CHAOS

Il mondo svelato, il mondo sfuggito
Editoriale



a cura della redazione


Come i nostri lettori più assidui già sanno, ogni numero di Chaos è caratterizzato dalla presenza di un contenuto tematico prevalente, anche se non organizzato in vere e proprie monografie. Chi l'ha detto che non si può illuminare e mettere a fuoco lo sfondo evindenziando contemporaneamente alcuni particolari? Solo attraverso la valorizzazione di una pluralità, ch'è spesso caotica, di interpretazioni, interessi e percorsi di ricerca si può dar conto della realtà (complessa, secondo l'abusata fraintesa formuletta). Quanto nei fatti questo sforzo sia riuscito, e quanto si riveli efficace come metodo, è giudizio che compete all'attenzione critica di noi tutti, con il quale ci misuriamo ininterrottamente.
In precedenza, non avevamo avvertito il bisogno di esplicitare oltre misura il percorso organizzativo intorno e in virtù del quale si erano definiti i temi catalizzanti, gli attrattori strani, in ogni numero di Chaos. Essi erano e dovevano restare trasparenti e allo stesso tempo aperti ad ogni possibile rilettura e riarrangiamento, fino all'eventuale completo sovvertimento. Com'è ovvio - un po' d'autoironia non farà male - queste affermazioni vanno riportate ai limiti, che sono almeno altrettanto trasparenti, dell'esperienza ancor piccola, e comunque giovane, di Chaos. L'idea dell'elasticità strutturale della rivista è stata per noi centrale sin dall'inizio. E tuttavia non ci illudiamo di essere entrati in possesso di qualche specie di pietra filosofale; anzi, crediamo che le ragioni più profonde che hanno motivato questa scelta e le prospettive che ne derivano debbano ancora in gran parte venire conquistate, lungo un cammino tutto da tracciare.
Ecco dunque la ragione di questo profluvio di verbosità autoreferenziali: il "tema" di questo numero doveva essere, ed è, l'ecologia. Ma tutti i numeri di Chaos sono dedicati all'ecologia. Esiste un'accezione del concetto di ecologia che travalica i limiti disciplinari e nello stesso tempo non si esaurisce nell'uso volgarizzato che ne fanno i linguaggi della cronaca giornalistica o della politica professionale. Essa dipende da una visione ecosistemica della realtà. Un pensiero ecologico efficace - vale a dire un pensiero che sia nelle condizioni di trattare della realtà, e non solo di parlarci sopra - può darsi solo rifuggendo dagli ecologismi, che rappresentano altrettante fissazioni decadute della sua capacità complessiva.
Un pensiero ecologico animato da una visione ecosistemica può e deve guardare alla realtà nella sua multiforme completezza. Deve anche, tuttavia, difendersi da numerosi rischi di degenerazione. Alcuni afferiscono al metalivello in cui è insediato il suo valore di verità, altri alla parcellizzazione e compartimentazione del reale che può essere provocata proprio dal bisogno di principi-guida universali. Può divenire dunque olismo e sincretismo spiritual-metafisico prostrato dinanzi al modernissimo totem della complessità, oppure ricadere sui ruderi delle sue stesse fondamenta, asservito alle scienze del dominio, alienato nei tecnicismi, riprogrammato dalle leggi della forza in mero funzionalismo economicista. La lama sulla quale si tiene in equilibrio è piantata di traverso in ognuno di noi.
Nemmeno l'ecologia come disciplina, come studio dei processi e dei cicli naturali, può oggi essere invocata come rifugio neutrale della ragione scientifica, come luogo privilegiato di studi separati e protetti dalla crisi del pensiero ecologico (che altro non è se non un aspetto della crisi del pensiero occidentale). L'elemento antropico è troppo schiacciante perchè si possa ancora sperare in una distinzione chiara tra l'osservatore e l'oggetto dell'osservazione; le relazioni ricorsive si riproducono all'infinito, le differenze di livello si fanno instabili, i confini applicativi sempre più labili. I sistemi ecologici sono sempre più trattati come sistemi caotici, ma nello stesso tempo rapportati a quell'ideale omeostatico insuperabile che è il sistema-mondo. Sistemi aperti dentro un sistema ritenuto chiuso.
Il pensiero ecologico, con la sua breve storia, già deve fare i conti con la caduta dell'illusione di Laplace. Abitiamo un solo mondo su un solo sistema solare (per ora), ma non esiste una sola descrizione - una descrizione unica, definitiva e insuperabile - della sua ecologia. Ecco una nuova applicazione del principio di indeterminazione: più conosciamo il sistema-mondo (i suoi cicli, i suoi tempi, i suoi processi di trasformazione), più il mondo ci sfugge - letteralmente - dalle mani. Ma la variablie determinante, quella che apre il sistema-mondo, che incide in modo sempre più macroscopico e visibile e che, in fin dei conti, lo rende leggibile, è l'elemento umano. Le azioni umane dovrebbero quindi essere l'oggetto principale dell'ecologia.
Bolle di stabilità instabile si generano e vengono distrutte nel fiume ridondante della trasformazione. Anche noi vi siamo immersi, essendo insieme impaccio ed alimento per la sua corrente. Ma non dobbiamo lascrci travolgere dalla visione della complessità. La nostra idea di ecosistema non è quella di un gioco a somma zero. Restano sempre un aumento di conoscenza ed un residuo di complessità irrisolta. L'ecologia è anzitutto un metodo di conoscenza, e come tale si applica alle trasformazioni produttive o ai cicli industriali e commerciali come ai cicli naturali. Una visione ecosistemica è necessaria per dar conto dei tempi e degli spazi in gioco nei processi, che spesso eccedono i paradigmi consueti, ponendosi fuori dal tempo storico e dallo spazio umano, pur essendone codeterminanti essenziali.
Un metodo di conoscenza, dicevamo, che è profondamente influenzato da complesse interazioni fra politica, economia, scienza, tecnologia, composizione sociale, cultura, tradizioni. Non si può parlare di ecologia senza tener presenti queste interconnessioni. Ecco allora che, in un fascicolo dedicato all'ecologia, si inserisce perfettamente l'articolo di Tomas Ibañez, che è una critica alla scienza portatrice di presunte verità oggettive, sulle quali si basa l'adesione al mito occidentale della possibilità di risoluzione dei conflitti ambientali per mezzo di una sempre più spinta "scientifizzazione" e "tecnologizzazione" delle società e dell'agire umano. Alla base del pensiero di Ibañez vi è il tentativo epistemplogico di relativizzare la presunta oggettività del pensiero scientifico moderno. Parallelamente, Enrica Capussotti propone un utilizzo positivo e radicale delle applicazioni tecnologiche e biotecnologiche, soprattutto in una visione liberatoria dal ruolo esclusivamente materiale assegnato dalla cultura occidentale al corpo femminile. Una ecologia del corpo femminile attuata mediante uno stravolgimento della propria funzione riproduttiva "naturale". Ma oltre a questo sempre più auspicabile ruolo, magari esportato ad altri corpi comunque soggiogati, la tecnologia ha, all'interno dei rapporti di produzione esistenti, delle sue proprie funzioni: quella di allargare lo spettro delle merci disponibili e fatte percepire come necessarie per il raggiungimento di uno stato di benessere, e quella di far decrescere sempre più il tempo necessario alla loro produzione. Tempo che però viene reso disponibile non già sotto forma di tempo libero individuale, bensì sociale, e cioè sotto forma di disoccupazione di un certo numero, sempre crescente, di individui.
Una lotta per un ambiente migliore deve essere allora anche una lotta per liberare il tempo vitale individuale per goderne. Deve essere perciò una lotta radicale, semplicemente radicale e totale, che comincia nel luogo dove si lavora, nel quartiere dove si vive, nella propria scuola, nella propria mente. E comunque inserita in una visione di liberazione complessiva, che sappia fornire di intelletto le proprie azioni materiali.
Altrimenti è mero esercizio ginnico.
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