CHAOS

Ti spezzo ma non t'impiego

Il lavoro nell'era della flessibilità

Stefano Capello



Introduzione
L'accordo tra Sindacati, Confindustria e Governo firmato il 23 settembre 1996 ha rappresentato non solo un ulteriore passo avanti verso la completa deregulation del mercato del lavoro e della struttura salariale italiana, ma anche un importante punto di svolta nella definizione delle relazioni industriali nel paese.
Il "Patto per il lavoro" è infatti il primo accordo che stabilisce esplicitamente l'abbandono di un'unica struttura salariale e contrattuale valida sull'intero territorio nazionale.
L'individuazione della cosidette "aree di crisi", ossia di province in cui la deroga ai contratti nazionali diventa la regola, differenzia qualitativamente questo accordo da tutti i precedenti, compresi i famigerati accordi del luglio'92 e'93. Anche questi ultimi, che pure prevedevano elementi precisi di flessibilità salariale, facevano comunque riferimento ad un'unica struttura nazionale del salario.
Il "Patto per il lavoro" è stato reso possibile dall'introduzione, compiuta negli accordi sottoscritti da sindacati e industriali negli anni precedenti, di istituti contrattuali e salariali che rompono decisamente con il modello "rigido" di relazioni industriali preesistenti.
La sua innovatività non risiede tanto negli istituti contrattuali in se stessi, quanto nella differenziazione geografica a cui questi vengono sottoposti. Lavoro interinale, apprendistato, contratti di emersione: attorno a questi istituti, al loro ampliamento o alla loro organizzazione (lavoro interinale) ruota tutto l'accordo del governo Prodi sull'occupazione.
Per ricostruire il percorso che ha come punto d'arrivo (finora) il "Patto per il lavoro", è necessario prima esplicitare il senso del termine flessibilità, oggi utilizzato sia nell'apologetica di parte padronale, sia nella critica, con le più diverse accezioni.
In primo luogo è necessario situare la comparsa di questo termine all'apice della crisi del modello economico-produttivo denominato "fordista" e, in particolare, nel suo dispiegarsi in Italia durante la lunga recessione 1973-'83.
In breve si ha il tramonto di un sistema di produzione basato su una stretta gerarchia di mercato e su un forte grado di rigidità nella produzione in seguito alla netta separazione tra ideazione e realizzazione del prodotto (standardizzazione). L'efficacia di questo sistema derivava dal triplo rapporto tra produzione di massa e consumo di massa, produzione e occupazione, produttività e salario.
Il sistema produttivo "fordista" era pensato per sfruttare le economie di scala e necessitava quindi di un programma di sostegno al consumo di massa, rappresentato dal sistema pubblico di (parziale) redistribuzione del reddito tramite il Welfare State, tale da bilanciare il rigido nesso tra salario e produttività.
Di flessibilità si inizia a parlare come soluzione da applicare al sistema produttivo per risolvere la crisi di profittabilità che accompagna tutti i paesi a capitalismo avanzato, e permettere una nuova espansione dei profitti a danno dei salari.
In secondo luogo è necessario distinguere tra flessibilità tecnologica e flessibilità del lavoro, tenendo conto della stretta relazione tra la struttura tecnologica della produzione e quella del lavoro.


La flessibilità tecnologica
La seconda metà degli anni Settanta e il decennio successivo hanno visto l'introduzione di nuove tecnologie fondate su processi produttivi semi-automatizzati. Dal punto di vista economico l'introduzione di queste tecnologie ha comportato il decremento delle economie di scala statiche, rendendo possibile (e anzi incoraggiando) il processo di decentramento produttivo e l'esternalizzazione di alcune funzioni aziendali.
La strozzatura presente nel modello produttivo fordista viene quindi risolta mediante un'organizzazione tecnologica della produzione che consenta la diminuzione della dimensione media degli impianti. L'innovazione tecnologica che avviene in quel periodo consente infatti di automatizzare la produzione anche per bassi volumi di ouput; questa è la principale ragione del quindicennio di successi della piccola impresa italiana, che si trova ad ottenere gli stessi guadagni di produttività della media e grande impresa, con costi minori e una maggior duttilità nella variazione rispetto alla domanda. In questi ultimi anni l'ulteriore sviluppo tecnologico nel senso della flessibilità ha ridotto il vantaggio relativo della piccola impresa fino a farlo scomparire. L'evoluzione tecnologica della produzione verso sistemi integrati di automazione, insieme al ripristino di economie di scala e barriere di entrata, ha permesso alla grande impresa di riassorbire lo svantaggio iniziale sul terreno della flessibilità, e solo le piccole imprese che già si collocavano al di sopra delle conoscenze minime tecnologiche sono riuscite a sopravvivere e ampliarsi.
Queste considerazioni sono importanti perché ci permettono di capire che l'innovazione tecnologica legata al concetto di flessibilità è una forma di innovazione "di processo", e come tale porta implicitamente con sé due conseguenze:
- la riduzione del numero degli occupati come mezzo per garantire l'uso più efficiente dal punto di vista capitalistico del macchinario. D'altra parte, consistendo l'innovazione in un processo e non in un prodotto e segnatamente in qualcosa di immateriale come il flusso informatico, non si crea nemmeno un nuovo settore produttivo per la produzione di questi macchinari.
- la necessità di inserire quote crescenti di flessibilità del lavoro allo scopo di sfruttare un risparmio sui costi che si configura come il volano per impostare nuove economie di scala. Da questo punto di vista sono la media e la grande impresa, più che la piccola, a necessitare di strumenti organizzativi e legislativi adatti a imporre la massima flessibilità alla forza-lavoro per poter sfruttare al meglio le proprie dimensioni.
La flessibilità tecnologica, così come si viene delineando dalla seconda metà degli anni Settanta, può essere descritta come una parziale automazione della produzione, dove la realizzabilità tecnologica dipende sia dal coinvolgimento delle diverse funzioni lavorative (intellettuali e manuali) sia dalla loro estrema flessibilità. Questo contesto favorisce da un lato un meccanismo tecnologico di learning-by-doing e di aggiornamento costante del know-how incorporato nel sistema di macchine, dall'altro incoraggia sia il processo di esternalizzazione e decentramento produttivo sia la massima precarizzazione del lavoro.

La flessibilità del lavoro nella forma dell'esternalizzazione produttiva.

Da questo punto di vista, coerentemente con le possibilità aperte dall'introduzione delle tecnologie flessibili, in un primo momento le imprese italiane (grandi, medie o piccole che siano) hanno esaltato al massimo le caratteristiche di decentramento ed esternalizzazione di fasi e settori della produzione.
Non si è trattato esclusivamente di un decentramento produttivo verso aziende minori dell'indotto, quanto dell'abbandono da parte delle imprese della gestione diretta di alcune funzioni aziendali e della loro trasmissione ad una pletora di contoterzisti, artigiani, trasportatori, .. insomma ad una serie di figure molto diverse tra loro ma unificate da una condizione giuridica di lavoro autonomo, anche se di fatto eterodiretto.
Gli anni Ottanta sono da questo punto di vista il momento d'oro della subfornitura, processo che permette alle imprese di ottenere livelli di flessibilità del lavoro e di contrattazione individuale delle mansioni lavorative particolarmente elevati.
Lo sviluppo di questa figura è dimostrato dai dati sull'occupazione degli anni 1977-1990. Mentre il numero dei lavoratori dipendenti cresce sino al 1979, e da allora inizia una marcata diminuzione, il numero dei lavoratori auutonomi segna il valore minimo nel 1977 per iniziare un trend positivo che toccherà l'apice nel 1987, per poi stabilizzarsi.
Negli anni Novanta, il fenomeno della diminuzione dei lavoratori dipendenti subirà un'accelerazione, mentre il numero dei lavoratori autonomi rimarrà inalterato; in questo decennio, infatti, le imprese avranno a disposizione nuovi strumenti legislativi finalizzati alla flessibilizzazione del lavoro.
Come si può notare, per tutto il periodo che va dal '77 al '90 vi è una relazione negativa tra lavoro dipendente e lavoro autonomo, che si innesca nel momento in cui le imprese abbandonano il modello fordista basato su stabilimenti di grandi dimensioni a produzione concentrata e sul controllo proprietario di tutte le fasi di produzione e distribuzione.
Non ci troviamo esclusivamente di fronte alla cessione a piccoli imprenditori delle concessionarie delle grandi case automobilistiche, ma ad una più generale operazione di trasferimento all'esterno dell'impresa di parti della produzione stessa.
Né si può pensare che questo fenomeno sia avvenuto esclusivamente nel campo dei cosiddetti "servizi". In primo luogo l'analisi settoriale dei dati sull'occupazione ci mostra una maggiore incidenza della relazione negativa dipendenti-autonomi proprio nel settore dell'industria manifatturiera; in secondo luogo gran parte delle attività svolte dai lavoratori autonomi si configurano come la prosecuzione di un lavoro subordinato in un sito diverso dall'impresa committente: fuori dall'illusione statistica, è difficile pensare che un impiegato amministrativo, un autotrasportatore, un ingegnere softwerista o un operaio specializzato che continuino a fare lo stesso lavoro per la stessa azienda, ma sotto la forma di consulenza o prestazione d'opera invece che da dipendente, siano classificabili nel terziario.
Il modello di flessibilità del lavoro introdotto dall'esternalizzazione produttiva permette alle imprese un abbassamento del costo del lavoro non solo perché il lavoro autonomo rappresenta un carico fiscale irrisorio per le imprese, ma anche perché tutti i costi derivanti dal rischio di malfunzionamento del macchinario, dalla mancata fornitura di pezzi e semilavorati, nonché dall'eventuale aggiornamento lavorativo vengono scaricati interamente sul lavoratore autonomo stesso.
Queste figure, oltretutto, se da una lato assumono su di sé il "rischio imprenditoriale", dall'altro non godono di una reale indipendenza nei confronti dell'azienda (o delle aziende) "clienti": la proliferazione di lavoratori autonomi con caratteristiche e saperi simili, la loro dipendenza dal sistema creditizio (controllato dallo Stato e dalle imprese) e la loro atomizzazione competitiva, diminuisce radicalmente le possibilità contrattuali di questa figura.
Nel settore dell'industria manifatturiera privata, prevale quindi negli anni Ottanta la ricerca della flessibilità del lavoro tramite l'esternalizzazione delle funzioni produttive.
La logica dell'esternalizzazione delle funzioni produttive è stata applicata in questi anni anche al comparto pubblico. Non ci riferiamo in questo caso alle aziende manifatturiere statali, le quali hanno seguito tempi e modi di riorganizzazione produttiva non dissimili da quelli delle aziende private, quanto al servizio pubblico, sia nella veste di fornitore di infrastrutture (ferrovie, telefonia, poste), sia in quella di fornitore di assistenza e previdenza.
In questi settori, la peculiare natura di servizio alla collettività ha fatto sì che la flessibilizzazione del lavoro sia potuta penetrare solo a rimorchio di una più generale offensiva volta a trasformare i servizi pubblici in aziende.
Questo obiettivo non è stato perseguito tanto mediante la privatizzazione del servizio stesso (a parte il travagliato e non concluso caso della telefonia), quanto mediante la progressiva trasformazione dell'Ente erogatore del servizio in azienda di proprietà pubblica ma di diritto privato, la cui ragione sociale è la vendita del servizio stesso. Un processo di questo genere ha interessato sia le ferrovie che le poste, sia il settore formativo (scuole, Università) che quello sanitario e più in generale assistenziale.
Tutti questi Enti sono stati ridotti per dimensione e per numero di tipologie di intervento, sono stati trasformati nella loro organizzazione interna mediante un'autonomia gestionale che ha esaltato i ruoli manageriali delle dirigenze amministrative e i vincoli di bilancio alla loro possibilità di spesa, e infine parte della gestione dei servizi è stata affidata alla concorrenza tra privati.
Si è innescato così un processo i cui obiettivi sono due, in stretta relazione tra loro. Da un lato l'aumento dell'efficienza dell'unità di offerta tramite la concorrenza nell'assegnazione della gestione del servizio. Dall'altro il risparmio del bilancio pubblico grazie all'abbassamento del costo del servizio stesso derivante dall'aumento dell'efficienza.
Il servizio pubblico è stato così ristrutturato secondo un modello che vede:
- il "centro" del servizio, che rimane a proprietà statale ma viene trasformato in azienda autonoma incaricata dell'amministrazione del settore d'intervento e dei servizi centrali e di maggiore utilità;
- l'amministrazione pubblica, incaricata di elaborare le politiche generali d'intervento sia a livello delle infrastrutture sia a livello sanitario assistenziale e formativo;
- una serie di soggetti privati in concorrenza tra di loro che, mediante convenzioni o appalti, gestiscono un sempre maggior numero di servizi la cui erogazione competerebbe all'Ente appaltatore.
Naturalmente l'aziendalizzazione del servizio pubblico ha mutato anche il rapporto tra il servizio stesso e gli utenti.
La trasformazione dell'assistenza in servizio a pagamento, la progressiva scomparsa della previdenza e l'innalzamento dei costi al pubblico dei servizi postali e ferroviario sono espressioni della stessa operazione di trasformazione delle garanzie e dei diritti acquisiti, tramite la leva fiscale, in sicurezze (assistenza-previdenza) a merci (infrastrutture) da acquistare.
In sintesi si ha il passaggio dal "Welfare State" al "Welfare market", dove tendenzialmente la gratuità del servizio e le politiche di assistenza sono devolute esclusivamente ai settori più emarginati della popolazione in forma di "carità pubblica", mentra a tutti gli altri è imposto il pagamento dei servizi sia nei confronti dell'Ente pubblico che delle strutture private. Per quanto riguarda la previdenza se ne progetta la definitiva sostituzione con quella privata e con un assegno pubblico di sopravvivenza per i "poveri vecchi". Non parliamo poi di Poste e Ferrovie il cui aspetto di servizio pubblico semplicemente sparisce.
Il meccanismo principale che ha permesso (e sta pemettendo) la riuscita di quest'operazione è l'appalto dei servizi.
Il sistema della gara d'appalto permette infatti sia l'imposizione di regole ricattatorie sull'espletamento del servizio, sia lo scatenarsi della competizione tra strutture diverse, cosa che porta fatalmente al ribasso dei costi.
Il meccanismo dell'appalto permette un risparmio considerevole sull'erogazione del servizio e l'assenza di conflittualità da parte dei lavoratori del servizio stesso, sottoposti al ricatto della disoccupazione in caso di rescissione dell'appalto.
Nei servizi infrastrutturali questa dinamica ha avuto come protagonisti servizi privati preesistenti o ex-dipendenti che, nella forma del lavoro autonomo individuale o in forma associata, hanno continuato a svolgere come "consulenti" lo stesso lavoro di prima.
In questo settore l'esternalizzazione non si è ancora sviluppata pienamente a causa del grosso numero di funzioni che restavano al "centro"; i recenti progetti di ristrutturazione delle Poste e delle Ferrovie portano però in quella direzione.
Nel campo dell'assistenza, il principale strumento legislativo che ha permesso l'esternalizzazione è stata la legge 381 del 1991 che ha individuato nelle cooperative sociali gli strumenti più adatti a dare corpo al trasferimento di incombenze spettanti allo stato, verso il privato.
La forma della cooperativa è stata preferita soprattutto per la capacità dimostrata tra la seconda metà degli anni Settanta e oggi di aderire ai bisogni prodotti dalla società con un'incredibile capacità di adattamento e flessibilità.
La loro struttura fortemente identitaria e il meccanismo di condivisione del rischio imprenditoriale, oltre alla capacità di coinvolgimento del lavoratore nel suo lavoro, ne ha fatto degli strumenti perfettamente rispondenti alle necessità poste dalla "sostituzione competitiva" del servizio pubblico. D'altra parte, l'immissione delle cooperative sociali nella logica della competizione per l'assegnazione degli appalti e la loro adesione al meccansimo di riduzione della spesa per i servizi socio-assistenziali hanno trasformato in profondità la ragione sociale delle cooperative stesse, introducendo meccanismi di efficienza interna (standardizzazione dei processi organizzativi e decisionali), efficienza esterna (adattamento alle richieste dell'offerta pubblica) e flessibilità aziendale, che hanno definitivamente minato il carattere egualitario e democratico con il quale queste esperienze avevano visto la luce.


La flessibilità nei rapporti di lavoro dipendente
Se l'esternalizzazione è stata la forma della flessibilizzazione del lavoro negli anni Ottanta, a partire dalla fine del decennio e per tutti gli anni Novanta il mercato del lavoro ha subito una strisciante quanto drastica riforma che ne ha modificato la struttura tanto nel campo delle assunzioni e dei licenziamenti quanto in quello salariale e organizzativo. Dal punto di vista salariale, gli accordi del luglio'92 e'93, i grandi accordi integrativi del'94 e alcuni accordi come quello FIAT/sindacati a Melfi (fondato su differenziali salariali rispetto agli altri stabilimenti del gruppo e sull'introduzione del salario d'ingresso) hanno introdotto elementi crescenti di flessibilità nella determinazione del salario.
Il recente contratto nazionale dei metalmeccanici e la norma contenuta nel "Patto per il lavoro" che permette lo sfondamento dei minimi salariali nei "contratti d'area" (norma successivamente rigettata dal Parlamento in prima lettura) sono altrettanti passi verso la cancellazione del livello salariale nazionale unico in favore di una struttura salariale flessibile soggetta direttamente alle esigenze di profittabilità delle imprese.
In una soluzione del genere alla contrattazione nazionale resterebbe esclusivamente il terreno normativo, ossia lo "sfondo" generale sul quale inserire la contrattazione azienda per azienda.
In secondo luogo, dal punto di vista dei tempi di lavoro, la ristrutturazione volta ad inserire un maggior grado di flessibilità ha proceduto sia sul piano della distribuzione del normale tempo di lavoro, sia in termini di straordinario. Da un lato infatti si è proceduto gradualmente verso la produzione a ciclo continuo sette giorni su sette, dall'altro è aumentata la quota di straordinario nell'industria manifatturiera da una percentuale del 2,5% nel 1982 ad oltre l'8% negli anni Novanta, per un orario che di fatto oggi supera le 42 ore settimanali. Non a caso negli ultimi anni abbiamo assistito all'inizio di un attacco alla differenzazione fra remunerazione ordinaria e straordinaria.
In terzo luogo tra il 1987 e il 1993 si è verificata la progressiva flessibilizzazione del mercato del lavoro. La regolazione di quest'ultimo è mutata nel senso della flessibilità nella tipologia delle assunzioni e dei contratti di lavoro, mentre è stata introdotta una nuova regolazione dei licenziamenti di massa più favorevole alle imprese.
Per quanto riguarda le assunzioni, lo strumento legislativo che ha consentito maggiore libertà d'azione imprenditoriale è stata la legge di riforma dell'ufficio di collocamento. Questa legge, la 223 del 1991, ha sancito il definitivo passaggio dalla chiamata numerica a quella nominativa, perfezionando la legge del 1984 che aveva già introdotto il concetto di chiamata nominale limitandola però al 30% delle chiamate e solo per professioni ben determinate.
Per quanto riguarda il contratto di lavoro e la durata dell'assunzione, lo strumento utilizzato dalle imprese è stato il graduale passaggio dal contratto a tempo indeterminato a quello a tempo determinato.
Le leggi che hanno accompagnato questo processo sono la legge 56 del 1987 che ha liberalizzato il lavoro temporaneo e a tempo determinato, la legge 863 del 1984 che ha introdotto liberalizzazioni nel part-time e nei contratti di formazione e lavoro, infine le leggi 236 e 462 del 1993 che hanno disciplinato l'assunzione di lavoratori in stage di apprendistato a tempo determinato e forme di "inserimento professionale" per chi ha un'età compresa tra i 19 e i 32 anni.
A queste leggi è necessario aggiungere l'istituzione del lavoro interinale previsto dall'accordo nazionale sul salario e il lavoro del luglio'93 e disciplinato dal recente Patto per il lavoro del settembre'96, e il ricorso da parte degli Enti pubblici alle assunzioni temporanee per i lavori socialmente utili.
Questi contratti, denominati come "atipici", sono stati particolarmente utilizzati nella riammisione nel mercato del lavoro di lavoratori in lista di mobilità, ma tendono a diventare il modello universale di assunzione. In Piemonte la CGIL regionale calcola che ormai più del 50% delle assunzioni avvengono con queste modalità, mentre l'agenzia per l'impiego della Lombardia calcolava che il 60% delle assunzioni avvenute in regione tra il gennaio 1994 e il marzo 1995 siano avvenute nello stesso modo.
Il grimaldello che ha permesso il rapido dilagare delle assunzioni "atipiche" è stato il processo di sostituzione, che queste leggi hanno innescato, tra chi gode di un contratto di lavoro a tempo indeterminato (e sempre più viene immmesso nelle liste di mobilità) e chi entra nel mercato del lavoro con un contratto "atipico".
Bisogna anche sfatare il luogo comune che vede i contratti "atipici" come l'unica soluzione di fronte al dilagare del lavoro nero. Al contrario, quest'ultimo si dimostra complementare alla flessibilizzazione del rapporto di lavoro, come dimostrano altri dati raccolti dall'INPS in Lombardia che denunciano una crescita di ben 14,5 punti percentuali del numero di imprese nelle quali sono state rilevate posizioni non in regola (dal 51,5% al 65% delle imprese ispezionate).
Infine, per quanto riguarda i licenziamenti collettivi, la già ricordata legge 223 del 1991 introduce di fatto la libertà di licenziamento per ragioni economiche tramite l'inserimento in liste di mobilità.
Questa legge e la concertazione sindacale hanno definitivamente sancito per via giuridica la dipendenza dei livelli occupazionali dalle esigenze delle imprese. In questo modo è stato definitivamente accantonato lo Statuto dei lavoratori, eliminando ogni differenza tra la struttura produttiva della media-grande impresa e quella della piccola, e abolendo ogni forma di tutela del lavoratore.
In conclusione si può affermare che in pochi anni (segnatamente attorno al triennio 1991-1993) il mercato del lavoro è stato pienamente liberalizzato. L'esito conclusivo dell'emergere di un modello di accumulazione flessibile è la dipendenza di occupazione e salario dai profitti e dalle esigenze imprenditoriali.
Questo esito è stato ampiamente preparato dalla concertazione a tre tra governo, sindacati e padronato e il modello di flessibilità che ne è derivato è quello del predominio della contrattazione individuale sancita dal crescente peso delle assunzioni atipiche, per loro natura individuali. La contrattazione individuale si fonda esplicitamente sullo scambio tra coinvolgimento e affidabilità del lavoratore con la partecipazione agli eventuali guadagni dell'azienda; escludendo quindi la contrattazione collettiva.
D'altra parte quest'ultima è stata sempre più indebolita negli ultimi anni dalla politica dei sindacati confederali. Questi ultimi hanno infatti trasformato il loro ruolo in agenti di controllo istituzionale delegati alla definizione del contesto generale normativo del lavoro. In questo modo hanno deliberatamente abbandonato ogni ruolo di portavoce degli interessi compositi del mondo del lavoro stesso.


Sbocchi possibili
A partire dal quadro tracciato in questo articolo, è facile prevedere un'ulteriore estensione della flessibilità del lavoro nei prossimi anni. In questo senso le dichiarazioni rilasciate il 15 febbraio a Treviso dal governatore di BankItalia Fazio hanno il pregio dell'assoluta chiarezza.
D'altra parte il rafforzarsi della flessibilità del lavoro è perfettamente in linea sia col modello internazionale di "competizione globale", sia con la sua applicazione italiana basata su bassi salari e svalutazione strisciante.
Il recente rientro dell'Italia nella struttura dello SME e quindi l'accettazione di cambi quasi fissi ha del resto escluso nei fatti il ricorso alla svalutazione come strumento competitivo. Inoltre il rientro nello SME ha significato per la lira una forte rivalutazione nei confronti del marco, come pedaggio per l'aggancio strategico alla moneta tedesca. Questa rivalutazione sta colpendo duramente una struttura economica come quella italiana basata sulle esportazioni nell'area comunitaria, senza che le progressiva svalutazione della lira nei confronti del dollaro abbia permesso di compensare questa perdita con un equivalente aumento delle esportazioni nell'area dipendente dalla moneta americana.
Questi due fattori fanno sì che nei prossimi anni rimanga esclusivamente il basso costo del lavoro a fungere da volano per l'economia italiana. Tra il 1991 e il 1996 questo è già sceso del 35% rispetto ai pur minimi aumenti (rispettivamente del 4% e del 5%) che ha registrato in Francia e in Germania e alle decise, ma molto inferiori, diminuzioni registrate in USA e Gran Bretagna (attorno al 10%).
Questa enorme diminuzione non sembra bastare alla Confindustria e alle istituzioni finanziarie nazionali, ben consapevoli di avere a che fare con una struttura produttiva arretrata rispetto agli standard del G7 e posizionata in modo subalterno rispetto ai potenziali affari in campo tecnologico e delle comunicazioni.
A questo quadro si deve aggiungere il ricorso da parte di molte piccole imprese, messe in crisi dall'applicazione su scala generale della flessibilità tecnologica e di quella del lavoro, a una sorta di "ulteriore flessibilità difensiva", ossia un tentativo di sopravvivenza basato su un fortissimo grado di pressione sul lavoro.
Nel contempo, come dicevamo sopra, al sindacato è stato assegnato il ruolo di agente di controllo della forza-lavoro e di agenzia di "servizi".
Con il termine servizi non intendiamo riferirci ovviamente al ruolo storico di patronaggio svolto dalle organizzazioni sindacali, bensì alla loro compartecipazione allo smantellamento del Welfare e alla stessa flessibilizzazione del lavoro. Da una parte i confederali stanno infatti attrezzandosi per gestire settori di Welfare privatizzato compartecipando ai fondi pensione integrativi, gestendo direttamente mutue e assicurazioni oppure (come nel recente patto tra CISL, ACLI, Compagnia delle Opere e altre organizzazioni "sociali" dell'area cattolica) promuovendo "cartelli sociali" allo scopo di controllare l'erogazione di quelle prestazioni di assistenza privatizzate dallo Stato. Dall'altra nei progetti di legge sul lavoro interinale è prevista una partecipazione sindacale alle Agenzie per il lavoro incaricate di gestire il "prestito" dei propri dipendenti-iscritti alle varie aziende di un dato comprensorio economico, fungendo così da vere e proprie agenzie di intermediazione non dissimili dalla pratica del caporalato. Come si può vedere un salto di qualità degli apparati sindacali da venditori della forza-lavoro a promotori del lavoro umano "usa e getta".


Conclusioni
Questa carrellata ci permette di capire come la flessibilità possa essere considerata il paradigma della nuova organizzazione del lavoro. Non si tratta più della precarizzazione di settori produttivi marginali, ma del modello sociale complessivo della nostra modernità. Nessun settore produttivo o riproduttivo e nessuna figura lavorativa possono essere considerati estranei a questo rimodellamento dei rapporti sociali.
Il ritardo del nostro paese nell'introduzione di quegli istituti che in tutto l'Occidente hanno aperto la strada della flessibilità fa sì che nel 1994 il 93,8 % della forza-lavoro complessiva italiana fosse ancora formata da lavoratori a tempo indeterminato; oggi cifre parziali indicano questa percentuale sotto l'80%. In Olanda e nel Regno Unito già tre anni fa la quota di lavoratori temporanei era rispettivamente del 27% e del 25% mentre quella di lavoratori part-time era del 36,4% e del 23,8%. Come ulteriore conferma di questa tendenza possiamo citare il dato sul numero di lavoratori "prestati" quotidianamente dalle cinque aziende leader nel lavoro interinale: 471.000 in oltre 30 diversi paesi.
D'altra parte le cifre citate, riferite agli anni '95-'96, denotano come anche in Italia le nuove assunzioni avvengano con modalità che nulla hanno da invidiare a quelle dei due paesi leader nell'introduzione del lavoro flessibile.
Flessibilità quindi come modello sociale complessivo; modello sociale basato su una paradossale diminuzione del tempo di lavoro complessivo calcolato sull'insieme della popolazione in età di lavoro.
Quello che risulta da questi dati è da un lato l'allungamento della giornata lavorativa favorito dalla flessibilizzazione dell'orario di lavoro, dall'altro la diminuzione del numero di giornate lavorative per individuo, permesso dalla flessibilizzazione contrattuale.
Sostanzialmente le imprese prefereriscono utilizzare una forza-lavoro ridotta per più ore quotidiane piuttosto che un maggior numero di lavoratori per più tempi abbinati. In questo modo possono disporre sia di un nucleo ridotto di lavoratori fissi per lo più collocati in funzioni strategiche con l'orario di lavoro allungato, il salario sempre più dipendente dall'andamento aziendale e fortemente ricattabili grazie all'alto livello di disoccupazione, sia di una massa di lavoratori disponibili ad accettare orari e salari deregolati da assumere temporaneamente in caso di necessità.
Lo scenario che si va componendo sotto i nostri occhi non è quello di un mercato del lavoro garantito e di uno precario incomunicanti tra di loro, bensì di un unico mercato del lavoro flessibile nel quale persistono modalità differenti di flessibilità.
Anche i settori più privilegiati, d'altronde, non sfuggono a questo destino, vista la tendenza all'aumento della quota di stipendio legata al buon rendimento aziendale e la facilità di licenziamento introdotta anche tra i tecnici e gli impiegati di livello elevato.
La presenza di un comune destino di flessibilità non comporta però una comunanza di condizione tra i lavoratori: da un lato infatti la flessibilità è stata introdotta in Italia ampliando lo spazio della contrattazione individuale e quindi lasciando il lavoratore solo davanti all'impresa, dall'altra l'introduzione della flessibilità non ha affatto scalfito i livelli di gerarchizzazione tra i lavoratori, che anzi si sono arricchiti di nuovi elementi di competizione individuale.
La conseguenza fondamentale dell'introduzione della flessibilità è stata quindi quella di aver rafforzato la solitudine del lavoratore davanti al lavoro, di aver fatto di ogni lavoratore una singolarità di fronte al sistema d'impresa.
Quello che tende a scomparire quindi è l'autoevidenza di una condizione comune tra i lavoratori; il rapporto con l'organizzazione del lavoro tende a disperdersi in migliaia di situazioni diverse difficilmente unificabili anche solo su un piano contrattuale di fronte a una controparte.
La condizione del lavoro nell'era della flessibilità pone non pochi problemi alla ripresa di una mobilitazione anticapitalistica.
Le lotte di resistenza contro l'introduzione della flessibilità e contro il radicalizzarsi di questo modello sociale sono momenti importanti per reimpostare una critica offensiva agli assetti di classe oggi vigenti, ma da sole non bastano.
Il limite di queste mobilitazioni, soprattutto quando vengono gestite da forze sindacali, è quello di non considerarsi come critica attiva al modello di relazioni sociali, ma semplicemente come forma di difesa di una condizione di vita e di lavoro di fronte al rischio concreto di un peggioramento.
Il loro isolamento è spesso il risultato dell'applicazione di questa logica a metà tra il difensivo e il corporativo, incapace di trasmettersi come esempio e come affermazione di valori contrapposti a quelli dominanti al resto della popolazione e ad altri settori di lavoratori.
La mobilitazione francese dell'autunno '95 è al contrario la dimostrazione di come la capacità di concentrare la propria lotta su questioni riguardanti l'insieme del corpo sociale e di contrapporre alla vulgata dominante sulle questioni economiche un insieme di valori antagonisti, abbia consentito ad alcuni scioperi settoriali di costruire un movimento di massa la cui partecipazione è andata ben oltre gli angusti confini delle categorie direttamente interessate alla mobilitazione.
La prima condizione che può quindi permettere l'unificazione del lavoro diffuso e atomizzato è quindi direttamente politica.
Nessuna lotta può oggi uscire dallo spazio ridotto della rivendicazione specifica senza costruire una visione del mondo complessiva da opporre a quella dominante. Obiettivi di sindacalismo puro o pratiche di pura rivendicazione salariale mostrano la corda di fronte a un nemico che sull'accettazione del modello sociale dominante come naturale ha costruito gran parte della sua fortuna. D'altra parte rifiutare una logica dove il rapporto salariale viene gestito sul livello della relazione individuale tra padrone e dipendente, significa riconoscersi in una logica di rifiuto della promozione personale e di riconoscimento solidale con gli altri lavoratori. Virtù, questa, tutt'altro che naturale, ma squisitamente politica.
La seconda condizione necessaria è quella che riguarda la forma associativa dei lavoratori. Questa, nel tempo del nomadismo lavorativo e della precarietà del posto di lavoro, non può essere legata ad uno specifico posto di lavoro, ad una determinata categoria o a una qualifica lavorativa particolare. Nel momento in cui la vita lavorativa di un individuo tende a diventare un insieme di esperienze diverse, la possibilità di associare lavoratori in un progetto anticapitalistico risiede anche nella sua capacità di configurarsi come associazionismo politico radicato sul territorio capace sia di intercettare i flussi di lavoratori non più legati ad un posto di lavoro determinato, sia di fungere come forma di comunicazione generalizzata di un'eventuale mobilitazione, sia di costruire una massa critica da mettere in campo per ribaltare i rapporti di forza sfavorevoli oggi esistenti sui posti di lavoro.
La terza condizione è rappresentata dalla presa in carico di una lotta generale che abbia come obiettivi la restaurazione dell'indipendenza del lavoratore dal sistema d'impresa e la sua libertà dalla minaccia della miseria. Da questo punto di vista, ci sembra che le rivendicazioni sulla riduzione generalizzata dell'orario di lavoro e sul salario di cittadinanza combinate assieme possono essere un buon terreno sul quale dare battaglia per raggiungere questi obiettivi. Inoltre la positività di queste proposte risiede nella loro opposizione alla logica economica dominante, secondo cui l'attuale impoverimento dei lavoratori sarebbe causato dal generale impoverimento delle nostre economie. Al contrario, proporre l'intoduzione di un redditto minimo garantito e la riduzione generalizzata dell'orario a parità di salario significa affermare l'esistenza di una ricchezza aggiuntiva che oggi non viene redistribuita a causa dei limiti sociali imposti dal meccanismo dell'appropriazione capitalistica.
Naturalmente queste proposte possono mantenere la loro validità solo se vengono assunte come obiettivi da un movimento sociale e politico anticapitalistico. In caso contrario è del tutto evidente la possibilità di un loro uso parziale e distorto da parte di governi e direzioni d'impresa allo scopo di aumentare la flessibilità e di inventarsi un salario di sussistenza che - ben lungi dall'essere strumento di emancipazione - costituirebbe un nuovo laccio al collo del proletariato.
Mi sembrano invece da respingere in blocco gli appelli all'espansione del terzo settore che spesso vengono affiancati alle prime due proposte. Questa, nel momento in cui venisse assunta come obiettivo, comporterebbe esclusivamente un'ulteriore avanzamento della logica del "farsi impresa" tra i lavoratori producendo non libertà ed indipendenza ma il loro esatto contrario, rafforzando la dipendenza dei lavoratori stessi dalle compabilità imposte dalla logica economica di mercato.
È attorno alla costruzione di queste tre condizioni che a mio parere può ruotare la ripresa di un lavoro politico anticapitalistico che sappia porre le basi per il ribaltamento del modello sociale capitalistico nell'era della flessibilità.


Bibliografia:
A. Fumagalli, "Lavoro e piccola impresa nell'accumulazione flessibile in Italia", altreragioni, numero 5, 1996.

A. Fumagalli, Relazione al convegno "Flessibilità, organizzazione del lavoro e qualità delle nuove lotte" tenutosi a Chiavari il 22-23 marzo 1997 e organizzato dalle riviste Chaos, Ombre Rosse, Comunismo libertario, Collegamenti Wobbly, di Base.

D. Sacchetto, "Nodi di autonomia controllata: il tessile e abbigliamento nel Veneto", altreragioni, numero 5, 1996.

S. Bologna, "Problematiche del lavoro autonomo in Italia", parte prima Altre Ragioni, no1, 1992; parte seconda, altreragioni, numero 2, 1993.

N. Gambula, "No-profit e cooperazione sociale. Forme mascherate di toyotismo nostrano", documento autoprodotto a circolazione militante, rintracciabile presso l'autore di quest'articolo.

Comitato contro il lavoro precario, "Riflessione sulla precarizzazione e flessibilizzazione del lavoro", Lettera ai Quaderni di Campo Visivo, c/o Panetteria Occupata, via Conte Rosso, 20, Milano - Tel. (02)29518961 oppure (02)66100895.