smentita, ma di nuovo a un prezzo teorico alto, quello della rinuncia a pensare la coessenzialità della forma-stato (e dello stato-nazione) al rapporto capitalistico di produzione. In sostanza, il mantenimento della griglia accrescitiva tradizionale comporta la perdita di pezzi teorici piuttosto rilevanti. C'è da chiedersi se non convenga mantenere i pezzi (almeno alcuni) e buttare la griglia...

Il modello schumpeteriano e i cicli di Kondratieff
Consideriamo ora l'approccio schumpeteriano. Com'è noto, la dinamica delineata da Schumpeter è esplicitamente non accrescitiva (il capitalismo non si sviluppa "come un albero", mediante crescita continua e cumulativa). L'impianto è ciclico, marcato da discontinuità definite come "innovazioni", le quali a loro volta hanno un peculiare ritmo di introduzione, dapprima faticoso e poi rapidamente accelerato (attribuito da Schumpeter prevalentemente a fattori di "mentalità", quali la resistenza al nuovo e la distribuzione gaussiana della capacità imprenditoriale).
Lo schema tracciato nella Teoria dello sviluppo economico presenta varie difficoltà, non ultima una definizione troppo ampia di "innovazione": quest'ultima, definita come "introduzione di nuove combinazioni nella produzione", fa pensare soprattutto a interventi di riorganizzazione dei "fattori produttivi", ma Schumpeter vi comprende in realtà anche situazioni che riguardano l'assetto del mercato più che della produzione (come l'"apertura di nuovi mercati" e la "riorganizzazione di un'industria" intesa come passaggio dal regime di monopolio a quello di concorrenza o viceversa) [9]. Nei Cicli economici l'attenzione si focalizza maggiormente sull'innovazione propriamente tecnologica, soprattutto in riferimento ai tre (o quattro? la cosa non è del tutto chiara) Kondratieff individuati: tessile (fino al 1842), ferrovia (fino al 1897), elettrificazione e chimica/trasporto su gomma [10]. Tale classificazione è dichiaratamente empirica (in ciò nulla di male) e non del tutto coerente, nella misura in cui il ruolo di tecnologia "epocale" spetta in alcuni casi a tecnologie produttive in senso stretto (come il telaio meccanico), in altri a tecnologie energetiche (elettricità e chimica, quest'ultima da intendersi come raffinazione del petrolio), in altri ancora a tecnologie connesse ai trasporti (ferrovia, trasporto su gomma). Lo schema è comunque affascinante, e la tentazione di aggiungere "informatica" o "telematica" come quinto (o quarto) Kondratieff è molto forte...
Ma quest'ultimo ciclo è davvero decollato? E a quale tipologia tecnologica (produzione, energia, comunicazioni) appartengono l'informatica, l'elettronica, la telematica?

Cicli a due ritmi: una modesta proposta
Prima di porre queste domande, vorrei tentare di "fare ordine" nei Kondratieff schumpeteriani, distinguendo tecnologie industriali di punta (generalmente legate a produzioni di serie e consumi di massa) e tecnologie infrastrutturali (relative a comunicazioni, trasporti, energia e legate soprattutto a processi di riallocazione dei poli produttivi e di diffusione della produzione industriale). La periodizzazione che ho in mente è di questo tipo (sono indicati tra parentesi i cicli su cui non esiste un consenso consolidato nella letteratura corrente):

(PRIMARIO?) ... idrico-fluviale ... TESSILE ... ferrovia-vapore ... (CHIMICO?) ... ferrovia-elettricità ... MECCANICA LEGGERA ... trasporto su gomma-petrolio ... (INFORMATICA?) ... (telematica, new media?)

Lo schema proposto, oltre a "mettere ordine" evitando una serie di incongruenze, potrebbe dar conto di due diversi ritmi della dinamica capitalistica, uno "accelerato" e uno "diffusivo", fornendo una spiegazione diversa da quella schumpeteriana (che considera in una medesima innovazione un difficile inizio, una rapida accelerazione e una successiva perdita di incisività con il procedere della diffusione). In sostanza, avremmo una accumulazione accelerata nella fase in cui "parte" un settore industriale di punta, e una successiva dinamica diffusiva legata alla "seguente" creazione di grandi infrastrutture.
Quest'ultima osservazione permette di collegare almeno in parte i cambiamenti tecnologici segnalati dall'impianto schumpeteriano con le trasformazioni istituzionali messe in luce dalla tradizione marxista. Il ritmo che ho definito "accelerato" corrisponde infatti a periodi di forte concorrenza, di innovazione molto spinta e rapida obsolescenza tecnologica, di alto rischio nell'investimento. Prevale inoltre l'aspetto - per riprendere l'espressione schumpeteriana - della "distruzione creatrice": i vecchi settori produttivi entrano in crisi e inizia il processo della loro sostituzione o dislocazione in aree diverse (verso le periferie o semiperiferie del mondo capitalistico), ma essi esercitano una resistenza, un'inerzia che ha un effetto frenante sulla crescita economica. Viceversa, il ritmo "diffusivo" corrisponde alla fissazione di standard che rallentano l'innovazione (o comunque l'incanalano su binari abbastanza obbligati), a processi di trustificazione e monopolizzazione, a un forte intervento dello stato legato soprattutto alla creazione di infrastrutture.
Ciò che propongo, in pratica, è di "bocciare" la progressione cumulativa della tradizione marxista a favore di uno schema ciclico ricorsivo; e di tentare di leggere su quest'ultimo le trasformazioni "istituzionali" (che dunque non vanno considerate irreversibili ma - appunto - ricorsive).

Fordismo e postfordismo
Si può tentare una parziale verifica dello schema proposto mettendolo alla prova sul "fordismo", termine ormai comunemente accettato per designare il modello di accumulazione caratteristico di questo secondo dopoguerra nell'accezione datane soprattutto dalla "scuola della regolazione".
Com'è noto, Aglietta e la sua scuola hanno tentato di offrire un quadro coerente del modello di crescita economica prevalso nei paesi capitalistici sviluppati dopo la seconda guerra mondiale, descrivendolo come un sistema strutturato intorno a tre dimensioni principali: un regime di accumulazione, fondato sul paradigma tecnologico "fordista" (organizzazione del lavro a catena per la produzione di massa entro la grande fabbrica centralizzata), un modo di regolazione imperniato sulle politiche keynesiane di sostegno della domanda e dell'occupazione, un blocco sociale centrato su un "compromesso" relativamente stabile tra classe operaia e capitale garantito dallo stato [11]. La sinergia di queste dimensioni avrebbe prodotto il circolo virtuoso del dopoguerra, in cui profitti, salari, occupazione e benessere sociale riuscivano a crescere contemporaneamente.
Notiamo subito una contraddizione, o quanto meno una sfasatura temporale. Il paradigma tecnologico fordista non è coevo alle altre dimensioni socioeconomiche considerate. L'organizzazione del lavoro taylorista nasce all'inizio del secolo, la catena di montaggio su nastro viene introdotta per la prima volta alla Ford Motor Company di Detroit nel 1908, in una situazione di crisi economica che induce Hobson a parlare di calo assoluto dell'occupazione e di declino della produzione manifatturiera a beneficio delle attività connesse al commercio, ai servizi, alla "produzione immateriale" [12]... Le politiche keynesiane, da parte loro, vengono inaugurate negli anni '30, dopo che la crisi ha toccato il punto più basso: ma la situazione ancora non migliora, un'inizio di ripresa nel 1933-34 abortisce negli anni successivi, gli economisti teorizzano la stagnazione come condizione ormai cronica del sistema e lo stesso Schumpeter, stanco di attendere il nuovo Kondratieff che non si decide a decollare, ammette l'apparente incapacità di ulteriore crescita attribuendola a "politiche ostili al capitalismo" [13]. Solo nel dopoguerra fordismo e keynesismo si incrociano in modo efficace: la produzione fordista incontra un effettivo consumo di massa, le politiche sociali cessano di essere "ostili" all'accumulazione capitalistica, una nuova "rivoluzione industriale" - a dispetto delle previsioni marxiste e non - investe il mondo capitalistico sviluppato. La spiegazione di questo tardivo decollo sta, a mio avviso, nel trend "diffusivo" reso possibile dall'acquisita leadership statunitense, che mette provvisoriamente fine alla concorrenza internazionale, impone una determinata tecnologia limitandone la "deriva" incontrollata, esporta il proprio modello finanziando una ricostruzione finalizzata a supportare la nuova industria - che la guerra ha contribuito a liberare dalle pastoie dei vecchi assetti - con le necessarie infrastrutture. Ciò che voglio sostenere, in conclusione, è che il "fordismo" delineato dalla scuola della regolazione descrive efficacemente la fase di diffusione di tale modello, ma nulla di significativo dice a proposito del suo tormentato emergere.
Ma l'approccio della scuola della regolazione, per altro assai interessante nella misura in cui intende sottrarsi alla rigida successione di fasi "evolutive" della tradizione marxista per tentare la via della definizione di un tipo ideale per una fase specifica, mostra oggi la corda soprattutto di fronte al "postfordismo", termine coniato per designare il modello di accumulazione prossimo venturo, destinato a sorgere dalle ceneri dei fordismo. La concentrazione sull'idealtipo fordista, infatti, conduce a definire le caratteristiche della fase successive esclusivamente per differenza: se l'organizzazione della fabbrica fordista era "rigida", quella postfordista sarà "flessibile"; se la produzione era affidata alla grande impresa centralizzata, ora avremo il decentramento e la fabbrica "snella" [14]; se il fordismo assicurava crescita del salario reale e dell'occupazione, dobbiamo aspettarci di qui in avanti diminuzione del lavoro e povertà. Ora, questo procedimento porta alla luce qualcosa: descrive i processi di ridimensionamento, ridefinizione, riallocazione dei vecchi settori. Ma non coglie il nuovo che - come diceva Schumpeter - "non nasce dal vecchio, ma accanto ad esso" [15] e si afferma sovente - come dimostra proprio il caso del fordismo - in un contesto di crisi economica.
L'analisi corrente del postfordismo impiega un'ottica troppo parziale sul presente, privilegiando l'osservazione dei processi in atto nei settori e nei poli tradizionali [16]; e non guarda affatto al passato, scontando un curioso blocco della memoria storica che impedisce di risalire oltre il fordismo. Eppure il passato mostra che quella di Ford non è la prima nè l'unica fabbrica "rigida" e di grandi dimensioni della storia (il filatoio idraulico a lavoro continuo di Arkwright è non a caso per Marx l'esempio per eccellenza di "grande industria meccanizzata"), mostra che in altre occasioni sono emerse tecnologie "flessibili" capaci di supportare vasti processi di decentramento produttivo senza che per questo sia venuto meno l'industrialismo caratteristico della nostra epoca (un esempio per tutti è dato dall'elettromeccanica: essa non ha semplicemente rimpiazzato il vapore nei grandi impianti fissi, ma con la possibilità di applicare un motore di dimensioni contenute al singolo strumento ha dato il via a una campagna di decentramento, di riallocazione e di ridimensionamento degli impianti: la macchina da cucire, modello per eccellenza di questa tecnologia "flessibile", sembrò a suo tempo destinata a svuotare le fabbriche e a ripristinare un operoso "artigianato" diffuso, che oggi chiameremmo più propriamente sfruttamento del lavoro a domicilio).

Conclusioni provvisorie: qualche cautela per la sinistra
E' certamente troppo presto per dire che la telematica e le autostrade elettroniche supporteranno un nuovo boom, una nuova ondata di consumi di massa, un nuovo "benessere" (se si può chiamare benessere "la vita pagata a rate / con la seicento, la lavatrice" di cui cantava Ivan Della Mea negli anni '60). Ma forse non è troppo tardi perché la sinistra, che oggi sembra convinta di aver messo le braghe alla nuova fase con la formula del postfordismo, vagli questa possibilità e prenda qualche precauzione.
Il neoliberismo non è probabilmente l'ideologia definitiva del capitale: lo slogan "meno stato, più mercato" oggi è funzionale alla dismissione degli apparati pubblici legati al vecchio modello di accumulazione, ma quando i giochi saranno fatti e sarà chiaro chi guiderà il cablaggio del mondo forse la borghesia riscoprirà la propria anima statalista e l'intervento statale smetterà di nuovo di risultare "ostile" al capitale... La sinistra farebbe dunque bene a non mettersi acriticamente dalla parte del "pubblico" solo perché si inneggia al "privato", a non sposare tout court la causa dello stato (e magari della nazione) solo perché è una bandiera lasciata provvisoriamente cadere. Così facendo rischia di trovarsi schierata non già dalla parte del "popolo" contro il capitale, bensì - assai meno eroicamente - dalla parte dei vecchi padroni contro i padroni emergenti.
La stagnazione non è probabilmente la condizione definitiva del capitalismo. Se la sinistra beve troppo fiduciosamente l'amaro calice dei "limiti dello sviluppo", e si attrezza a gestire sobriamente e responsabilmente un futuro di povertà, rischia di fare la parte del pompiere (se non del gendarme) negli anni delle vacche magre per trovarsi poi spiazzata - per l'ennesima volta - quando il sistema ripresenterà la faccia delle vacche grasse. Oggi il capitalismo dispensa miseria: dobbiamo ribellarci, non farcene responsabilmente carico. E se domani dispenserà di nuovo il suo benessere a rate dobbiamo ricordare bene la faccia feroce che oggi ci mostra e saper riconoscere la profonda ingiustizia su cui fonda le fasi alte come quelle basse del suo ciclo, l'insanabile iniquità con cui distribuisce la ricchezza come la povertà.

Note
[1]. Japan Computer Usage Developement Institute, Verso una società dell'informazione. Il caso giapponese, Ed. Comunità, Milano 1974, pp. 59-60.
[2]. S. Nora, A. Minc, Convivere con il calcolatore, Bompiani, Milano 1979, pp. 144-5. Per un'analisi e un confronto degli "scenari" fantatecnologici degli anni '70, cfr. l'antologia P. M. Manacorda (a cura di), La memoria del futuro, NIS, Roma 1986 e soprattutto i saggi della Manacorda in essa contenuti.
[3]. Per avere un'idea delle posizioni sostenute in quegli anni da Luhmann e Habermas, può essere utile la raccolta di scritti J. Habermas, N. Luhmann, Teoria della società o tecnologia sociale, Etas Kompass, Milano 1973.
[4]. Riprendo il titolo del notissimo rapporto del MIT al Club di Roma: cfr. D. Meadows (a cura di), I limiti dello sviluppo, Mondadori, Milano 1972.
[5]. Così ad esempio O. Giarini, H. Loubergé, La delusione tecnologica, Mondadori, Milano 1978.
[6]. Si veda in proposito la "breve storia della telefonia" e le vicende del colosso Bell (il monopolio americano dei servizi telefonici) magistralmente narrate da B. Sterling in Giro di vite contro gli hacker, Shake edizioni underground, Milano 1993.
[7]. Lo stesso Schumpeter, critico nei confronti della teoria neoclassica che avrebbe prodotto un'analisi "statica" del sistema economico, riconosce a Marx di avere per primo affrontato il problema della "dinamica": cfr. la prefazione all'edizione giapponese in J. Schumpeter, Teoria dello sviluppo economico, Sansoni, Firenze 1971, p. XLVII.
[8]. In C. Offe, Lo stato nel capitalismo maturo, Etas Libri, Milano 1977 si veda la tabella a p. 30.
[9]. Cfr. J. Schumpeter, Teoria dello sviluppo economico, cit., p. 76.
[10]. Cfr. J. Schumpeter, Il processo capitalistico: cicli economici, Boringhieri, Torino 1977.
[11]. Cfr. M. Aglietta, Régulation et crise du capitalisme, Calmann-Lévy, Paris 1978.
[12]. Cfr. J. A. Hobson, The Evolution of Modern Capitalism, Allen & Unwin, London 1930, p. 349.
[13]. Cfr. J. Schumpeter, Capitalismo, socialismo, democrazia, Etas Libri, Milano 1984.
[14]. Coriat, ad esempio identifica nella "fabbrica snella" giapponese la forma ormai compiuta del nuovo modello di industria, e da lettore critico del fordismo (cfr. B. Coriat, La fabbrica e il cronometro, Feltrinelli, Milano 1979) si fa paradossalmente apologeta del toyotismo (cfr. B. Coriat, Ripensare l'organizzazione del lavoro, Dedalo, Bari 1991).
[15]. J. Schumpeter, Teoria dello sviluppo economico, cit., p. 76.
[16]. Ho sviluppato questa critica in un recente articolo a cui rinvio: M. Turchetto, Flessibilità, organizzazione, divisione del lavoro, in Alternative, n.1, 1995, pp. 65-73.

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