CHAOS

Appunti sulla memoria


Roberto Prato



"Noi entriamo nell'avvenire a ritroso"
Paul Valéry

Perché la memoria? Qualcuno risolleva il problema: suo significato, suo ruolo rispetto alla sfera dell'agire sociale e politico ed alla costituzione dei suoi soggetti. È certo (da sempre, ma specialmente oggi) questione cruciale e complessa, da tematizzare rigorosamente. Adesso qui, senza alcuna pretesa sistematica, raccolgo pochi appunti, come possibili materiali di discussione.

1. Centotrentasette anni separano la prima manifesta insorgenza di un'autonoma identità operaia in quanto tale (1831 - Lione), dall'ultima di portata storica generale (1968-Parigi). In mezzo tante date fondamentali (le più significative, a mio avviso: 1848-Parigi; 1871-Parigi; 1905-S. Pietroburgo; 1917-S. Pietroburgo; 1919-Berlino; 1920-Torino; 1921-Kronstadt; 1936-Barcellona; 1956-Budapest).
Ebbene, sempre questi momenti vedono affrontarsi - oltre, ovviamente, le forze sociali contrapposte - i punti più alti e reciprocamente irriducibili delle rispettive rappresentazioni dell'evento; e significativamente i rispettivi linguaggi (certo peculiari dei differenti paradigmi espressivi epocali), che le traducono, si pongono ben oltre la consueta "mediazione" del lessico politico "normale". Essi sono, a ben vedere, "metapolitica", segnalando la frattura radicale (non riconducibile entro i "nòmoi" della "polis") che, in quel momento, si è prodotta tra il potere e i soggetti subalterni, nonché la chiara percezione che - rispettivamente - le parti (le classi sociali) ne hanno.

2. Nel 1831, i "canuts" lionesi cantano, sulle barricate della "Croix fousse": <<... il nostro regno arriverà quando il vostro regno finirà...>>, mentre al Parlamento di Parigi si grida: <<Il socialismo è la barbarie!>> (e Luigi Filippo fa intervenire la fanteria e l'artiglieria, per spiegare ai setaioli le nuove libertà della "monarchia di luglio", inaugurata l'anno prima).
Nel 1968, sui muri di Parigi si legge: <<Siate ragionevoli: esigete l'impossibile>>, mentre il potere chiama "canaglia" i milioni di operai e studenti in lotta (e il generale/presidente De Gaulle - il vecchio capo della "Résistence" - fa sfilare nella "banlieu" della capitale i carri del generale Massu, il perdonato "fellone" d'Algeria di dieci anni prima).
La "ragionevolezza" per gli insurgés del '68 è - nella loro stessa consapevolezza - l' "impossibile", cioè l'incompatibile con lo "stato di cose esistente", storicamente omologa di quel "règne" dei "canuts" che può iniziare solo con la fine del "règne" dei "burgeois".
E la "pègre" e la "chieulit" (ossia la "ladreria" e il "merdaio"), con cui sono sommariamente identificati in massa i soixantehuitards, sono ancora l'eterna "barbarie" che sgomenta da sempre i possidenti e i loro Parlamenti, il vecchio "spectre rouge" del '31, del '48, del '71, reso canonico dalla libellistica d'ordine, ai tempi del "18 brumaio di Luigi Bonaparte".

3. Ricordare quelle "journées de France", come ricordare (per esempio) i "Fédérés" della Comune del 1871, sterminati dalle nuovissime mitragliatrici che la noenata Terza Repubblica aveva ereditato dal Secondo Impero; come ricordare gli Spartachisti berlinesi massacrati nel 1919 dai "Freikorps" scatenati dalla socialdemocrazia al governo; come ricordare il Soviet di Kronstadt , sulle cui ceneri - il 18 marzo 1921 - l'Armata Rossa "celebrò" col cannone i cinquant'anni della Comune di Parigi; come ricordare la rivoluzione sociale libertaria del '36 in Spagna, ricondotta - cioè stroncata - "manu militari", da democratici e stalinisti, dentro i limiti della difesa antifascista della Repubblica; come ricordare gli operai di Budapest, insorti nel 1956, alle cui inquietanti rivendicazioni autogestionarie risposero - dialetticamente - i carri russi, ancorché "destalinizzati"; come ricordare gli arsenalotti di Danzica che nel dicembre 1970, in armi, proclamarono la comune, ammainarono la bandiera polacca dal palazzo del governo e - al canto dell' "Internazionale" - vi issarono la bandiera rossa, presto falciati dall'esercito nazional-comunista di Gomulka, che si ebbe per questo il plauso "liberal" del Corriere della Sera; ricordare tutto ciò - e il molto altro, che solo per brevità qui non si nomina [1] - non è il lusso degli eruditi, né l'imbelle fuga nella "coscienza infelice della storia" (punto d'approdo inevitabile dell'elaborazione del lutto, della racconsolante "cérémonie des adieux"): ricordare è un punto di resistenza attiva, capace di alimentare la consapevolezza del presente come storia, e dunque del suo essere carico di un futuro che non "sta già scritto" necessariamente da qualche parte.

4. Contro il potere che pretende sempre di legittimarsi attraverso una proclamata "naturalità" (oggi, poi, il modo di produzione capitalistico - e il rapporto sociale entro cui esso consustanzialmente vige - possono davvero vantarsi di essere quella "seconda natura", cui hanno saputo storicamente dar vita: la potenza e insieme la contraddizione di fondo del capitale è tutta qui, nel creare storicamente una natura ), e che pertanto rimuove la memoria, perché irrilevante (leggi: nociva) al fine del riconoscimento della intrascendibile razionalità del presente, ricordare è (ri)cominciare a criticare precisamente tale "pacifica naturalità".
Giustamente, dunque, Saint-Just - preparandosi a sovvertire il suo presente - mandava a memoria secoli di "dragonnades" feudali. Scrive Le Goff: "La memoria (...) accumulatasi esploderà nella rivoluzione del 1789. E non ne fu essa il grande detonatore?" [2]
La filosofia politica della Grande Rivoluzione potè infatti dissolvere la sacralità dell'ordine monarchico/feudale perché "ricordava" - cioè sapeva e mostrava - di che matrialmente quell'ordine era fatto, su che si era retto per oltre mille anni. Il grande dibattito alla Convenzione sul destino di Luigi XVI è davvero la critica ricapitolazione della storia di Francia (si veda, in particolare, la esemplare orazione di Robespierre), alla luce del presente che la sta rivoluzionando, da parte di chi sta spezzando (per mutarla) la "règle du jeu". Poiché anche questo il '93 finalmente chiarì nei fatti: che solo il presente spiega il passato. La Rivoluzione francese, del resto, fu il primo grande movimento in cui la memoria diventò subito intenzionalità e progetto politico, cioè forma consapevole dell'agire emancipativo, e in cui - dunque - essa si divise esemplarmente in memorie di parte formalizzate, che si presentarono come programmi. Scrisse Kropotkine: "[il 10 agosto 1792] Le Tuileries furono prese, il re detronizzato. E immediatamente la nuova Comune fece sapere ch'essa vedeva nel 10 agosto non il compimento della Rivoluzione inaugurata il 14 luglio 1789, ma il principio di una nuova rivoluzione popolare ed egualitaria" .[3] E ancora: "Dal 10 agosto, la Comune di Parigi datava i suoi atto con 'l'anno IV della Libertà e I dell'Eguaglianza'. La Convenzione datava i suoi con 'l'anno IV della Libertà e l'anno I della Repubblica Francese'. Da questo piccolo particolare si scorgono già le due concezioni".[4]

5. Il presente che spiega il passato secondo un progetto di futuro: è dunque propriamente questo il criterio epistemologico della memoria rivoluzionaria, che si vuol rimuovere, che si deve rivendicare. Il potere, per parte sua, rivendica - fisiologicamente - una naturale continuità: la memoria, al contrario, riconosce la "discontinuità", la frattura, dunque rilegittima l'utopia nella sua concreta storicità, in tutte le sue - pur sconfitte - epifanie, in sostanza nella sua irriducibilità. Scrive Z. Bauman [5]: "La memoria è la sopravvivenza della storia (...) Nella sua sopravvivenza, la storia si reincarna come un'Utopia che guida ed è guidata dalle lotte del presente".
Il potere certifica sempre, parlando di sé, che <<numquam natura facit saltus>>: la memoria ricapitola tutti i "salti", le spezzature, le "anomalie", infrange il "sacro" (cioè la violenza) del "continuum". La memoria di classe, internazionale, selettiva ed ordinatrice (com'è la vera memoria, che non ha nulla a che fare con i "ricordi" [6]), sceglie ed elabora - cioè forma - i suoi "memorabilia", alla luce del bisogno di emancipazione del presente e in funzione del futuro [7]. È memoria di parte e "tendenziosa": si costruisce, si conosce e si rivendica come tale. Anzi, ri/conosce il passato fin dentro il presente (non "commemora" il passato, non ha musei, né mausolei, né anniversari), e lo "insinua" nel futuro. Tutto il passato le è presente. Riconosce la storia come tutta contemporanea [8].
Questa è l'unica memoria che conviene agli oppressi, quella che tiene aperto il lungo conto dell'oppressione, perché vuole saldarlo, non "celebrarlo". Al limite, essa non dice (l'"epos", che riconcilia i combattenti dentro/dopo le comuni "res gestae"), né "trasfigura" (l'"elegia" che consola i vinti) [9].

6. Fin dalla grande narrazione dell'Esodo, infatti, è ben chiaro che per l'oppresso non di dà l'emancipazione senza la dura memoria della servitù e di come l'oppresso se ne trasse: <<I combattimenti del giugno [1845], le vittime della Comune [1871], i martiri della rivoluzione russa [1905], tutta una schiera di ombre insanguinate quasi senza numero (...) Noi siamo veramente simili agli ebrei che Mosé condusse attraverso il deserto>>, scrisse Rosa Luxembourg (nella Juniusbroschüre, clandestinamente vergata - nell'Aprile del 1915 - nelle carceri di Berlino), risollevando - contro il patriottismo della socialdemocrazia - la memoria di parte della classe insorta, e facendone (come si sarebbe poi visto nei fatti) progetto politico.
Dunque, la memoria non è nostalgia delle "origini", non è l'epos dell'"età eroica", non è l'elegia dei "vinti": essa non ha lacrime per quei grandi "mattini" che non divennero giorno.
La memoria è anticipazione e progetto.
Come cantò Heine, tramandando la memoria della feroce repressione prussiana dell'insurrezione dei tessitori slesiani del 1844:
"Non han ne gli sbarrati occhi una lacrima,
ma digrignano i denti e a' telai stanno.
-Tessiam, Germania, il tuo lenzuolo funebre..."

(Traduzione di Giosuè Carducci)

7. La memoria collettiva, del resto, fu sempre - innanzitutto - terreno di conquista, posta in gioco, strumento di potere. Sempre e ovunque, come ha scritto Le Goff, vi è stata <<lotta per il dominio del ricordo>> [10]: storici ed antropologi hanno mostrato la lunghissima continuità di "genealogie" - in senso proprio e figurato - manipolate dalle classi dominanti al fine di legittimare il loro potere. Oggi poi, nelle società sviluppate, si danno "nuovi strumenti di produzione di tale memoria, ossia la radio e la televisione" [11].
La lotta per la memoria - contro le "genealogie dominanti", attraverso la socializzazione degli strumenti di produzione della memoria stessa - è dunque, oggi più che mai, un momento essenziale del conflitto per l'emancipazione: <<La memoria (...) mira a salvare il passato soltanto per servire al presente e al futuro. Si deve fare in modo che la memoria collettiva serva alla liberazione, e non all'asservimento degli uomini>> [12].
Ancora una volta, chi terrà lezione <<nell'immensa aula della memoria>> [13] ?


Note
[1] Ma bisogna decisamente uscire dai limiti europei, dal nostro insufficiente "paradigma classico", e ricordare - solo due esempi (ma fondamentali) fra i tanti -: i proletari insorti della Comune di Shanghai del 1927, decapitati, fucilati, arsi nei forni delle locomotive dai patrioti del Guomintang (un "evento" per ripensare tutta la storia contemporanea dell'Asia, fino ad oggi); e, "last but not least", la lunga sequenza delle durissime lotte dei proletari americani - "wobblies" in prima fila (la cui storica sconfitta ancora ci riguarda da vicino) - spezzate spesso dai fucili dei "Pinkerton" * e della Guardia Nazionale, tra gli anni Ottanta del secolo scorso e i Trenta del nostro.
[2] J. Le Goff, Storia e memoria, Einaudi, Torino, 1982, pag. 384.
[3] P. Kropotkine, La Grande Rivoluzione, Edizione del Gruppo del "Risveglio", Ginevra, 1911, Vol.II, pag.44.
[4] P. Kropotkine, Op. cit., pag.75
[5] Z. Baumann, Memorie di classe, Einaudi, Torino, 1987, pag.3.
[6] I "ricordi" sono davvero - come afferma Gianluca Giachery in Per Fortini (sul numero 6/7 di Chaos, pag.90) - quegli <<...anfratti della memoria che non lasciano spazio al pensiero, che inducono il pensare a mero regresso e non a forma >> (corsivo mio). E sul peso paralizzante dei "grandi ricordi", Marx (mentre in Francia, dopo Sédan, cadeva il Secondo Impero e nasceva la Terza Repubblica) scriveva in una lettera a César de Paeye, il 14 settembre 1870: <<Il dramma dei Francesi, anche degli operai, sono i grandi ricordi . Sarebbe necessario che gli avvenimenti ponessero fine una volta per tutte a questo culto reazionario del passato>> (qui il corsivo è originale).
[7] Ha scritto Lucien Febvre che la storia <<raccoglie (...) i fatti passati, in funzione dei suoi bisogni presenti. Solo in funzione della vita essa interroga la morte (...) Organizzare il passato in funzione del presente: tale si potrebbe definire la funzione sociale della storia>> (L. Febvre, Vers un autre histoire, Paris, 1949, trad. it. in Problemi di metodo storico, Einaudi, Torino, 1976, pag.168-87). E Walter Benjamin, nella 14a Tesi di filosofia della storia, scrive: <<La storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è il tempo omogeneo e vuoto, ma quello pieno di "tempo-ora">> (W. Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino, 1962, pag.80); e nella 15a Tesi : <<La coscienza di far saltare il continuum della storia è propria delle classi rivoluzionarie nell'attimo della loro azione>> (ivi). Appare chiaro, a questo punto, che la memoria di parte, la memoria intenzionale (e tendenziosa ) riconosce necessariamente - come suo "spazio" - un tempo-tendenza , qualitativo - e non puramente cronologico - quello perciò in cui si legittima il blochiano "a-che-scopo" dell'agire (cuore dello "spirito dell'utopia"), e dunque il soggetto nel suo progetto di liberazione. Ha scritto, appunto, Ernst Bloch: <<Il tempo cronologico è un progredire simmetricamente suddiviso in spazi eguali (...) Ma un progredire che si può esprimere in tal modo è assolutamente indifferente ai propri contenuti (...) se è vero che la ruota della storia, quanto meno alla lunga, non si può far girare all'indietro (...) con quella ruota si indica un tempo-tendenza e quindi qualcosa di qualitativo e non il tempo in sé neutro dell'orologio>> (E. Bloch, Sul progresso, Guerini e Associati, Milano, 1990, pagg. 44-45; corsivi nel testo).
[8] <<Ogni storia è contemporanea nella misura in cui il passato è colto nel presente e risponde dunque agli interessi di questo (...) Poiché la storia è durata, il passato è al tempo stesso passato e presente>> (J. Le Goff, Op. cit., pag.37).
[9] Scrive ancora Giachery nell'articolo citato (cfr. nota [6]): <<È assolutamente una falsità dire e commerorare . Quest'ultima, infatti, cioè la commemorazione non permette nessun recupero - se mai di recupero si possa parlare -, nessuna "verifica" dell'avvenimento>> (ibidem). Ma la memoria di parte vive ed opera solo distruggendo precisamente la commemorazione, il monumento funebre, il Pantheon, dentro cui - in cent'anni - il "Movimento Operaio", per riconciliarsi con l'oppressione e divenirne parte attiva, ha sepolto la storia dell'"assalto al cielo", politicamente identificato - nella povera "vulgata" di tante Sinistre di Stato (in Italia: PDS/PRC) - come "preistoria" e "infanzia" (di cui, beninteso, si serbano le "icone" per il "décor" - esemplare il busto bronzeo di Pietro Ferrero nel vestibolo della Camera del Lavoro di Torino - e/o che si lasciano alla "rodente critica dei topi", sotto forma di inoffensiva ricerca accademica, "filologicamente corretta"). Vale, semmai, per la memoria la metafora di Orfeo, che Kracaner connette al lavoro dello storico: <<Come Orfeo, lo storico deve scendere negli inferi per riportare in vista i morti (...) Egli li perde quando, riemergendo alla luce del presente, si volta indietro per paura di perderli. Ma non è proprio questo il momento in cui per la prima volta prende possesso di essi (...)? (S. Kracaner, Prima delle cose ultime, Marietti, Casale Monferrato, 1985, pagg.63-64). E vale l'avvertenza di Ernst Bloch al suo Thomas Münzer : <<...noi non guardiamo assolutamente indietro. Ma vivi noi stessi ci mescoliamo. Ed anche gli altri si volgono di nuovo trasformati, i morti tornano di nuovo, la loro azione vuole compiersi ancora una volta con noi (...) Münzer è anzitutto storia in senso fecondo, egli è ciò che è suo e tutto il passato che merita esser trascritto è qui per impegnarci...>> (E. Bloch, Thomas Münzer teologo della rivoluzione , Feltrinelli, Milano, 1980, pag.29). Quanto infine all'infanzia (e alle sue malattie), alla vecchiaia e alla memoria, giova ricordare - con Fortini (del 1955!) - che <<se è vero che l'estremismo è malattia infantile del comunismo, e anche vero che nessuna vecchiaia è peggiore di quella che ha perduto anche il ricordo, ed il rimorso, dell'infanzia e dell'adolescenza>> (F. Fortini, L'ospite ingrato, Marietti, Casale Monferrato, 1985, pag.19).
[10] J. Le Goff, op. cit., pag.398.
[11] Ivi, pag.399; corsivo mio.
[12] Ibidem, corsivo mio.
[13] <<In aula ingenti memoriae>> (Agostino, Confessioni, X)

* La Pinkerton era una nota agenzia privata di investigazioni i cui agenti spesso venivano infiltrati nelle fabbriche per scoprire i "rossi" e i sindacalisti.

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