Se il no-profit s'approfit

Se il no-profit s'approfit

di Diego Giachetti

Economia sociale, terzo settore, no-profit sono termini ricorrenti nel dibattito politico e culturale in corso dentro e fuori la sinistra governativa, quella in procinto di diventarlo e quella antagonista. Per terzo settore si intende un insieme di associazioni, cooperative operanti prevalentemente nei settori dell'assistenza, della sanità, dell'educazione, della cultura e della cooperazione internazionale, che non hanno fini di lucro in quanto i loro statuti non prevedono la distribuzione degli utili agli associati, ma il loro completo reinvestimento. Settori legati all'assistenza volontaria, alla beneficenza, al lavoro come dono, come servizio servile e gratuito, sono sempre esistiti e le loro tracce risalgono indietro nei secoli. Si pensi alle attività della Chiesa o al lavoro da sempre svolto dalle donne nel garantire la riproduzione sociale e l'assistenza ai vecchi, malati e bambini. Si trattava di venire incontro ad una serie di bisogni e di esigenze che non erano riconosciuti come dei diritti, ecco perché li si demandava al volontariato, alla solidarietà della comunità. Nel corso del Novecento sindacati e partiti operai hanno condotto una lunga lotta per affermare il principio della rilevanza pubblica della tutela della salute, del sostegno degli anziani, dell'assistenza ai malati ai bambini ecc., un diritto acquisito da tutti e non più riservato alla beneficenza più o meno laica di istituzioni oggi dette no-profit.
Ancora oggi, ce lo ricordano con orgoglio quelli del Forum permanente del terzo settore, "se lo Stato dovesse pagare per le ore di lavoro volontario prestate gratuitamente, ogni anno, da cittadini e cittadine, dovrebbe sborsare circa 1.300 miliardi l'anno" (Manifesto, 9 marzo 1996). A questo punto però è necessario introdurre una distinzione tra volontariato e associazionismo ambientale o culturale in genere e cooperazione sociale. Il primo si fonda principalmente su lavoro volontario, non retribuito, fornito da persone che hanno una fonte di reddito autonoma derivante da un'attività svolta nel settore cosiddetto mercantile e statale e che donano parte del loro tempo ad un'altra attività. La cooperazione sociale invece risponde ad un'esigenza di inserimento nel mondo del lavoro (lavoro retribuito quindi) di soggetti svantaggiati e discriminati dall'economia formale (ex detenuti, ex tossicodipendenti), di giovani in cerca di prima occupazione, di lavoratori che hanno perso il posto di lavoro.
Quest'ultimo è il settore no-profit al quale si guarda con interesse da parte di tanti che lo vedono come l'enuclearsi di forme alternative di produzione, rispetto ai rapporti che caratterizzano l'economia di mercato, "veri e propri spazi sociali liberati, reti comunitarie emancipate dall'impersonalità e dall'istantaneità dei rapporti negoziali, riaffermando il primato del sociale sull'economico. Della reciprocità sull'utilità individuale" (Marco Revelli, Le due destre, p.219). Paradossalmente, gli stessi autori che tanto insistono sul concetto di globalizzazione e mondializzazione del mercato, per cui nulla sembra più sfuggire alla sete divorante del profitto e alla lotta tra gruppi monopolistici che ne consegue, sono disposti a credere che esista la possibilità di sottrarre spazi economici ai rapporti di produzione capitalistici, evocando, come fa Rifkin, la possibilità di costituire in questa sistema pezzi di mondo più armonioso e giusto, libero dal dominio della merce, alternativo "all'ethos utilitaristico del mercato" (La fine del lavoro, p. 390). Si nega in questo modo uno degli aspetti principali della forma produttiva capitalistica, e cioè il carattere totalitario del dominio del capitale, che investe non solo la produzione, ma la distribuzione, il consumo e la cultura.
L'emergere del fenomeno detto no-profit è il risultato della combinazione di due eventi che Alberto Burgio ha messo bene in evidenza sul numero 4 di "Altraeuropa". La crisi dello stato sociale e la relativa riduzione dei servizi crea una domanda aggiuntiva nella quale si inserisce l'offerta di servizi del terzo settore il quale può avvalersi della presenza, sul mercato del lavoro, di forza lavoro precaria, risultato della disoccupazione giovanile o dell'espulsione di manodopera da altri settori. Ci riferiamo a tutte quelle nuove figure di lavoro flessibile, eterodiretto, interinale di cui le cooperative possono avvalersi con più facilità che non l'istituzione pubblica e le grandi aziende, ancora soggette a regole che garantiscono troppi diritti ai lavoratori assunti. Si realizzano in questo modo una serie di vantaggi nell'uso del lavoro non ancora possibili nei settori cosiddetti mercantili classici e in quelli statali: la riduzione dell'orario di lavoro e di stipendio, la flessibilità nell'uso della manodopera (si lavora solo quando il lavoro c'è, quando si viene chiamati); si sostituiscono i lavoratori con altri che accettano condizioni retributive più basse. Sovente, lungi dall'essere libere scelte del lavoratore, si tratta dell'unica opportunità di lavoro che egli trova.
"La nuova giornata lavorativa, capace di realizzare una sostanziale riduzione dell'orario di lavoro in forma articolata, modulare, flessibile, capace di aderire all'articolazione del nuovo ciclo di valorizzazione del capitale", prospettata da Marco Revelli sul Manifesto del 28 aprile 1996, è già, per molti lavoratori una realtà. Ecco perché il terzo settore suscita tanto interesse sul Sole 24 ore e la stessa Fondazione Agnelli vi ha dedicato un convegno. In questo modo problemi come il disagio sociale, l'assistenza agli anziani, che rappresentano dispendiose spese per la finanza pubblica, vengono appaltate ai privati, alle cooperative le quali avvalendosi del lavoro precario e mal retribuito o di quello decisamente volontario offrono servizi a costi minori di quelli garantiti dallo stato sociale.
Che non tutti donino le loro prestazioni col massimo della soddisfazione è dimostrato dalla manifestazione, indetta dalle Rappresentanze di Base nell'aprile di quest'anno, che ha coinvolto i lavoratori dei servizi socio-assistenziali gestiti dalla cooperative bolognesi. Due cartelli, impugnati dai dimostranti, già erano esemplificativi di una condizione di disagio: "i licenziamenti aumentano e i lavoratori tagliati si sostituiscono con i volontari", "sul no profit qualcuno s'approfit". Denunciavano anche come il continuo ribasso degli appalti abbassasse gli standard dei servizi offerti e quindi dell'assistenza al pubblico, nonché i diritti dei lavoratori. Tra le richieste figuravano: norme più chiare sulle gare d'appalto, abolizione del salario medio convenzionale, che dimezza i contributi previdenziali a parità di lavoro, applicazione delle norme previste dalla 626 a tutela di salute e sicurezza, rinnovo del contratto scaduto da un anno.
Le condizioni di lavoro dei lavoratori impiegati nel no-profit sono un elemento poco indagato, quasi sconosciuto, rispetto al gran parlare che si fa su altri aspetti del terzo settore. Capita che quelli che ragionano sul terzo settore, oltre a sapere poco o nulla di come gli addetti vivono il rapporto di lavoro, presuppongano che lo forniscano con la gioia di chi dona, di chi regala qualcosa, sapendo di fare del bene e quindi con superiore disinteresse per il vil denaro col quale si pagano le prestazioni.



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