Il telelavoro come paradigma della flessibilità

Il telelavoro come paradigma della flessibilità

di Pino Caputo

Il telelavoro [il termine fu coniato nel 1973 da Jack Nilles, un consulente statunitense] si sta facendo a poco a poco strada nel mondo del lavoro contemporaneo. Ma in Italia sia questa nuova forma di prestazione lavorativa che il dibattito attorno alle sue tipologie e implicazioni sono però molto indietro.
L'Organizzazione Internazionale del Lavoro di Ginevra definisce il telelavoro come <<una forma di lavoro effettuata in un luogo distante dall'ufficio centrale o dal centro di produzione e che implichi l'uso di una nuova tecnologia che permetta la separazione e faciliti la comunicazione>>. Si presume che i lavoratori attualmente coinvolti nel processo siano circa 8 milioni negli USA e circa 1,5 milioni in Europa. La FIOM-CGIL stima che in Italia i telelavoratori siano circa 100 mila e che il mercato potenziale sia di circa 2 milioni. Infatti l'integrazione delle telecomunicazioni nei processi produttivi investe potenzialmente le attività e le fasi produttive basate sull'acquisizione, organizzazione, trattamento delle informazioni di qualunque genere e tipo. Tale comparto tende ad assumere dimensioni sempre maggiori in quanto il processo di produzione di beni materiali comprende quote sempre maggiori di ricerca, progettazione, gestione delle scorte, analisi di mercato, verifiche degli standard qualitativi ecc. Si calcola che in Europa la quota di lavoratori che in qualche modo "tratta informazioni" sia valutabile nell'ordine del 50% della forza lavoro complessiva, negli USA intorno al 60% e si stima che l' 80% dei nuovi posti di lavoro sia compreso nel comparto di trattamento dell'informazione. Quindi il comparto in cui potenzialmente potrebbe svilupparsi il telelavoro, a condizioni di convenienza e fattibilità, è quello relativo al trattamento delle informazioni e all'uso di strumenti informatici.
Questi dati servono esclusivamente a inquadrare il telelavoro, ma si prestano comunque ad una serie di riflessioni. Innanzitutto si può dire che siamo in presenza di un fenomeno ancora marginale ma in crescita e, se le previsioni della FIOM si realizzassero i telelavoratori potrebbero rappresentare a breve il 10% della forza lavoro attiva in Italia. In altri stati, quali la Gran Bretagna e la Francia, questo fenomeno assumerà senz'altro dimensioni maggiori.
Si può poi senz'altro dire, basandosi sulla rilevazione dell'Osservatorio, che il concetto di telelavoro è poco conosciuto e, quando lo è, ne sono evidenziate le sue connotazioni "sociali" (allargamento del mercato del lavoro e offerta di lavoro in un bacino più ampio) e positive (aumento della flessibilità e riduzione degli spostamenti casa-lavoro). Il punto di vista è però quello privilegiato di chi ha un lavoro stabile in un azienda e una certa disponibilità di risorse di base (condizioni socio-familiari favorevoli e disponibilità di spazio presso la propria abitazione).
Inoltre si sta sviluppando una notevole retorica istituzionale sul telelavoro e sui suoi presunti vantaggi sociali. Nell'estate del 1994, per esempio è stato presentato il cosiddetto rapporto Bangemann su "Europa e Società dell'Informazione Globale", secondo il quale telelavoro significa "più lavoro, nuovi lavori, per una società in movimento". Non è certo difficile ribattere a questa affermazione evidenziando, come alcuni osservatori hanno fatto, che il telelavoro è semplicemente un diverso metodo di lavorare più che un'occupazione di per sé. E che, quindi, se si può ammettere che il telelavoro produca nuove metodologie lavorative (dal punto di vista della tecnologie utilizzate, del luogo in cui si svolge, del rapporto con l'azienda), non si può assolutamente affermare che perciò si creino necessariamente più posti di lavoro. Ma anche assumendo che, per le possibilità offerte dalle nuove tecnologie, si creassero delle professionalità specifiche per il telelavoro, sicuramente ce ne sarebbero altre, ormai obsolete, che verrebbero distrutte nella nuova società della produzione informatizzata. Il bilancio, come è dimostrato dall'andamento del mercato del lavoro in Europa in questi anni è globalmente negativo. Per inciso, val la pena di citare il fatto che i rappresentanti italiani al gruppo di esperti che ha redatto il rapporto Bangemann erano due campioni del centrosinistra politico-industriale, vale a dire Prodi e Debenedetti.

In che modo si telelavora
Si possono individuare almeno quattro categorie di telelavoro (più avanti vedremo quali sono le loro implicazioni dal punto di vista della funzionalità del telelavoro al perseguimento della flessibilizzazione):

1. telelavoro individuale dipendente, per cui il lavoratore ha un terminale sito nella sua abitazione, connesso stabilmente con l'azienda di cui è dipendente, che prescrive esattamente il tipo e le modalità con cui deve essere svolto il lavoro; di norma l'azienda è proprietaria delle apparecchiature e ne paga le spese di gestione e di assistenza; questo tipo di telelavoratore ha una relativa flessibilità per ciò che riguarda i tempi di lavoro: in genere deve garantire la reperibilità, via telefono o posta elettronica, per un certo numero di ore durante la giornata;

2. telelavoro individuale indipendente, per cui il lavoratore possiede di suo un PC e un modem connesso ad una linea telefonica e svolge il proprio lavoro su commessa e progetti ed è un lavoratore autonomo; attualmente e tipicamente le professioni coinvolte sono quelle di sviluppatori di software, pubblicitari, grafici, architetti, documentalisti, esperti di marketing in rete e altri simili, ma il telelavoratore autonomo si sta mediamente deprofessionalizzando includendo lavori le cui conoscenze necessarie sono di larga diffusione o si stanno rapidamente diffondendo (revisione bozze e testi, ipertestualizzazione di documenti, pubblicità telematica, creazioni di database di aziende con siti web);

3. telelavoro di gruppo dipendente, in cui il lavoro si svolge in centri appositamente attrezzati con computer e linee telefoniche (telecentri o, in inglese, telecottages ) e dove possono contemporaneamente lavorare più persone, anche impiegate di aziende diverse, che però possono condividere i momenti di socializzazione (pausa caffè, pranzo); in genere si trovano nelle periferie delle città, in posti facilmente raggiungibili senza immettersi nel traffico cittadino; permettono un'ampia flessibilità di orario (possono essere, al limite, aperti anche 24 ore su 24); un telecentro sperimentale sta per nascere in Italia sull'Appennino reggiano, mentre in Gran Bretagna sono già operanti circa 250 telecottages;

4. ufficio mobile (o deskless job, lavoro senza scrivania); si tratta di un computer portatile collegabile ad un telefono mobile, per cui può comunicare, per esempio, con il computer centrale dell'azienda, e, generalmente, in dotazione a personale del management o dei servizi commerciali o di assistenza; praticamente l'orario di lavoro non ha assolutamente più confini, potendo, in questo caso, addirittura portarsi a casa l' "ufficio".

In Italia attualmente sei grandi aziende hanno stipulato dei verbali di accordo con i sindacati che regolamentano un periodo sperimentale di telelavoro. Le aziende sono la Telecom, la Seat, l'Italtel, la Dun & Bradstreet SpA, la Saritel SpA e la Digital Equipment SpA. Alla IBM Italia, invece, già da tempo tremila lavoratori svolgono la propria attività di telelavoro mobile, all'interno di un progetto aziendale di sperimentazione del PC portatile funzionante come un ufficio mobile.
Il primo contratto di telelavoro in Italia è quello firmato dalla Saritel e praticamente si è trattato di un ricatto. Avendo deciso la chiusura delle sedi decentrate in alcune grandi città del nord, l'azienda ha imposto ad una sessantina di lavoratori la scelta fra la trasformazione in telelavoratori e il trasferimento a Pomezia, in provincia di Roma. Anche per la SEAT il passaggio al telelavoro è stato dettato dalla chiusura di alcune sedi e ha interessato finora 32 lavoratori, venditori telefonici e addetti ai telesolleciti di pagamento. In Italtel, dopo il periodo di sperimentazione che ha coinvolto 13 persone, si è adottato il telelavoro in via permanente per tutti i progettisti e i ricercatori, mentre in Digital la cosa interessa 10 persone del settore Engineering ed un migliaio di venditori. Il ricatto del trasferimento è stata la leva che ha fatto decidere di diventare telelavoratori 200 impiegati della Telecom Italia addetti al servizio 12. Ma qui si è aggiunto un fatto nuovo: l'alternativa non era semplicemente o trasferimento o telelavoro, bensì o trasferimento o telelavoro con passaggio al part-time, con conseguente riduzione dello stipendio. La situazione peggiore, ma secondo me anche la più emblematica dell'utilizzo aziendale del telelavoro, è quella della Dun & Bradstreet. Anche in questo caso si è passati attraverso il ricatto e la chiusura delle sedi decentrate, ma i dipendenti sono praticamente diventati dei lavoratori a cottimo. Lo stipendio è infatti calcolato sulla base delle pratiche effettivamente svolte e tenendo conto della produttività media dell'azienda nei tre mesi precedenti.
Naturalmente in tutti i casi non sono previsti pagamenti di straordinari per prestazioni lavorative eccedenti le otto ore canoniche, anche perché non sono previste forme di controllo dell'orario di lavoro. Del resto richiedere una qualche forma di controllo per vedersi pagati gli straordinari potrebbe essere molto controproducente e violerebbe le normative sul controllo dei lavoratori sul luogo di lavoro.

L'istituzionalizzazione della doppia servitù
I telelavoratori di queste aziende ne rimangono comunque, secondo gli accordi, dipendenti. Ma ce ne sono già molte altre, medio-piccole, per cui non è così. Qui, e ciò vale per la maggior parte dei centomila attuali telelavoratori italiani, essi sono invece dei prestatori d'opera esterni, dei lavoratori autonomi, sulle quali le aziende scaricano i costi strutturali (computer, contribuzioni, linee telefoniche, spazio fisico dell'ufficio, riscaldamento, trattamento mensa) e fiscali, pagando solo le loro prestazioni a prezzi "di mercato". Ho motivo di pensare che la maggior parte dei posti di telelavoro saranno proprio di questo tipo, che si inquadra nella seconda delle categorie elencate poco sopra: il telelavoro individuale indipendente.
Non bisogna poi dimenticare i cosiddetti guerrilla workers, cioè i telelavoratori che operano nel sommerso, che non hanno rapporti di lavoro continuativi, che non sono controllati dai sindacati, che lavorano in nero.
Quindi, in mancanza di una forte legislazione di regolamentazione, il telelavoratore, o almeno la gran parte di essi, è destinato, nei casi più fortunati, a diventare imprenditore di se stesso (dando alla parola imprenditore anche un significato di progettualità). Negli altri casi lavoratore a contratto o anche a cottimo. Comunque non impiegato dell'azienda, ma collaboratore esterno o consulente, dotato di partita IVA e costituente impresa autonoma.
Tutto ciò naturalmente, al di là delle rappresentazioni pubblicitarie, significherebbe un peggioramento delle condizioni di lavoro: nessun diritto alle ferie retribuite, nessuna retribuzione dei giorni di malattia, nessuna contribuzione pensionistica da parte dell'azienda, nessuna retribuzione della maternità, nessun corso di aggiornamento retribuito (essenziali per rimanere sul mercato). Bisogna infine tener presente che è in corso un evidente tentativo politico di limitare sempre di più la forbice fra il lavoro dipendente e il lavoro esterno a commessa o consulenziale, per esempio con la nuova legge sulle pensioni o con la proposta del governo tedesco di non pagare più al 100% le giornate di malattia dei dipendenti, oppure con la recente proposta della Confindustria italiana di abolire i contratti collettivi nazionali di lavoro.
Alcune delle precedenti considerazioni si possono trovare anche nel rapporto alla Task Force sull'occupazione della Commissione Europea presentato come aggiornamento del Libro Bianco di Jacques Delors [Ursula Huws, Follow-up to the White Paper - Teleworking, 1995, http://www.agora.stm.it/ectf/followup.html]. Vi sono diversi aspetti negativi e deleteri del telelavoro, alcuni peculiari e altri no, pronti a scatenarsi, partendo proprio dalla disintegrazione di forme collettive di organizzazione dei lavoratori, che porterebbero all'atomizzazione della forza lavoro e alla crescente esclusione di larghe fasce di lavoratori dal cosiddetto "patto sociale". A ciò si accompagna una sempre maggiore precarizzazione dell'occupazione e l'ipersfruttamento di gruppi di lavoratori particolamente vulnerabili come le donne con bambini piccoli, i disabili, oppure persone appartenenti a minoranze etniche, cosa che del resto già avviene. In particolare per le donne il lavoro d'ufficio svolto in casa potrebbe portare a una notevole sovrapposizione fra l'attività telelavorativa e le attività domestiche che, nella società attuale sono ancora totalmente demandate alle donne. Il lavoro svolto in casa è percepito in modo sostanzialmente differente dalle donne e dagli uomini ed il luogo dove si lavora non è per niente neutrale rispetto al genere. Secondo lo stereotipo prevalente andare a lavorare fuori di casa è visto come un'attività "maschile", mentre lo stare a casa è tipicamente "femminile". Ciò conferisce all'atto di andare a lavorare fuori casa un significato notevolmente differente da parte delle donne. Infatti al lavoro domestico, che è tradizionalmente svolto dalle donne, viene attribuito uno status inferiore nella società: il potere, i soldi e lo status sono invece correlati indiscutibilmente al lavoro svolto fuori dalla propria abitazione. È reale quindi la possibilità che il telelavoro stabilisca per le donne una doppia servitù: quella dal lavoro svolto per terzi (precario, mal retribuito e meno riconosciuto come effetiva attività lavorativa) e quella dal lavoro domestico facendo ripiombare tante donne nello stato, estremamente marginale nella organizzazione reale della nostra società, di "moglie e casalinga".

La flessibilità, nuovo paradigma dell'essenza del lavoro
Un aspetto che va evidenziato con forza rispetto al telelavoro, che però non è mai esplicitamente dichiarato (di solito ci si trincera dietro la necessità della creazione di nuovi posti di lavoro), e che il lavoro flessibile è essenzialmente percepito dalle aziende come una vacca da cui mungere più margine possibile rispetto ai costi della gestione aziendale del lavoro. I nuovi profitti aziendali si trovano lì: nella "flessibilizzazione" massiva del lavoro e dei lavoratori. Il telelavoro è solo una modalità differente di attuazione della flessibilità, caratterizzato dalla esternalizzazione del lavoratore rispetto all'impresa, elemento comunque già centrale nei processi di ristrutturazione aziendale messi in atto dagli anni ottanta. Il telelavoro si inserisce quindi in un processo già in atto da tempo, favorito dall'affermarsi di nuove tecnologie di telecomunicazione. Questo processo è quello che, per esempio, David Harvey ha definito "l'accumulazione flessibile" [David Harvey, La crisi della modernità, il Saggiatore, 1993]. Ora, questo processo si è caratterizzato, sul piano dell'organizzazione aziendale e del lavoro, per una progressiva flessibilizzazione sia della manodopera sia della struttura impiegatizia. Praticamente si è assistito ad una riduzione del nucleo di dipendenti stabili dell'azienda (ciò che viene definitocore manpower ) e al ricorso sempre maggiore a forza-lavoro esterna, comprendente lavoratori part-time, occasionali, temporanei, a contratto e con contratto di formazione1. Il telelavoratore appartiene tipicamente a queste categorie, la cui flessibilità è sia spaziale (può lavorare in qualsiasi luogo in cui sia disponibile una linea telefonica) sia temporale (lavora per un'azienda solo quando quell'azienda ne ha bisogno); molto più raramente appartiene al nucleo di dipendenti stabili, caratterizzati da una flessibilità di tipo "funzionale".

Il telelavoratore come lavoratore autonomo
Inoltre è molto più facile, è ciò diventa sempre più la norma, che il telelavoratore non sia impiegato dell'azienda per cui sta prestando l'opera, ma sia invece un lavoratore autonomo.
Andrew Bibby, un giornalista inglese che si occupa da tempo di telelavoro, ha puntato il dito verso questo aspetto. Egli afferma, infatti, che <<è significativo che i primi analisti del telelavoro presupponessero che i telelavoratori sarebbero rimasti impiegati nelle proprie aziende, anche se essi non avrebbero più lavorato negli uffici dell'azienda stessa. Ciò che invece sta succedendo in realtà, al contrario, è che la maggioranza delle persone che svolgono un telelavoro lo fanno come lavoratori autonomi>> [Andrew Bibby, Che cos'è il telelavoro, relazione tenuta alla conferenza "Lavorando sull'autostrada dell'informazione: il telelavoro e il movimento dei lavoratori", Manchester, 1995, http://www.eclipse.co.uk/pens/bibby/infobahn.html].
L'espansione del lavoro autonomo e la formazione di microimprese o imprese individuali è un fenomeno ormai assodato e tendenzialmente in crescita. E va sgombrato il campo dal qualunquismo superficiale che identifica i lavoratori autonomi solo nei professionisti (avvocati, architetti, notai, ecc...) e nei commercianti, e ricordare ancora che possiamo configurare come lavoro autonomo tutte le prestazioni, formalizzate o meno da un contratto o da una commessa, fornite a terzi dietro pagamento. Inoltre bisognerebbe soffermarsi con attenzione su una cosa, anche se può apparire una banalità: questi lavoratori anche se sono formalmente dei lavoratori autonomi, nella pratica svolgono lo stesso lavoro svolto dagli impiegati che sono dipendenti dell'azienda. Ma le differenze nei rapporti con le istituzioni sono notevoli a cominciare da quelli con il fisco e con le banche o con gli enti che forniscono servizi pubblici differenziati fra l'uso domestico e quello per attività lavorative. Un esempio è dato dalla società che fornisce l'energia elettrica in Scozia che ha imposto ai telelavoratori, che naturalmente svolgono la propria attività in casa, il pagamento delle tariffe commerciali, in quanto la casa coincide con il luogo di lavoro.
Per la sinistra tutto ciò pone seri problemi politici e di strategia. A partire dal fatto che la difesa sindacale e politica dei lavoratori che costituiscono ciò che prima ho chiamato il core manpower, cioè la forza-lavoro costituente il nucleo centrale di dipendenti fissi di un'azienda, si configura sempre di più come la difesa di una categoria di privilegiati2, mentre intorno aumenta la massa di lavoratori che, fra lavoro flessibile, lavoro precario, lavoro in affitto, formazione, apprendistato e impresa individuale, sono sempre più lasciati a se stessi. Un altro aspetto è costituito dalla progressiva perdita di significato sostanziale del cavallo di battaglia della sinistra sindacale: la riduzione dell'orario di lavoro. È dimostrato infatti che il lavoratore flessibile, precario o autonomo, lavora mediamante molto di più rispetto alle 40 ore della settimana lavorativa canonica. E ciò non avviene per egoismo o per avidità, ma semplicemente per la necessità di assicurarsi un sufficiente livello di reddito. Infatti nel rapporto sul lavoro autonomo negli stati dell'Unione Europea del Direttorato Generale V della Commissione Europea, si legge che <<i lavoratori autonomi rischiano, più dei lavoratori dipendenti, di scendere al di sotto della soglia di povertà>> [citato da Sergio Bologna nella relazione Orari di lavoro e postfordismo, tenuta al convegno "Il giusto lavoro per un mondo giusto. Dalle 35 ore alla qualità del tempo di vita", Milano, 8-9 Luglio 1995]. L'ultimo aspetto che vorrei evidenziare si ricollega a quanto appena detto. L'unico modo che ha un lavoratore non dipendente di aumentare il proprio reddito è quello di ridurre la pressione fiscale che grava sulle proprie entrate. È questo può essere attuato essenzialmente in due modi: a breve termine attraverso l'evasione fiscale, a medio-lungo termine attraverso battaglie politiche e proteste sociali. In questo modo larghe fette di lavoratori stanno passando, dal punto di vista politico-rivendicativo, su terreni di lotta tipicamente di destra (dalla lotta per l'aumento salariale a quella per la diminuzione delle tasse) lasciando a bocca aperta tutti quelli che hanno sempre pensato che la lotta fiscale fosse prerogativa esclusiva di padroni e bottegai.
La deregulation sta dando alle grandi aziende e alla classe politica (centro-sinistra o centro-destra che sia) che né è l'espressione, i suoi frutti economici e politici.

Alla ricerca del soggetto perduto
Tutto ciò pone, secondo me, dei seri problemi di rapporto con vaste categorie di lavoratori da parte di quelle forze sindacali e politiche che hanno sempre avuto come soggetto di riferimento il lavoratore di fabbrica o del comparto pubblico. Sia per gli operai dell'industria che per gli impiegati dei grandi uffici pubblici il motivo principale di espulsione dall'azienda risiede proprio nell'introduzione di nuovi modelli organizzativi, con il ricorso a strutture aziendali flessibili, unitamente all'introduzione di nuove tecnologie di produzione industriale. Per esempio l'incremento di produttività, dell'ordine del 40-50%, che è previsto in virtù dell'adozione di tecnologie per l'automazione del lavoro d'ufficio nel settore dei servizi e nella pubblica amministrazione, non permetterà più il recupero in questi due settori delle perdite di occupazione che si registrano nell'industria manifatturiera [Luciano Gallino, Tecnologia/occupazione: la rottura del circolo virtuoso, Quaderni di sociologia, Vol. XXXVIII-XXXIX, 1994-95, 7].
Per chi ha sempre identificato il soggetto rivoluzionario nel lavoratore di fabbrica, sia esso operaio o impiegato, è un bello smacco. Sta vedendo dissolversi la classe operaia parallelamente allo svuotamento delle proprie teorie. Detto senza ironia è comunque vero: la composizione di classe sta cambiando con tempi e ritmi che sono quelli dettati dal capitale e di fronte ai quali l'elaborazione del sindacalismo alternativo e della sinistra antagonista è in ritardo più che mai.
La parte propositiva è naturalmente la più difficile, anche perché abbiamo creato noi stessi le condizioni per cui sembra di lottare contro i mulini a vento, a partire dalle difficoltà interpretative ed analitiche delle implicazioni sociali dell'introduzione di nuove tecnologie. Valga un esempio per tutti: cosa succederà alle aziende che operano nel campo dei trasporti di persone quando sarà possibile l'utilizzo su larga scala a costi accessibili delle tecnologie per teleconferenze e teleriunioni? I tentativi di risposta sull'impatto di questa forma di comunicazione sono al momento demandati a ricerche accademiche, in genere commissionate dalle stesse aziende produttrici di quella tecnologia o fornitrici di quei servizi. Tutti noi ne saremo messi al corrente quando il fenomeno sarà gia affermato e desterà l'interesse giornalistico dello scoop di terza mano. Tutta l'informazione che arriva a noi è mediata dai mezzi di comunicazione di massa.
Prima proposta: creare informazione di prima mano, quindi socializzarla, analizzarla e renderla operativa.
La seconda proposta è relativa ad alcuni punti discussi in questo articolo e riguarda il rapporto fra lavoro dipendente, lavoro precario e lavoro autonomo. Bisogna creare dei luoghi in cui individui il cui lavoro afferisce a queste categorie possano elaborare delle strategie di difesa comuni, anche se le modalità di attuazione saranno poi diverse. Alzare steccati, o farli rimanere in piedi, solo perché si pensa di appartenere a categorie diverse in conflitto fra loro è un atteggiamento suicida.
Per quanto tempo ancora intendiamo proseguire su questa strada?


Note

1. Vi sarebbe poi da citare, per particolari funzioni di ricercatori o progettisti, il ricorso sempre maggiore a laureandi o dottorandi che, svolgendo la tesi in azienda, si prestano praticamente in modo gratuito o con minime borse di studio. Lungi dall'essere un modo per avvicinarsi all'azienda sperando quindi di essere successivamente assunti, esso diventa soprattutto lo sfruttamento a costo molto basso di personale qualificato.

2. La sensazione che quella del lavoratore dipendente e garantito sia diventata una condizione privilegiata, è palese e palpabile anche nei discorsi con i compagni che invece soffrono una condizione di lavoro precario o provvisorio.



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