CHAOS

Editoriale




Quando, esattamente tre anni fa, il numero zero di Chaos si materializzava finalmente tra le nostre mani (lasciandovi ostinatissime macchie d'inchiostro) ci parve definitivamente chiaro, con l'evidenza delle prove materiali, che in esso si affacciavano molti temi che avrebbero richiesto continue e impegnative frequentazioni. In quel fascicolo appariva tra gli altri un articolo di Fulvio Perini "Signori, si chiude!" in cui si analizzavano i mutamenti dello scenario produttivo entro i quali si collocava (e si colloca) il ridimensionamento di Mirafiori e in generale del ruolo degli stabilimenti torinesi nelle strategie del gruppo FIAT. Oggi, in qualche modo chiudiamo il cerchio - per riaprirlo domani stesso, s'intende - e se possibile alziamo il tiro, con due cospicui interventi che costituiscono il principale nucleo tematico di questo numero.
Globalizzazione, dei processi di sviluppo dell'economia capitalistica dopo la caduta dei "muri" e nell'era delle tecnologie infotelematiche, e flessibilità, nei processi di ristrutturazione produttiva ed organizzativa nella transizione "post-fordista": ecco due parole che ronzano nelle orecchie un po' stanche di tutti. Ma come spesso accade, il suono passa per primo le deboli difese di questo strano organo che per tenace mandato biologico resta aperto sul mondo anche quando tutto intorno dorme, e si accampa nella nostra mente con la sfacciata sicurezza dell'abituale. I significati, con la loro processione di domande, restano fuori, in attesa di udienza.
Rompere l'accerchiamento dell'abituale, del noto, del comunemente accettato - sarebbe già abbastanza. Sfidare la concordia prudente che offre i suoi frutti ambigui e insipidi al fraintendimento della storia, non cedere all'univocità del linguaggio sulla quale, immane geometrica piazza, non marciano che divisioni. Ma non stiamo parlando d'altri, non ci stiamo appellando ad un soggetto da formare, da risvegliare con le trombe di un'altra Verità. Non c'è una Pedagogia, tra i mille percorsi; e il soggetto siamo noi, comunque lo si declini quest'insidioso pronome, che ci raccoglie per disperderci, che illumina frammenti di un destino che ci perde. Non c'è una realtà, là fuori, di cui farsi megafono.
Ci verrà detto che questo linguaggio è inappropriato, e inopportuno, magari un po' arrogante e presuntuoso. Che non si capisce, che è fuori luogo. Accettiamo ogni critica all'ambizione letteraria - ci si prova, lealmente; non è detto che ci si riesca.
Ma rendersi irriconoscibili è una scelta: chiaramente irriconoscibili, vorremmo dire. Non è una scelta estetica, estetizzante; e non è nemmeno il nostro passamontagna (perché il rispetto per i passamontagna si coglie nel rispetto per ciò che celano). Una frequenza nuova nel rumore di fondo, riconoscibile perché ignota, punto di riferimento del cursore impazzito, su e giù, su e giù, per la logica uniforme dell'etere saturato.
Chaos ha sempre parlato linguaggi diversi, ma non si è mai rivolto ai "sordi". Ha parlato, le poche volte che ci è riuscito, ad orecchi puntati, curiosi, attenti. In cerca di strumenti e di significati, disposti a far posto a nuovi stimoli e conoscenze. Gli articoli di Fiocco e di Barchiesi proseguono in questo tentativo. Ci forniscono dettagli, solidi dati, ma anche punti di vista lontani, ci spiazzano in alcune consolidate convinzioni. Ci dislocano, là dove la produzione si disloca.
Globalizzazione, flessibilità: potremo ancora usare queste parole in modo sensato e significativo?
Wright ci offre uno sguardo dagli antipodi su un pezzo importante e troppo noto del nostro piccolo mondo. Narra, ritesse una storia - e nello stesso tempo, facendolo dall'Australia, ci assegna una responsabilità. Nell'era della telematica e di Internet, come recita un'abusata formuletta giornalistica, le nostre azioni individuali e collettive possono orientare le scelte e il corso d'azione di individui e gruppi lontani e sconosciuti, che parlano altre lingue, in contesti sociali, politici e culturali diversi. La farfalla di Pechino batte ormai ad un ritmo frenetico le sue ali fatali.
Troppo giusto, si dirà, ma tutto noto. E con ciò? Siamo certi di averci riflettuto abbastanza? Di possedere gli strumenti necessari? Quanti restano fuori, esclusi dall'accesso a questi mezzi, dalla comprensione dei processi, che pure modelleranno le loro esistenze? Faremo dunque (noi "élite intellettuale" di privilegiati, un po' annoiati, un po' organici, con i nostri nuovissimi giocattoli) inginocchiare anche loro dinanzi al mito consolatorio della complessità?
Ma allora, quale filosofia politica a partire dai nuovi media, e quale relazione tra questi, comunicazione e cicli economici? Maria Turchetto e Silvano Cacciari presentano due proposte di riflessione indipendenti, la prima indebolendo, minando alcuni punti fermi, divenuti presto luoghi comuni, del dibattito contemporaneo (ed eterno) intorno alla "attuale fase del capitale"; il secondo analizzando il continuo e accellerato ridefinirsi delle questioni collegate ai modelli di sviluppo politici e istituzionali, allo spostamento della sfera pubblica.
Infine, ricordiamo il pezzo di Barbrook e Cameron sull'ideologia californiana, quel misto di rampantismo yuppie e sconvolgimento hippie, metamorfosi generazionale che ha portato un pezzo di fantasia al centro del potere, che ha prodotto miliardari (in dollari) di quarant'anni, e che ci dice più di qualcosa sugli attuali assetti e tendenze dei new media e delle infotecnologie, anche in termini di modelli culturali e di visioni del mondo. Non condividiamo lo statalismo un po' "old labour" per mezzo del quale i due autori ritengono possibile e necessario intervenire per riorientare le funzioni sociali dell'uso di tali tecnologie. Ma l'analisi della metamorfosi californiana deve farci riflettere sul nostro ruolo nella riproduzione e rigenerazione, anche sociale, del capitale.
Tutto questo, e molto altro - come si dice. Molte voci, molti linguaggi, molte - speriamo - le suggestioni.