CHAOS

Riappropriamoci delle merci


Giorgio Nebbia


Quasi tutti i volti delle violenze contro la natura sono associati alla produzione delle merci, al possesso di crescenti quantità di beni materiali, alla disponibilità di crescenti quantità di energia.
Certamente sono lodevoli, anche se finora inascoltate, le campagne per nuovi stili di vita con minori consumi e sprechi di risorse naturali; così come è stato finora limitato il successo delle proposte di "coniugare" l'ecologia con questa economia basata sull'aumento della produzione delle merci e quindi implicitamente violenta verso i sitemi ecologici.
Mentre è indispensabile proporsi obiettivi di lungo periodo  un rallentamento della crescita dei consumi nei paesi industriali, una più equa distribuzione dei beni della Terra e dei manufatti fra paesi ricchi e paesi poveri, la ricerca di una neoeconomia  si può forse ottenere qualche successo a breve termine sollecitando una "riprogettazione" neotecnica delle merci, in modo almeno da far diminuire gli effetti ecologici negativi associati alla loro produzione e uso.
Per questa piccola, ma utile, rivoluzione merceologica occorre riappropriarsi della conoscenza delle merci e soprattutto conoscere e approfondire la "storia naturale" di ciascuna merce, qualcosa di equivalente ai cicli con cui "funziona" la vita nella biosfera.
Gli ecologi sanno (quasi) tutto sulla circolazione della materia e dell'energia dall'aria, al suolo, ai vegetali, agli animali, agli organismi decompositori, e poi di nuovo all'aria, alle acque, al suolo; spiegano bene che la vita "funziona" attraverso grandi cicli sostanzialmente chiusi.
Tutta la materia che netra in ciclo nei processi vitali ridiventa nutrimento e vita per altri viventi e così sono andate le cose per almeno un miliardo di anni; anche nei due o tre milioni di anni decorsi dalla comparsa sul pianeta del genere Homo.
La grande svolta si è avuta con la rivoluzione agricola del Neolitico, circa 10.000 anni fa, quando alcuni nostri antenati si sono trasformati da raccoglitori-cacciatori in coltivatori-allevatori, hanno cominciato ad estrarre pietre per la costruzione degli edifici e per la fabbricazione dei metalli, hanno introdotto la proprietà privata, la divisione in classi  quella dei padroni-dominanti e quella degli individui soggetti (schiavi, lavoratori, soldati)  e hanno dato inizio alla violenza ecologica.
Dapprima si è trattato dell'apertura delle cave nelle montagne, del taglio degli alberi dei boschi, dei primi modesti inquinamenti provocati dalle fonderie di metalli; poi, nel corso dei millenni, è cresciuto l'affollamento delle città, l'avvelenamento dell'aria, fino ad arrivare ai tempi moderni, con l'estrazione intensiva dei minerali e dei combustibili fossili (che forniscono metalli ed energia facendo aumentare la concentrazione dell' anidride carbonica e dei gas nocivi nell'atmosfera); con la distruzione delle foreste; con l'impoverimento della fertilità del suolo; con l'inquinamento delle acque, ecc.
A differenza della biosfera, che funziona con cicli chiusi, la tecnosfera  l'universo degli oggetti fabbricati dagli esseri umani  pur essendo caratterizzata anch'essa dalla circolazione di materia ed energia, "funziona" con cicli aperti.
La sottrazione delle materie prime (acqua, minerali, legno, vegetali, animali) dalla natura, lascia terreni e montagne degradate; le scorie dei processi di trasformazione sono spesso estranee alla natura, velenose per gli ecosistemi naturali, tossiche per gli esseri umani.
Alla fine di ciscun ciclo merceologico, l'ambiente naturale è più povero e di peggiore qualità.
Benché si sappia qualcosa, e neanche tanto, su alcune sostanze chimiche presenti nei fiumi e nei residui della produzione e dell'uso delle merci, se si vuole affrontare una svolta merceologica ecologicamente sensata occorre approfondire la conoscenza dell'intero ciclo di tali processi, insomma della "storia naturale delle merci".
A titolo di esempio prendiamo una merce nota e controversa, il cloruro di polivinile (PVC), la materia plastica impiegata nella produzione di tubi, lastre, surrogati del cuoio, bottiglie, e di un gran numero di altri oggetti.
Fino adesso l'attenzione ecologica è stata rivolta a ciò che succede quando i manufatti di PVC, alla fine della loro vita utile, vengono bruciati negli inceneritori; si sa che si libera acido cloridrico, che si formano diossine e simili composti, che la quantità di sostanze tossiche dipende dalle materie che vengono bruciate insieme al PVC.
Adesso cerchiamo invece di ricostruire l'intera storia del PVC, da quali materie è fatto, come viene prodotto e usato e dove va a finire.
Come è ben noto, il cloruro di polivinile, la base della materia plastica, si forma per polimerizzazione del cloruro di vinile monomero, a sua volta ottenuto da due materie prime, il sale (il cloruro di sodio ricavato per evaporazione dall'acqua di mare o dalle miniere di salgemma) e il petrolio. (La strada qui brevemente descritta è solo una delle molte con cui è possibile ottenere il cloruro di polivinile).
Se si fa passare una corrente elettrica (ottenuta, per esempio, in una centrale termoelettrica, ma con quale inquinamento?) attraverso una soluzione acquosa di sale, si formano, congiuntamente, tre merci  cloro, idrato sodico e idrogeno  insieme a varie sostanze inquinanti (vere e proprie "merci negative"), fra cui piccole quantità di mercurio, sfuggito alle celle di elettrolisi.
Il cloro è impiegato per trasformare l'etilene, un gas ottenuto dal petrolio, in dicloroetano, il quale viene a sua volta trasformato in cloruro di vinile e acido cloridrico.
Una storia naturale del PVC dovrebbe chiarire quali sottoprodotti inquinanti, e in quale quantità, si formano insieme ad una tonnellata di cloruro di vinile monomero, e dove vanno a finire (quanto nelle acque, quanto nell'aria respirata dai lavoratori dello stabilimento, quanto nell'aria respirata dagli abitanti delle zone vicine?).
E poi ancora quanta energia si consuma, quanta acqua occorre nelle reazioni e nel raffreddamento, e dove vanno a finire i co-prodotti citati: idrato sodico, idrogeno, acido cloridrico?
Il passo successivo consiste nella trasformazione del monomero di polivinile in polimero e finalmente siamo arrivati al PVC.
I molti manufatti commerciali  tubi, bottiglie, sacchetti, lastre, tapparelle, infissi, ecc.  sono fatti con PVC addizionato con coloranti, plastificanti, sostanze di carica, altre resine, ecc., senza contare che esistono numerosi tipi di PVC, ciascuno adatto a particolari impieghi.
A questo punto i vari manufatti e oggetti a base di PVC hanno divers sorte: le bottiglie e i sacchi e gli imballaggi hanno vita breve e, dopo settimane o mesi, finiscono fra i rifiuti solidi urbani o industriali e quindi nelle discariche o negli inceneritori.
Altri manufatti hanno vita lunga e resistono in servizio alcuni anni prima die essere buttati via. Se si brucia in un inceneritore un tubo o una tapparelle fabbricati trent'anni fa, si devono fare i conti con un prodotto di composizione (ormai dimenticata) molto diversa da quella degli stessi oggetti fabbricati oggi; un oggetto di PVC di trent'anni fa, per esempio, potrebbe contenere additivi tossici oggi vietati.
Comunque, ad un certo punto tutti i manufatti arrivano alla fine della loro vita utile (anche da questo punto di vista ci sono somiglianze e diversità con la storia naturale degli esseri viventi nella biosfera), vengono buttati via, diventano rifiuti, per lo più miscelati con gli altri rifiuti solidi urbani. Il ciclo del PVC sta per chiudersi.
Se i manufatti a base di PVC finiscono in una discarica, il PVC è destinato ad una lenta e lunga degradazione e decomposizione (in che stato saranno mai gli oggetti di PVC gettati nelle discariche trenta o venti anni fa?); se vengono bruciati in un inceneritore, gli atomi presenti nel cloruro di polivinile si trasformano in anidride carbonica, acqua, acido cloridrico e altri prodotti secondari di reazione, fra cui diossine a altre sostenze clorurate e tossiche, la cui quantità e i cui caratteri sono ben difficili da misurare anche con tecniche analitiche raffinate: si sa che si formano, ma non si sa in quali corpi riceventi vanno a finire, con quali effetti biologici.
Già queste pochissime considerazioni relative soltanto a poche merci contenenti PVC  in Italia circa un milione di tonnellate all'anno, sui 600 milioni di tonnellate di merci che ogni anno "attraversano" il sistema economico italiano  indicano quanta strada ci sia da percorrere per avere delle soddisfacenti informazioni sulla storia naturale delle merci. Ma vale la pena di investirci lavoro, soldi, fatica, o si tratta solo di curiosità accademiche?
Intanto qualche lettore avrà riconosciuto che quella che ho chiamato "storia naturale delle merci" è una forma, sia pure raffinata, dell'analisi del "ciclo vitale"  dalla-culla-alla-tomba  richiesta per le valutazioni di impatto ambientale o per l'assegnazione delle "ecoetichette" alle merci.
In realtà la descrizione della storia naturale delle merci offre informazioni ben più utili, sia per i cittadini, sia per gli stessi fabbricanti. Essa, infatti, consente di elaborare dei nuovi indicatori della qualità  del "valore"  delle merci che svolgono la stessa funzione o fra processi produttivi che forniscono la stessa merce.
Ormai anche fra gli studiosi di problemi ambientali molti parlano del "costo energetico" delle merci, inteso come consumo di energia richiesto per produrre una unità di peso di un oggetto: una merce è tanto più "virtuosa" ecologicamente quanto minore è l'energia richiesta nel corso della sua vita.
A questo indicatore si può affiancare la misura del "costo in acqua" di una merce, definito come il consumo di acqua, una risorsa naturale scarsa, per unità di peso della merce: anche in questo caso è preferibile il processo o il prodotto che richiede meno acqua, sempre per unità di peso del prodotto o per unità di servizio reso.
Un terzo indicatore è rappresentato da quello che si potrebbe chiamare "il costo di inquinamento" o il "costo ambientale", definito come la quantità dei vari agenti inquinanti immessi nella biosfera, sempre per unità di peso di merce ottenuta con un certo processo.
Questi tre indicatori, che pure vanno a toccare il cuore di uno dei più delicati e misteriosi territori dell'economia, la "teoria del valore", forniscono informazioni inportanti anche per gli imprenditori fra cui si comincia ormai a parlare della necessità di misurare il "metabolismo industriale", che è poi un'altra maniera per indicare la "storia naturale" delle merci e dei processi produttivi.
Ma non è finito qui: si è sempre detto che una buona soluzione per i problemi ecologici è rappresentata dal riciclo delle merci usate. Dalla carta usata è possibile ottenere carta nuova senza tagliare alberi; dall'alluminio usato è possibile ottenere alluminio nuovo con minore consumo di energia e senza estrarre bauxite dalle cave; dalla plastica usata è possibile ottenere plastica nuova senza impiegare petrolio, ecc.
All'atto pratico si sta constatando che la produzione, per esempio, di nuova carta dalla carta straccia comporta un inquinamento che dipende dalla qualità della carta che viene sottoposta a riciclo; se si confrontano i due interi cicli:
albero  carta nuova  carta usata
oppure:
carta straccia  carta riciclata  carta usata
può capitare di scoprire che l'inquinamento è maggiore nel secondo caso, se si usa carta straccia di qualità scadente, addizionata con agenti difficili da eliminare.
Da qui la possibilità, anzi l'utilità, di fornire buone informazioni merceologiche, basate sull'intero ciclo vitale delle merci, a chi effettua la raccolta differenziata delle merci usate e a chi trasforma le merci usate in nuove merci; da qui lo stimolo alla fabbricazione di merci progettate apposta per essere facilmente riciclabili.
E infine, visto che è tanto di moda chiedersi se l'ecologia genera occupazione, vorrei sottolineare che qualsiasi progresso nella conoscenza della storia naturale delle merci richiede una mobilitazione di chimici, geologi, naturalisti, ingegneri, merceologi, tale da assorbire migliaia di laureati e di tecnici, molti dei quali oggi sottoccupati, richiede perfezionamento negli strumenti di analisi e di misura.
I costi di tale impresa sono largamente compensati dai vantaggi monetari derivanti da innovazioni tecniche e da nuovi processi produttivi, dai minori costi, privati e collettivi, che si hanno evitando scelte produttive sbagliate, diminuendo le spese per la depurazione dell'aria e delle acque, diminuendo i danni alla natura e alla salute  che comportano anch'essi costi anche monetari!
Non si tratta, insomma, di curiosità o di capricci, ma di una nuova maniera di affrontare i problemi ambientali e di riacquistare il "dominio" sugli oggetti, sottraendoli alle scelte produttive avventurose e consumistiche per riportare le merci e la loro fabbricazione al servizio dei reali bisogni umani.

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