CHAOS

Per un'ecologia politica


Pino Caputo


Mai come oggi l'umanità si è trovata a dover affrontare gli attuali problemi, apparentemente insormontabili, sulle possibilità e gli sviluppi di un'azione di politica ecologica. Allo stesso tempo mai come oggi il capitalismo si è trovato di fronte alle contraddizioni ecosistemiche poste dal suo stesso essere. Data tale situazione ciò che è importante notare, e che costituisce il mio punto di partenza, è che i magnificatori del capitale sostengono che la capacità dell'uomo di trasformare la natura determini anche la possibilità di dominarla.
Penso di poter sostenere, senza tema di smentite, che l'elemento centrale comune agli insiemi «problemi teorici di politica ecologica» e «contraddizioni del capitalismo» sia la degenerazione del rapporto uomo-ambiente. L'ambiente inteso qui, come nel resto dell'articolo, è, si badi bene, un ambiente dinamico, aperto alle modificazioni apportatevi dall'uomo stesso nel corso della storia, e che ingloba quindi anche le creazioni tecnologiche. Un punto di vista ancor più radicale è quello, per esempio, di Donna Haraway, secondo la quale la natura è annullata dal corso della storia umana (Donna J. Haraway, Manifesto Cyborg, Feltrinelli, Milano, 1995). La degenarazione di cui si diceva mostra due evidenze complementari: l'alienazione e la crisi di vivibilità nel nord del mondo, e la crisi di sopravvivenza nel sud dello stesso. Ma qual'è la correlazione fra l'espansione illimitata della produzione e del consumo, propria dell'immaginario capitalistico (e non solo, permettetemi) e la degenerazione del rapporto uomo-ambiente? Tenterò una spiegazione.

Politica, energia e capitalismo
La produzione è un processo di trasformazione operato sulla materia mediante l'uso di energia. Sia la materia, qualunque essa sia, che l'energia, qualunque forma assuma, sono fornite dalla natura. Un processo di produzione non è altro che la trasformazione di materia ed energia. Ergo, la produzione non è altro che la trasformazione della natura. L'ambiente viene continuamente modificato dai processi di produzione messi in atto dall'uomo e, se nel termine "ambiente" si ingloba il complesso di relazioni sociali esistenti fra gli uomini, la dicotomia uomo-ambiente può essere ridotta al solo apparentemente più semplice rapporto uomo-uomo. Ne consegue, ed è un'assunzione molto importante, che le problematiche ambientali ed ecologiche possono essere ricondotte al livello di rapporti politici.
Questa asserzione non è formalmente corretta, perché se l'uomo è parte dell'ecosistema una modificazione di questo modifica anche quello. Però se pensiamo di poter distinguere, in prima approssimazione, il contributo umano all'evoluzione (intesa come trasformazione continua) dell'ambiente, possiamo ritenere valida l'assunzione fatta, in quanto l'uomo modifica l'ambiente molto più velocemente di quanto l'ambiente modifichi l'uomo. Capirete allora che un'umanità che si regge sotto la spinta della massimizzazione della produzione, del consumo e del profitto derivante dalle attività di produzione, sia destinata molto presto a fare i conti con un ambiente modificato oltre misura dalla sua stessa attività. «Un'economia a profitti crescenti esercita un'enorme pressione sulle risorse e sui sistemi ambientali che sono soggetti a limiti, ad esaurimenti e a distruzione» (Paul Christensen, in Oikos, 3, 1991). Viene da chiedersi: può il capitalismo coniugare la voracità intrinseca del proprio motore (massimizzazione di produzione, consumo e profitto) con la sempre più difficile disponibilità a buon mercato del combustibile (materie prime e risorse naturali)?
Si può essere scettici quanto si vuole sull'affermazione che lo sfruttamento capitalistico delle risorse porti verso una degradazione progressiva dell'ambiente, e ritenere cioé il capitale capace di autocorrezione e di riequilibrio rispetto alle nuove condizioni create; ma capitale e distruzione delle risorse procedono come Achille e la tartaruga nel famoso paradosso di Zenone, in cui Achille rappresenta il capitalismo e la tartaruga rappresenta l'ultima risorsa disponibile. Nel paradosso Achille non raggiunge mai la tartaruga, ma vi si avvicina ad ogni passo. Nella realtà ogni passo che ci avvicini all'ultima risorsa disponibile (del resto non vedo proprio come il capitale possa "creare" risorse naturali) rappresenta una condizione in cui umanità ed animalità sono costrette a vivere sempre peggio. Questa non è solo una considerazione morale. Ogni evento naturale, e le azioni dell'uomo sono un evento naturale, è irreversibile (II principio della termodinamica) ed ogni evento naturale implica una trasformazione di energia. L'energia totale si conserva quantitativamente (I principio della termodinamica) ma non qualitativamente, nel senso che essa si degrada fino ad assumere una forma più dispersa e caotica. Come può il capitalismo contrastare questa tendenza e fare in modo che si riequilibrino i processi entropici e i processi antientropici, essendo questi ultimi fluttuazioni locali di sistemi lontano dall'equilibrio termodinamico (le strutture dissipative [1])? Oppure come si può pensare che sia in grado di riequilibrare le velocità di creazione e di consumo dei combustibili fossili, consumo che è alla base dei processi produttivi?
Con nuove e più sofisticate tecnologie?
Non credo proprio. Anche se è indubbio che la scienza con la sua retorica della verità, ovvero come elemento mitologico esterno alla società umana impostosi come unica fonte capace di produrre verità, tende a legittimare tale possibilità. Anche in virtù di una progressiva adesione ideologica dell'uomo occidentale alla retorica della verità scientifica (Cfr. Tomas Ibañez, in Chaos, 6/7, 1995).
Infatti, come spiega James O'Connor è opinione comune, diffusa in Occidente a partire dal diciottesimo secolo, «l'idea che la scienza e la tecnologia, insieme con la proprietà privata e l'economia di mercato, determinino due tipi di libertà, quella dai pericoli delle devastazioni di una natura sconosciuta ed incontrollabile e quella di poter trasformare la natura in modo razionale onde assicurare la "ricchezza delle nazioni". La scienza e la tecnologia permetterebbero all'uomo di controllare la natura, anziché esserne controllati» (James O'Connor, in Capitalismo Natura Socialismo, 1, 1991).

La favola dello sviluppo sostenibile
Questa visione della tecnologia è ben lungi dall'essere abbandonata, anzi mai come oggi c'è stata una spinta così massiccia al rinnovamento tecnologico del capitale. Il famosissimo Rapporto Brundtland della World Commission on Environment and Development (in cui il rappresentante italiano era la senatrice Susanna Agnelli), presuppone una soluzione tecnologica alle problematiche ambientali, a quelle economiche e al superamento della povertà, soluzione che è comunemente conosciuta come "sviluppo sostenibile".
In questo rapporto lo sviluppo sostenibile è definito come lo sviluppo che permette il soddisfacimento dei bisogni delle generazioni attuali senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni (World Commission on Environment and Development, Il futuro di noi tutti, Bompiani, Milano, 1988).
Non nascondo che questa definizione mi risulta abbastanza incomprensibile. Quali saranno i bisogni delle generazioni future? Da quanti individui saranno composte? E perché dovremmo assicurare il soddisfacimento dei bisogni delle generazioni future e non quello di tutti gli individui delle generazioni presenti? Credo che nessuno sappia rispondere a queste domande ed è una delle ragioni per cui lo sviluppo sostenibile nella sua formulazione originaria rimane una soluzione puramente teorica. Tanto più che è evidente che lo sviluppo sostenibile potrebbe essere attuato solo con una rigorosa concertazione internazionale che stabilisca obblighi comuni. Infatti «se in un certo paese le imprese vengono obbligate ad adottare costosi accorgimenti per ridurre o eliminare l'inquinamento, tali imprese possono trovarsi in condizioni svantaggiose, nella concorrenza internazionale, rispetto alle imprese di altri paesi in cui questi obblighi non siano stati introdotti» (Alessandro Roncaglia e Paolo Sylos Labini, Il pensiero economico, Laterza, Bari-Roma, 1995). Questo è uno degli argomenti preferiti dalle imprese dei paesi occidentali per opporsi alle cosiddette tasse sull'inquinamento o comunque a qualsiasi proposito legislativo che metta in diretta connessione inquinamento ambientale con produzione industriale [2]. E' un argomento forte che unito al sostanziale fallimento di qualsiasi tentativo di accordo internazionale effettivamente vincolante, dà la spallata finale alla bella favola dello sviluppo sostenibile. Inoltre, tornando sul piano teorico, neanche la sostituzione dell'aleatoria "soddisfazione dei bisogni delle generazioni future" con variabili presumibilmente più oggettive (tasso sociale di sconto, mantenimento della diversità delle opzioni economiche a disposizione, consumo di energia pro-capite) aiuta molto: alla fine ciò che rimane è solo un inutile appello alla responsabilità morale (come per esempio in Alessandro Vercelli, Etica e tempo, in "Ecologia e..." a cura di Enzo Tiezzi, Laterza, Bari-Roma, 1995). Inutile perché ritengo la morale di chi attualmente ha il potere di prendere decisioni incompatibile con uno sviluppo sostenibile, ma soprattutto perché ritengo il capitalismo irresponsabile rispetto alle problematiche ambientali globali. Infatti il problema ecologico, il problema della disoccupazione, il problema demografico, il problema dell'alimentazione di gran parte della popolazione della Terra, sono già esplosivi. Ma in nessun modo si è intravisto e si intravede un qualsiasi reale tentativo istituzionale (ONU, FAO, Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, Stati nazionali) di porre rimedio a tutto ciò. E allora, che cosa può improvvisamente farci diventare tutti saggi e moralmente responsabili? Niente. Solo un evento casuale potrebbe far sì che la ricerca delle "massimizzazioni" di produzione, consumo e profitto, orienti il mercato a basarsi su un'economia ecologica sostenibile. In mancanza di questo evento ci sono altre due possibilità: che i capitalisti intuiscano che la soluzione sostenibile "rende" di più rispetto all'approccio liberista (ed è questo ciò che sta tentando la sinistra istituzionale: Verdi, PDS, Rifondazione); oppure che pur non comprendendolo, ma sentendosi "moralmente responsabili", facciano uno sforzo di buona volontà affinché i loro fini siano compatibili con la preservazione della sopravvivenza e dell'ambiente. Quest'ultimo caso è comunque altamente inverosimile.
La conclusione è allora logica: il capitalismo e l'economia di mercato sono incompatibili con qualsiasi possibilità di sviluppo sostenibile.

La funzione economica della tecnologia
La tecnologia ha una funzione economica ben precisa: quella di massimizzare gli aumenti di produzione per unità di tempo di lavoro. L'equazione è semplicissima: più tecnologia uguale più merci prodotte nell'unità di tempo con meno addetti. Ciò significa che, se prima dell'introduzione di una innovazione tecnologica per produrre 1000 pezzi servivano 100 ore lavorative, dopo il rinnovamento ne saranno necessarie, per esempio, solo 20. Quindi per produrre lo stesso numero di pezzi è sufficiente un quinto degli addetti impiegati precedentemente. Se però fino a qualche decina di anni fa l'applicazione industriale di nuove tecnologie ipercompensava la riduzione di ore necessarie alla produzione dei 1000 pezzi con un aumento della produzione globale sostenuta da un notevole aumento delle vendite, oggi questo non accade più. Per fare un esempio concreto, la produttività in Olivetti fra il 1946 ed il 1958 aumentò del 600%, soprattutto a causa dell'introduzione della tecnologia dei convogliatori aerei. Ciò significa che per produrre lo stesso numero di macchine da scrivere che si producevano nel 1946, nel 1958 sarebbero bastati un sesto degli addetti. Ma nello stesso periodo le vendite, e con esse la produzione complessiva, aumentarono del 1300%. Il risultato fu un aumento dell'occupazione di 2,3 volte (Luciano Gallino, in Quaderni di sociologia, ?, 1995). Al contrario il mercato dell'automobile fra il 1979 ed il 1994 è cresciuto in Europa solo del 50% mentre la produttività nell'industria automobolistica, come per esempio nel nuovo stabilimento FIAT di Melfi, ha avuto un incremento, rispetto al '79, del 750%. Il risultato complessivo è che gli addetti alla produzione automobilistica sono notevolmente diminuiti (Luciano Gallino, cit.). Questo non deve affatto sorprendere: il primo scopo del capitalismo è produrre merci, non far lavorare esseri umani. Parallelamente la funzione economica primaria della tecnologia è di aumentare la produttività non l'occupazione.
La diminuzione globale di addetti nell'industria ha anche una causa nell'atteggiamento della classe operaia se, come afferma Alain Bihr, «è indiscutibile che il movimento operaio occidentale degli ultimi decenni, posto sotto l'egemonia socialdemocratica, si sia dimostrato solidale con la "logica produttivistica"» (Alain Bihr, Dall'«assalto al cielo» all'«alternativa», BFS edizioni, Pisa, 1995). E non posso che trovarmi d'accordo con Pietro Barcellona quando dice che «la sinistra ha fallito perché ha condiviso l'immaginario capitalistico dell'espansione illimitata della produzione e del consumo e non ha saputo destrutturare la motivazione economica che ne è la conseguenza pratica. Ha incosciamente introiettato il principio che la vera base dell'alienazione è la penuria e l'indigenza, e che la conquista della ricchezza rende l'uomo padrone di se stesso» (Pietro Barcellona, in il manifesto, 16/01/1993).

Coltivare fragole per raccogliere angurie
Come si vede c'è quindi una stretta interdipendenza fra crisi ecologica, rapporti politici, rapporti di produzione, politiche del lavoro, rapporti sociali, sviluppo scientifico e tecnologico. Non è pensabile affrontare nessuna di queste problematiche senza tener conto delle altre. «La crisi ecologica porta a rimettere in causa il funzionamento delle società contemporanee nella loro totalità: le modalità di gestione della natura, cioè di un patrimonio comune dell'umanità, i modi di produzione, i bisogni e i modelli di vita, le scienze e le tecniche» (Alain Bihr, cit.). Questo però non vuol dire che le uniche azioni possibili di contrapposizione al capitalismo debbano essere per forza omnicomprensive e totalizzanti: sarebbe come dichiararne in partenza il fallimento completo. Ciò che si deve intendere è invece che qualsiasi modificazione di uno degli specifici ambiti sopra elencati ha implicazioni per tutti gli altri, e perciò può avere una portata e un'efficacia a priori inimmaginabile.
Per concludere vorrei far notare il completo fallimento del tentativo "verde" di rendere compatibili politica ambientalista ed economia capitalistica. Ciò che i verdi sono riusciti a creare è stata solo la nascita di un ecocapitalismo e di un'ecomafia, che di fatto hanno annullato qualsiasi loro possibilità di azione ulteriore: il movomento verde è stato perfettamente inglobato in un sistema che utilizza le loro parole d'ordine per creare un nuovo vastissimo business. E gli ecocapitalisti, "sensibilizzati" al problema dell'effetto serra, creato dalle emissioni gassose che si generano utilizzando combustibili fossili, stanno rilanciando in grande stile l'energia nucleare: «non credo che nei Paesi industrializzati si possa fare a meno dell'energia elettro-nucleare» afferma Umberto Colombo, già ministro della ricerca scientifica e tecnologica nel governo Ciampi (Umberto Colombo, in Mondo Economico, 13/11/1995).
La conclusione credo che, a questo punto, sia abbastanza logica: la lotta per la salvaguardia di un ecosistema compatibile non può che essere una lotta anticapitalistica, e, per converso, qualsiasi lotta che abbia come obbiettivo il superamento del capitalismo è intrinsecamente, allo stato attuale, una lotta per un ambiente (nel senso specificato all'inizio dell'articolo) migliore.


[1] Le strutture dissipative sono particolari strutture in uno stato lontano dall'equilibrio termodinamico, la cui entropia è inferiore rispetto all'entropia dell'ambiente che le circonda. Una definizione rigorosa di struttura dissipativa si può trovare in Ilya Prigogine, La termodinamica dei processi irreversibili, Leonardo editore, Roma, 1971.

[2] «Sottratte all'autorità di qualsiasi stato, soggette ad una responsabilità quasi del tutto fittizia di fronte a degli azionisti remoti e dispersi, tese al perseguimento del profitto e gestite da una ristrettissima élite di imprenditori e dirigenti, le multinazionali pongono problemi che coinvolgono l'intero pianeta. Decisioni prese da un gruppetto di individui negli Stati Uniti possono significare non solo la prosperità o la disoccupazione in paesi distanti migliaia di chilometri, ma anche un'intromissione diretta nelle faccende politiche di tali paesi. Nel corso delle indagini che seguirono le dimissioni del presidente Nixon per l'affare Watergate, emerse con chiarezza che grandi società americane produttrici di armamenti e di aerei, nonché compagnie petrolifere e di altro genere non avevano esitato a corrompere i membri del governo di qualsiasi paese del mondo al fine di ottenere contratti o di influenzare la politica di quei paesi» (Ian Robertson, Sociologia, Zanichelli, Bologna, 1988).



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