Ristrutturazione, flessibilità e politica della soggettività operaia
Note a margine di un'inchiesta nell'industria automobilistica sudafricana
Franco Barchiesi
L'inchiesta
SAMCOR blues
L'industria automobilistica sudafricana è storicamente caratterizzata da una produzione su bassi volumi, una gamma molto vasta di "piattaforme" (combinazioni scocca-motore-cambio) e modelli, per un mercato interno ristretto, ancora in gran parte limitato alla popolazione bianca, e molto competitivo, con sette compagnie multinazionali su un mercato di poco più di 200.000 unità annue (la FIAT di Melfi ne produce da sola più di 250.000!).
Queste caratteristiche fanno si che un'elevatissima flessibilità di prodotto, processo e mansioni operaie sia una delle condizioni essenziali per la sopravvivenza in un mercato del genere. E gli operai sudafricani dell'auto sono considerati tra i più flessibili del mondo, in quanto a capacità di adattamento a diverse lavorazioni, anche se ciò è scarsamente remunerato in termini di qualifiche, salario e gerarchia aziendale, configurata in termini di taylorismo puro, con perduranti venature razziste (Adler 1993).
Il sindacato riconosce che la flessibilità in Sudafrica è solo un modo di tagliare i costi, aumentare i ritmi e aggirare le organizzazioni dei delegati di fabbrica con strutture padronali di "co-gestione" e consultazione, senza alcuna contropartita in termini di reale resonsabilizzazione operaia e democratizzazione del posto di lavoro. In genere, ciò definisce un livello molto basso di identificazione operaia con gli obiettivi dell'impresa, data anche la storia di militanza della classe operaia nera in Sudafrica e il suo collocarsi a livelli di radicalità con pochi eguali a livello mondiale. La prima vittima di questa contraddizione è proprio il sindacato, preso in mezzo tra la ristrutturazione unilaterale della tecnologia e dell'organizzazione da parte dell'impresa per far fronte all'accresciuta domanda di flessibilità, da una parte, e dai percorsi autonomi attraverso cui la classe definisce Il compromesso tra accettazione e resistenza, dall'altra. Questo è ciò che raccontava un mio amico, ex-organizzatore nazionale per l'auto nella NUMSA: "Sinceramente, penso che la posizione del sindacato sia debole. Parliamo di transizione dalla produzione di massa al lavoro di suaqdra e alla specializzazione flessibile, e non so che cazzo vuol dire. Perché questi concetti nel mondo reale della produzione sono senza significato, sono un parto dell'immaginazione; perchè tu hai ancora la macchina che viene giù dalla linea e hai dei componenti da montare. E questo è tutto".
La SAMCOR è considerata la compagnia più tecnologicamente avanzata del Sudafrica. Fu la prima a introdurre i robot, in sala scocche nel 1987 e in verniciatura nel 1992. L' azienda nacque nel 1987, quando la Ford uscì dal Sudafrica in seguito al movimento per le sanzioni, e trasferì una parte del suo pacchetto azionario in questa nuova compagnia, nata dalla fusione con un'azienda del colosso locale Anglo-American che produceva auto su licenza. Attualmente SAMCOR produce auto su design Ford, Mazda e Mitsubishi. Come esito di ciò, la compagnia sforna oggi ben undici modelli simultaneamente su più di 130 varianti. In un settore in cui è raro trovare compagnie che producono più di due modelli, la SAMCOR può ben essere considerata una delle fabbriche più complesse e flessibili del mondo. In particolare, l'introduzione di alta tecnologia è la strategia portante per affrontare l'altissima competizione sul mercato interno. E ciò porta anche dei risultati: ad esempio, i tempi impiegati per riequipaggiare i macchinari in sala scocche sono in media, caso pressoché unico, inferiori al tempo-ciclo di una sola auto: 1,8 minuti contro 3 minuti, meno che alla FIAT/Sata di Melfi (Fiocco 1996).
Parallelamente, l'attenzione della SAMCOR per la flessibilità nell'organizzazione del lavoro non mostra alcuna discontinuità con un'impostazione taylorista-fordista. Il lavoro di squadra è considerato un'appendice al potere di supervisione dei "capi" e la delega di responsabilità è minima. I capi-squadra definiscono sé stessi come "anelli in una catena di istruzioni", più che come rappresentanti di gruppi dotati di una certa autonomia. L'ideologia ufficiale della compagnia è l'"adozione delle filosofie produttive giapponesi", ma le dichiarazioni dei suoi dirigenti grondano di un'attenzione ossessiva per la regolamentazione ferrea di tempi e movimenti singoli, più che per la partecipazione operaia alla produzione.
Il sindacato alla SAMCOR è fortemente contestato per il suo ruolo nell'ultimo contratto nazionale del settore, laddove gli operai lo accusano di avere trascurato le rivendicazioni salariali per definire invece un quadro normativo su qualifiche e differenziali che non rimedia a ciò che viene definita "l'eredità salariale dell'apartheid". La contestazione dalla base è qualcosa che i delegati sperimentano quotidianamente: "[Gli iscritti] ti gridano contro, ti insultano. È normale per un delegato. Immediatamente dopo essere eletti essi si rendono conto: "Merda, non è ciò che immaginavo". Nell'ultimo sciopero alcuni delegati sono stati visitati la notte da operai e minacciati con pistole. A me è successo nel 1992".
La percezione generalizzata tra gli operai è che la ristrutturazione, la domanda per un'accresciuta flessibilità ed un maggiore impegno per la qualità, stia portando ad un aumento intollerabile di ritmi e intensità del lavoro, e a più straordinari. Ma ciò non causa di per sè immediatamente conflitto. In parte l'antagonismo aperto è filtrato da una certa identificazione flessibile da parte degli operai con gli imperativi della qualità in quanto definiti dall'ideologia manageriale.
Questo processo può sia esprimere identità o essere puramente strumentale. In ogni caso, sembra confermato che il discorso padronale sulla qualità e sulla competitività motiva l'operaio a cooperare o ad accettare soltanto se quel discorso è compatibile con l'idea di un certo controllo operaio della produzione come base reale del contributo al successo dell'azienda. Ma vari elementi minano questa promessa, rendendo in realtà evidente come i rapporti sociali interni sono plasmati da salari che non consentono la sopravvivenza del nucleo familiare, dalla mancata remunerazione delle competenze, e dall'ordinario razzismo dei capi. E sono soprattutto gli operai con una visione più chiara delle opportunità di avanzamento fornite dalla ristrutturazione a risentire maggiormente di questa contraddizione. Da un lato, essi si rendono conto che l'azienda chiede la loro iniziativa come contributo essenziale alla qualità, e sono disponibili a usarla per imporsi nel contesto lavorativo: "Niente è impossibile per me. Non posso dire che il lavoro sia difficile. Se fai quel lavoro tutti i giorni, ti ci abitui. E io sono veloce, sempre: penso di potercela fare ogni volta che la linea accelera. E poi, prima ero un commesso di negozio; penso che ci sono altri lavori che posso fare, qui".
Ma ciò entra in contraddizione con il mancato mantenimento delle promesse, e col senso di ingiustizia che ne deriva: "Gente che ne sa meno di te, ti sta sopra. Tu hai un diploma e cinque anni di esperienza, e poi arriva un bianco che non sa neanche leggere e scrivere, e in una settimana diventa un capo, e tu devi prendere ordini da lui".
Il razzismo è solo un aspetto di un problema più vasto. La produzione flessibile alla SAMCOR è accompagnata in genere da un livello bassissimo di riconoscimento e remunerazione delle competenze e dei saperi operai. Una pratica normale della compagnia è quella di far svolgere ai suoi operai una pluralità di mansioni e di pagarli al salario della mansione di livello più basso, che in genere è inferiore alle qualifiche reali.
Talvolta il discorso dell'impegno operaio verso la qualità è impiegato come un'arma contro i capi, colpevoli di interferire con la conoscenza che un operaio ha di ciò che è un lavoro di qualità: "Se lavoro, non voglio nessuno che controlli come sto lavorando. Sono stufo di capi che fanno i poliziotti. I capi stanno sempre addosso ai ragazzi. Non ci permettono di badare ai nostri problemi, se vuoi andare al cesso devi chiedere il loro permesso. Ci trattano come schiavi".
Qui la contraddizione diviene evidente: l'ideologia della flessibilità richiede un contributo reale dell'operaio alla qualità. Per il salariato, ciò comporta la rivendicazione di un certo controllo sul proprio lavoro, che viene violato da gerarchie che invalidano il mito del comune impegno per la qualità. L'ideologia della qualità viene quindi trasformata in un'arma di resistenza operaia. Ciò non solo permette di rivendicare più autonomia dal potere di supervisione dei capi, ma anche di reclamare un maggiore controllo su tempi e ritmi. Infatti, l'aumento nell'intensità del lavoro che si accompagna alla ristrutturazione è presto smascherato come una fondamentale contraddizione con i ritmi consentiti da un reale impegno operaio per la qualità: "Devi sudare duro contro il robot. Se non sudi duro, il robot ti porta via il posto. Le ore per unità sono ridotte, la gente è licenziata, la velocità delle macchine è spinta sempre più in alto, e meno gente deve fare più lavori. E questa gente diventa più veloce, ma non più intelligente. La chiamano produzione snella. Ma se lavori in queste condizioni, come puoi contribuire a ciò che si fa qui? (...) Va bene, forse posso metterci due minuti per ogni pulmino, se faccio il mio lavoro come si deve. Ma se i capi vengono e dicono "Su, dai! Lascia andare quella macchina!", tu sei confuso, e la qualità peggiora, e alla fine non riesci neanche a fare la tua quota di lavoro. Ma se pensi che ciò sia ingiusto, l'unico modo in cui puoi combattere è attraverso la qualità".
In questo modo, l'ideologia manageriale si presta a diverse interpretaziooni, diventando terreno di confronto e di lotta. L'appropriazione dell'ideologia come terreno di resistnza operaia è resa possibile proprio dal mito della flessibilità come attivazione di soggettività cui si contrappone una realtà in cui la soggettiovità è invece repressa e coartata. Come molte altre interviste mi hanno confermato, è proprio questa immagine non pacificata della produzione nell'era della flessibilità che, anche se non è di per sé portatrice automatica di conflitto, consente al proletariato di fabbrica di definire immagini e linguaggi autonomi per rappresentare la propria condizione. Questi elementi di cultura operaia, in cambio, innervano una perdurante visione antagonistica della produzione, che si traduce in scioperi spontanei, rallentamenti, assenteismo, mettendo l'impresa di fronte alle aporie delle sue stesse impostazioni ideologiche.
Ciò conferma che l'analisi dei processi di formazione della soggettività operaia deve partire dalla molteplicità di potenziali determinanti di resistenza anche in un contesto che assume cooperazione e consenso come dati di fatto. Ciò si inscrive nel perdurante conflitto tra la razionalità unificante dell'impresa e le molteplici razionalità operaie portatrici di bisogni che "eccedono" l'impresa stessa come luogo della loro soddisfazione, e ciò puo andare dal riconoscimento salariale delle competenze ad un discorso sul reddito come espressione di un valore d'uso sociale. In questo contesto, l'equilibrio tra accettazione e resistenza operaia può essere assai fragile, e la sua rottura traumatica può venire come effetto della ristrutturazione, inattesa e imprevedibile. Questa indeterminatezza nei comportamenti operai può, da un lato essere intesa come risultato della disarticolazione di identità partitiche e sindacali nell'era della globalizzazione. Ma essa può anche indicare nuovi punti di instabilità e rottura nel capitale nell'era della flessibilità. È il caso, quindi, di chiedersi fino a che punto "ogni sutura crea nuove ferite" (Negri 1991).
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