CHAOS

Ristrutturazione, flessibilità e politica della soggettività operaia

Note a margine di un'inchiesta nell'industria automobilistica sudafricana

Franco Barchiesi


Prima parte

"L'autobiografia è la ferita dove il sangue della storia non si secca mai."
Gayatri Chakravorty Spivak

Prologo
Sono appena tornato a casa dopo un'altra giornata alla Wits University. Alzo il telefono per chiamare Solly, il presidente del consiglio di fabbrica del sindacato sudafricano dei metalmeccanici (NUMSA) alla South African Motor Corporation (SAMCOR), una fabbrica di automobili a Silverton, presso Pretoria. Devo organizzare alcune interviste per il giorno dopo e, dato che la direzione mi ha negato l'accesso alla fabbrica, la collaborazione dei delegati sindacali è fondamentale. La voce di Solly mi sembra subito agitata e preoccupata: "Sai, penso che domani potrebbe esserci un problema; abbiamo questo casino con i subappalti, qui". Infatti, la NUMSA è impegnata da molto tempo in un duro confronto con la SAMCOR sulla questione dell'"outsourcing", ossia il subappalto di fasi della produzione a ditte esterne. I delegati sostengono che il subappalto permetterà a queste ditte di remunerare i loro operai a livelli nettamente inferiori per una intensità crescente di lavoro, mentre quelli della SAMCOR perderanno il posto, o saranno costretti ad accettare mansioni con salari e condizioni peggiori. Alla fine della nostra telefonata, Solly mi chiede se per caso io abbia della documentazione su come il sindacato in altri paesi sta facendo fronte al problema. Mi è appena arrivato un documento in proposito della UAW statunitense, e quindi riesco ad organizzare un appuntamento per il giorno dopo. L'intera intervista si sviluppa proprio sull'"outsourcing"; operai che vanno e vengono dall'ufficio del CdF si uniscono all discussione: la questione è sulla bocca di tutti. Ho già avuto un incontro con un responabile della direzione, che mi ha spiegato il punto di vista della compagnia: "Se noi subappaltiamo una certa operazione, cerchiamo anche di garantire la continuità dell'impiego, ma l'operaio deve accettare di svolgere mansioni diverse, oppure accettare volontariamente gli accordi per le dimissioni negoziati coi sindacati [ma i delegati sostengono che le proposte dell' azienda sono del tutto unilaterali, NdA]. Noi non licenziamo nessuno: l'operaio è libero di scegliere, e la sua dignità viene salvaguardata".
Intanto, la base del sindacato freme, chiedendo esplicitamente ai vertici un'azione decisa e diretta contro l'outsourcing. Due giorni prima della mia telefonata, un'assemblea di fabbrica per discutere lo sciopero era stata disdetta dopo l'intervento della direzione nazionale della NUMSA, che aveva convinto il CdF a puntare invece su un'azione legale contro la compagnia. Ma l'aria che si respira in fabbrica è diversa, come sostiene Solly. Domanda: "Che aria tira, ora?". Solly: "Il morale è alto: i ragazzi sono cotti a puntino. Aspettano solo che gli diciamo di andare in sciopero, e se uno sciopero legale non è possibile, vogliono organizzarne uno extra-legale. Sai, ci sono fin troppi modi per paralizzare quest'azienda".

Flessibilità: dall'azienda ai soggetti
Questo episodio introduce alcuni temi che svilupperò nelle prossime pagine, temi che vanno a toccare il complesso intreccio di ristrutturazione produttiva, modifica nelle forme della soggettività operaia, e ruolo delle organizzazioni storiche, come il sindacato. Queste osservazioni riguardano il caso specifico di un'economia a industrializzazione periferica e dipendente, come il Sudafrica.
Tuttavia, esse potranno fornire indicazioni più generali, soprattutto se rapportati con una crescente consapevolezza di come la ristrutturazione capitalistica e l'introduzione di politiche di flessibilità aziendale costringano gli strumenti di intervento nell'industria dei singoli stati a fare i conti con i tempi e le compatibilità della cosiddetta "globalizzazione".
La relazione tra ristrutturazione produttiva e risposta operaia ha costituito da qualche tempo a questa parte oggetto di costante interesse nel campo della "sociologia industriale". L'avvento, pubblicizzato e propagandato, della "flessibilita", come rottura organizzativa ed epistemologica della categoria di "fordismo" e come avvento della nuova civiltà "post-fordista", ha certamente contribuito a questa evoluzione. Prima di ciò la produzione sotto il capitalismo era stata assunta, sia da quanti, a sinistra, miravano a sovvertirla, sia da molti che, a destra, puntavano a "umanizzarla", come area di disarticolazione di vita e senso individuale, e della loro riarticolazione attorno alle richieste organizzative, spaziali e temporali specifiche della valorizzazione (Miller e Rose 1995). Da un lato vi erano quanti miravano a fare del luogo di produzione uno spazio pubblico riconciliato dall'"arricchimento", dall'"iniziativa" e dalla "soddisfazione" operaia esplicite nelle critiche al taylorismo nel nome della promozione delle "relazioni umane". Dall'altra parte un certo marxismo, oggettivista e sedicente ortodosso, privilegiava una nozione di classe come "vera" espressione della soggettività operaia solo in quanto identificata con partiti e sindacati. Questa impostazione, ben rappresentata nello studio di Braverman (1978) si trovava pero in crisi e ridotta ad una progressiva sterilità con l'esplodere, in particolare negli anni settanta, di percorsi di antagonismo sociale che ponevano in questione la fabbrica come luogo centrale del conflitto, legando la lotta per il salario ad un nuovo discorso basato su bisogni e contropotere diffuso, minando il ruolo di "avanguardia" delle organizzazioni operaie nei paesi più industrializzati (Roth 1974, Ramirez e Linebaugh 1992, Wright 1996).
In generale però, entrambe queste tendenze intellettuali trascuravano di analizzare il processo produttivo sulla base della formazione di identità, aspettative e resistenza operaia in quanto aspetti capaci di incidere e modificare autonomamente il funzionamento stesso delle strutture di produzione, almeno quanto ne sono essi stessi modificati. Questa carenza risulta ancora più rilevante per un ragionamento critico ed antagonista sul paradigma della flessibilità. È mia convinzione che la valorizzazione del "lato umano" della produzione, implicita nell'ideologia della flessibilità, non comporti sostanziali mutamenti qualitativi nella natura del lavoro sotto il capitalismo, approfondendo semmai tendenze in atto sotto il fordismo. Come un numero crescente di ricerche empiriche va dimostrando (Fucini e Fucini 1990; Williams, Haslam, Williams, Cutler, Adcroft e Johal 1992; Garrahan e Stewart 1992; Wood 1993; Berggren 1993; Dassbach 1994; Graham 1995; Fiocco 1996; Danford 1997), ben poco sembra emergere nella flessibilizzazione della produzione dal punto di vista della delega di poteri e responsabilità all'operaio, di arricchimento delle sue conoscenze, e di attivazione della sua iniziativa. Da un lato la flessibilità capitalista nell'adattare i contingenti di forza-lavoro immessi nel processo di valorizzazione in un contesto di alta competizione e incertezza nella domanda comporta una frammentazione dei rapporti di impiego nei rivoli del lavoro precario, stagionale, in subappalto, basata sulla competizione al ribasso sui salari, come mostra il caso dell'"outsourcing". Dall' altro lato la pretesa attivazione di iniziativa e autorità operaia si traduce il più delle volte in diversificazione di mansioni altamente routinizzate e frammentate (multitasking) senza elevazione delle competenze (multiskilling) per far fronte alla diversificazione del prodotto, in ritmi di lavoro aumentati sia dal rapporto decrescente tra forza-lavoro e velocità della linea, sia dal ricorso generalizzato e unilaterale agli straordinari, anche in tempo di riduzione "strutturale" dell'impiego.
A ciò si deve aggiungere che una lettura della discontinuità tra flessibilità "postfordista" e rigidità "fordista" basata sulla necessità di riconoscere un maggiore controllo operaio in produzione per adattarsi all'imprevedibilità del mercato, in atto nella prima, e sul predominio di una razionalità burocratica e routinizzante per provvedere a produzioni a flusso continuo propria della seconda, è in larga misura fuorviante (Pollert 1988). Una considerevole flessibilità esiste anche in un contesto fordista, così come la necessità per l'operaio di attivare iniziativa e saperi non formalizzati per far fronte alle imprevidibilità proprie del funzionamento della catena (Wood 1989). Di converso, la flessibilità pone l'azienda nel dilemma di adattarsi a produrre in flussi discontinui, volumi ridotti, produzioni simultanee, in modo da avere una forza-lavoro "affidabile" nell'identificare difetti, nel sincronizzare operazioni, nel portare suggerimenti, ma cercando nel contempo di ridurre il più possibile la delega di potere reale alle linee di produzione, ed impedendo in tutti i modi che quel potere si trasformi in autorità e sapere autonomi (Clegg 1994).
Se si accetta quindi la flessibilità come dato permanente della produzione capitalista, in quanto dettata dalla necessità aziendale di appropriarsi di saperi e cooperazione operaia, ecco che viene a cadere la nozione di postfordismo come mutamento qualitativo sostanziale nella natura del lavoro. Questa nozione può però essere utile su altri versanti. Innanzitutto, essa può ridefinire la figura del salariato come conseguenza dei nuovi rapporti tra fabbrica e territorio dettati dai processi di decentramento produttivo e delocalizzazione di capitale, con annessa subordinazione di figure tradizionalmente intese come "lavoro autonomo" (Bologna 1994). In questa sede non mi occuperò di questo aspetto. In secondo luogo, ciò che costituisce il nucleo di questo articolo, una discontinuità evidente può essere rintracciata nel modo in cui la direzione di impresa cerca di venire a patti con saperi, comunicazione e cooperazione dei salariati, in altre parole con la soggettività operaia sul luogo di produzione. Da un lato, il paradigma taylorista-fordista mirava a regolare la flessibilità implicita nel processo lavorativo definendo nella routine della fabbrica spazi limitati in cui un certo controllo operaio di tempi e ritmi della produzione poteva essere tollerato nell' interesse di una maggiore produttività. Il ruolo negoziale del sindacato in quanto armonizzatore di lotte operaie e sviluppo capitalistico contribuiva a consolidare questi "spazi" impedendo loro di divenire aree di contestazione della gerarchia, ma questi spazi non erano, di per sé, formalizzati: essi costituivano un presupposto implicito della produzione, qualcosa che la razionalità burocratica d'azienda non poteva nominare. Infatti, il precetto taylorista della concentrazione di tutto il sapere e della strategia a livello di management continuava a definire la soggettività operaia come un ostacolo da superare, magari da tollerare in certa misura nell'immediato, ma mai da formalizzare, tanto meno da sollecitare (Revelli 1993).
Nell'epoca in cui "flessibilita" diventa un'ideologia padronale, è il rapporto con la soggettività operaia a mutare profondamente. Come lo stesso Revelli riconosce, di fronte all'incertezza e all'imprevedibilità dei mercati, la soggettività diventa una risorsa da incoraggiare e plasmare fino alla totale identificazione del soggetto operaio col soggetto-impresa. In questo contesto, l'azienda mira apertamente a formalizzare la soggettività operaia, riconoscendola come attore indipendente nella produzione e declinando questa indipendenza in un senso non antagonista e cooperativo. La formalizzazione ha, da un lato, una dimensione discorsiva basata su "cogestione", cooperazione, protagonismo operaio come dato portante nel raggiungimento degli obiettivi di impresa (Sayer 1986). Dall'altro lato, essa implica l'attivazione di istituzioni aziendali specifiche, circoli di qualità, programmi di qualità totale, lavoro di squadra, schemi di suggerimento, "green areas".
È in questo mutamento nelle forme organizzative, più che in un preteso carattere progressivo del lavoro flessibile, che va collocato l'emergere del marxiano "general intellect", come simbiosi del sapere operaio con l'apparato macchinico in quanto forza di produzione immediata. Resta aperto il problema se ciò si tratti soltanto di ideologia, e una risposta non può che venire da una diversificazione della ricerca su varie realtà lavorative. Il mio punto è, comunque, che anche se solo ideologia fosse, non è da escludere che questa determini sostanziali mutamenti nelle forme di identità, conflitto, organizzazione e soggettività in fabbrica. L'ideologia, lungi dall'essere mera componente sovrastrutturale, è infatti qualcosa che fornisce agli oppressi orizzonti di senso e significato che, oltre a non essere di per sè neutrali e auto-evidenti, si prestano anche ad essere piegati e rielaborati dagli oppressi stessi, per rispondere a bisogni e necessità di fondare categorie interpretative della propria condizione. L'impatto dell'ideologia della flessibilità sulla soggettività operaia diventa tanto più importante quando quell'ideologia si scontra con una realtà che nei fatti ne nega ogni promessa di mutamento qualitativo nella natura del lavoro. Quindi, la flesibilità in produzione è basata su di un compromesso, altamente instabile e per l'impresa potenzialmente rischioso, tra un discorso che continuamente ricrea le condizioni per un'accresciuta aspettativa operaia di controllo sulla produzione, e una realtà che, minando quella promessa, non riesce a stabilizzare le identità che l'impresa cerca di costruire come componente centrale del processo di valorizzazione.
La conclusione che va tratta da queste osservazioni è che l'analisi del mutamento delle forme della produzione deve spostare il suo baricentro, per poter servire alla ricomposizione di un progetto anticapitalista. Invece di privilegiare i mutamenti e le oscillazioni nella razionalità aziendale e nell'ideologia manageriale, è tempo di radicare concetti quali "fordismo" e "postfordismo" a partire dall'enigma perenne del processo di valorizzazione: la gestione della soggettività operaia in modo da armonizzarne cooperazione e iniziativa. Se il paradigma della flessibilità definisce una discontinuità visibile, questa va localizzata nella contraddizione, ora esplicita, tra la continuità fordista nella natura del lavoro e il carattere post-fordista della soggettività e del conflitto. Questo carattere non è il risultato meccanico di presunte nuove forme del produrre. Esso può però essere il risultato del modo in cui le soggettività lavoratrici nell'era del capitale globalizzato leggono e ri-elaborano la contraddizione tra la promessa di controllo e responsabilità implicita nell'idea del lavoro flessibile, e l'esistenza quotidiana in produzione come negazione di quella stessa promessa. Se l'analisi dei mutamenti della produzione capitalistica va fatta a partire da come quei mutamenti sono rappresentati nella soggetività operaia e nel conflitto, la soggettività deve tornare ad essere il punto privilegiato dell'inchiesta.


Seconda Parte