Homepage / Indice / Argomenti / Normativa /

Decreto del Presidente della Repubblica 3 maggio 2001

"Piano nazionale degli interventi e dei servizi sociali 2001-2003".

(Pubblicato nel Supplemento Ordinario alla Gazzetta Ufficiale 6 agosto 2001, n. 181)

IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

Visto l'art. 1 della legge 12 gennaio 1991, n. 13;
Visto l'art. 2, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400;
Visto il decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 303;
Visto il decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300;
Vista la legge 8 novembre 2000, n. 328, recante legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali, ed in particolare l'art. 18 della legge medesima che prevede l'adozione del Piano nazionale e dei piani regionali degli interventi e dei servizi sociali;
Vista la deliberazione preliminare del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione del 16 febbraio 2001;
Acquisita l'intesa con la Conferenza Unificata di cui all'art. 8 del decreto legislativo del 28 agosto 1997, n. 281, nella riunione del 22 febbraio 2001;
Acquisiti i pareri degli enti e delle associazioni nazionali di promozione sociale di cui all'art. 1, comma 1, lettere u) e b), della legge 19 novembre 1987, n. 476, e successive modificazioni, maggiormente rappresentativi;
Acquisiti i pareri delle associazioni di rilievo nazionale che operano nel settore dei servizi sociali;
Acquisiti i pareri delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale e delle associazioni di tutela degli utenti;
Acquisito il parere della competente Commissione della Camera dei deputati espresso nella seduta del 28 marzo 2001, mentre la competente Commissione del Senato della Repubblica non si è espressa nei termini prescritti;
Vista la deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione dell' 11 aprile 2001;
Sulla proposta del Ministro per la solidarietà sociale;

DECRETA:

È approvato il Piano nazionale degli interventi e dei servizi sociali per il biennio 2001-2003.

Allegato A
Piano nazionale degli interventi e dei servizi sociali 2001-2003
libertà, responsabilità e solidarietà nell'Italia delle autonomie

Premessa

Il primo Piano nazionale degli interventi e dei servizi sociali 2001-2003 viene predisposto in tempi assai più ristretti rispetto a quelli previsti dalla legge n. 328/2000 (art. 18, comma 4), in risposta all'esigenza dell'intero sistema di definire tempestivamente obiettivi strategici e indirizzi generali, indispensabili affinché tutti i soggetti chiamati a concorrere alla programmazione e alla realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali possano impegnarsi nell'attuazione della legge quadro sull'assistenza. Il rispetto delle scadenze previste dalla legge n. 328/2000, ma anche il diffuso slancio riformatore proprio di questo particolare momento storico, impongono - da un lato - e consentono - dall'altro - la prosecuzione del percorso intrapreso, attraverso la predisposizione dei documenti di maggiore rilevanza previsti dalla legge quadro.

La scelta a favore della tempestività impone una metodologia e uno stile programmatorio essenziale e selettivo, che rinuncia (in parte) alle analisi e alle argomentazioni per concentrarsi sugli orientamenti e gli indirizzi di carattere generale. D'altro canto, il pluralismo istituzionale e sociale e il principio di sussidiarietà, sanciti dalla legge quadro, richiedono che il Piano assuma la logica e le metodologie proprie della programmazione strategica e partecipata, di seguito declinate nei termini che i ricordati vincoli temporali consentono.

Il sistema integrato di interventi e servizi sociali non può che realizzarsi con il concorso di una pluralità di attori, istituzionali e non, pubblici e privati, rispetto ai quali sono distribuiti ruoli e responsabilità, competenze e risorse. In tale contesto, il Piano nazionale ha la funzione principale di orientare e mobilitare i diversi soggetti affinché ciascuno «faccia la propria parte» e affinché nel loro insieme si integrino, attivando una rete progettuale (prima) e gestionale (poi).

La programmazione sociale va infatti intesa come processo a più attori, collocati a più livelli, che apportano competenze, ideazioni e risorse ad una progettazione che esigenze tanto ideali quanto di efficacia vogliono partecipata. La ricerca e costruzione in itinere del consenso a tutti i livelli e fra tutti i soggetti è infatti la più forte assicurazione perché il Piano non rimanga un messaggio scritto, ma si traduca, pur gradualmente, in cambiamento effettivo della realtà, grazie all'azione convergente delle politiche e degli interventi sociali.

Il primo Piano sociale, a partire dal richiamo degli elementi fondanti le nuove politiche sociali (parte I), intende evidenziare gli obiettivi prioritari (parte II) ed elaborare indicazioni per lo sviluppo del sistema integrato degli interventi e dei servizi sociali (parte III), in un orizzonte temporale che, proprio per le caratteristiche di orientamento e di promozione che il Piano assume, si estende (anche) oltre il triennio 2001-2003. Il Piano delinea inoltre le modalità e gli strumenti per il suo monitoraggio e per la verifica dei processi in atto e dei risultati via via conseguiti, al fine di permettere agli organi di governo (ai diversi livelli) di effettuare le necessarie valutazioni e di introdurre, se del caso, gli opportuni correttivi.

Attraverso questi passaggi il Piano si sforza di indicare tanto le linee e gli elementi unificanti le diverse esperienze regionali e locali, quanto gli spazi di possibile loro articolazione, differenziazione e sperimentazione nelle modalità organizzative e operative adeguate ai diversi contesti locali.

Parte I - Le radici delle nuove politiche sodali

La realizzazione del sistema integrato di cui alla legge n. 328/2000 richiede l'avvio di un profondo cambiamento culturale nella società intera.

La legge n. 328/2000 propone un sistema in cui:
- il cittadino non è solo utente,
- le famiglie non sono solo portatrici di bisogni,
- la rete non si rivolge solo agli ultimi (o ai penultimi),
- l'assistenza non è solo sostegno economico,
- l'approccio non è solo riparatorio,
- il disagio non è solo economico,
- il sapere non è solo professionale,
- gli interventi sociali non sono opzionali.

Al contrario, il sistema integrato di interventi e servizi sociali deve essere progettato e realizzato a livello locale:
- promuovendo la partecipazione attiva di tutte le persone,
- incoraggiando le esperienze aggregative,
- assicurando livelli essenziali in tutte le realtà territoriali,
- potenziando i servizi alla persona,
- favorendo la diversificazione e la personalizzazione degli interventi,
- valorizzando le esperienze e le risorse esistenti,
- valorizzando le professioni sociali,
- valorizzando il sapere quotidiano,
- promuovendo la progettualità verso le famiglie,
- prevedendo un sistema allargato di governo, più vicino alle persone.

In altri termini, il sistema integrato di interventi e servizi sociali si sviluppa lungo una direttrice di riforma che può essere così delineata:
- da interventi categoriali a interventi rivolti alla persona e alle famiglie,
- da interventi prevalentemente monetari a un insieme (integrato) di trasferimenti monetari e servizi in rete,
- da interventi disomogenei a livello inter e intra regionale, a livelli essenziali su tutto il territorio nazionale,
- da prestazioni rigide, predefinite a prestazioni flessibili e diversificate, basate su progetti personalizzati,
- dal riconoscimento del bisogno di aiuto all'affermazione del diritto all'inserimento sociale,
- da politiche per contrastare l'esclusione sociale a politiche per promuovere l'inclusione sociale.

La legge quadro sul sistema integrato di interventi e servizi sociali definisce le politiche sociali come politiche universalistiche, rivolte alla generalità degli individui, senza alcun vincolo di appartenenza.

Esse mirano ad accompagnare gli individui e le famiglie lungo l'intero percorso della vita, in particolare a sostenere le fragilità, rispondendo ai bisogni che sorgono nel corso della vita quotidiana e nei diversi momenti dell'esistenza (in relazione all'età, alla presenza di responsabilità familiari o all'esigenza di conciliare queste ultime con quelle lavorative), sostenendo e promuovendo le capacità individuali e le reti familiari. Più in generale, il sistema mira a costruire comunità locali amichevoli, favorendo, dal lato dell'offerta, gli interventi e i modelli organizzativi che promuovono e incoraggiano la libertà, e, dal lato della domanda, la cittadinanza attiva e le iniziative di auto e mutuo aiuto.

Le politiche sociali perseguono obiettivi di ben-essere sociale. Lo strumento attraverso il quale tali obiettivi sono realizzati è il Sistema integrato di interventi e servizi. La promozione delle possibilità di sviluppo della persona umana, e non l'erogazione di prestazioni e servizi, è l'obiettivo ultimo degli interventi che gli Enti locali, le Regioni e lo Stato programmano e realizzano in coerenza con quanto disposto dalla legge n. 328/2000.

Le politiche sociali tutelano il diritto a stare bene, a sviluppare e conservare le proprie capacità fisiche, a svolgere una soddisfacente vita di relazione, a riconoscere e coltivare le risorse personali, a essere membri attivi della società, ad affrontare positivamente le responsabilità quotidiane. Il diritto a stare bene è il fondamento del diritto alle prestazioni e ai servizi sociali, i quali devono essere offerti ai livelli, secondo gli standard e con le modalità definite dalla normativa di riferimento.

Il sistema integrato di interventi e servizi sociali promuove la solidarietà sociale attraverso la valorizzazione delle iniziative delle persone, delle famiglie, delle forme di auto-aiuto e di reciprocità, nonché della solidarietà organizzata.

In coerenza con la legge n. 328/2000, il Piano Nazionale Sociale 2001-2003 promuove lo sviluppo del Welfare delle responsabilità, ovvero di un Welfare che può essere definito plurale, perché costruito e sorretto da responsabilità condivise, in una logica di sistema allargato di governo, che valorizzi il federalismo solidale in cui:
- tutti livelli di governo, Comuni, Province, Regioni e Stato, ognuno nell'àmbito delle proprie competenze, concorrono a formulare, realizzare e valutare le politiche sociali,
- le organizzazioni sindacali e le associazioni sociali e di tutela degli utenti partecipano a formulare gli obiettivi di ben-essere sociale e a valutarne il raggiungimento,
- le comunità locali, le famiglie, le persone sono soggetti attivi delle politiche sociali e, in quanto tali, svolgono un ruolo da protagonista nella progettazione e nella realizzazione del sistema,
- l'aggregazione e l'autorganizzazione degli utenti, delle famiglie, delle persone è fattore di arricchimento della rete dei servizi,
- le Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza che operano in campo socioassistenziale partecipano alla programmazione regionale del sistema,
- le Onlus, la cooperazione, il volontariato, le associazioni e gli enti di promozione sociale, le fondazioni, gli enti di patronato e gli enti riconosciuti delle confessioni religiose con le quali lo Stato ha stipulato accordi, concorrono alla programmazione, all'organizzazione e alla gestione del sistema integrato,
- le Onlus, la cooperazione, il volontariato, le associazioni e gli enti di promozione sociale, le fondazioni, gli enti di patronato e gli altri soggetti privati provvedono, insieme ai soggetti pubblici, all'offerta e alla gestione dei servizi.

Al Comune, ente territoriale più vicino alle persone, è affidata la «regia» delle azioni dei diversi attori, in un'ottica di condivisione degli obiettivi e di verifica dei risultati.

Il diritto ad usufruire degli interventi e dei servizi del sistema integrato è riconosciuto a tutti i cittadini italiani e, nel rispetto degli accordi internazionali e con le modalità e i limiti definiti dalle leggi vigenti, ai cittadini dell'Unione Europea ed ai loro familiari, nonché ai cittadini non comunitari con regolare permesso di soggiorno.

Il sistema integrato di interventi e di servizi sociali ha come primi destinatari, in un'ottica insieme di prevenzione e di sostegno, i soggetti portatori di bisogni gravi. Nella prospettiva universalistica e inclusiva della cittadinanza, il sistema quindi dà priorità (art. 2, comma 3):
- ai soggetti in condizione di povertà o con limitato reddito,
- ai soggetti con forte riduzione delle capacità personali per inabilità di ordine fisico e psichico,
- ai soggetti con difficoltà di inserimento nella vita sociale attiva e nel mercato del lavoro,
- ai soggetti sottoposti a provvedimenti dell'autorità giudiziaria che rendono necessari interventi assistenziali,
- ai minori, specie se in condizione di disagio familiare.

Il criterio di accesso al sistema integrato di interventi e servizi sociali è il bisogno. La diversificazione dei diritti e delle modalità di accesso ad un determinato intervento è basata esclusivamente sulla diversità dei bisogni.

Affinché le politiche sociali siano veramente universalistiche, è necessario che le persone e le famiglie con situazioni di bisogno più acuto o in condizioni di maggiore fragilità siano messe in grado di poter accedere ai servizi rivolti a tutti, oltre che eventualmente a misure e servizi specificamente dedicati. A questo scopo non basta definire graduatorie di priorità che potrebbero, da sole, avere persino un effetto di segregazione sociale. Occorre soprattutto sviluppare azioni positive miranti a facilitare e incoraggiare l'accesso ai servizi e alle misure disponibili. Tali azioni dovranno riguardare la messa a punto di strumenti di informazione adeguati, di modalità di lavoro sociale (al contempo attive e rispettose della dignità e delle competenze dei soggetti), di misure di accompagnamento che compensino le situazioni di fragilità e valorizzino le capacità delle persone e delle loro reti sociali e familiari.

Le Regioni e gli Enti locali sviluppano specifiche azioni affinché coloro che hanno più bisogno e perciò più titolo ad accedere al sistema integrato non vengano esclusi o, comunque, non siano ostacolati da barriere informative, culturali o fisiche nell'accesso ai servizi e agli interventi specificamente loro dedicati e a quelli universalistici. Particolare attenzione sarà riservata agli interventi a favore dei soggetti che risiedono nelle zone svantaggiate, nelle aree rurali e nei piccoli centri.

Le persone e le famiglie possono essere chiamate a concorrere al costo dei servizi universali in base alla loro condizione economica, per salvaguardare il criterio dell'equità.

L'attuazione di un sistema di servizi a rete presuppone una complessa interazione tra tutti i soggetti coinvolti, pubblici e privati. L'art. 1, comma 3 della legge n. 328/2000 attribuisce chiaramente la primaria responsabilità della programmazione e dell'organizzazione del sistema integrato all'articolazione enti locali - regioni - Stato; i commi successivi dello stesso articolo provvedono a riconoscere i vari soggetti privati che forniscono servizi e che possono assumere un ruolo attivo nella progettazione e nella realizzazione degli interventi.

Il principio di sussidiarietà trova quindi attuazione in senso sia verticale sia orizzontale.

In primo luogo, risulta confermata la scelta che privilegia i comuni quali titolari delle funzioni relative ai servizi sociali offerti a livello locale (scelta già presente nel D.Lgs. n. 616/1977 e nel D.Lgs. n. 112/1998), con alcune specificazioni connesse al concetto di rete. In riferimento ai comuni, si passa dai compiti di erogazione di servizi alla attribuzione della titolarità delle funzioni (comprendenti la programmazione e la realizzazione in àmbito locale; l'erogazione di servizi e prestazioni economiche; le attività di autorizzazione, accreditamento e vigilanza delle strutture erogatrici; la definizione dei parametri per l'individuazione delle persone destinatarie con priorità degli interventi). Assume anche particolare rilievo la prevista partecipazione dei comuni al procedimento regionale per l'individuazione degli ambiti territoriali del sistema locale della rete di servizi. La natura delle funzioni attribuite ai comuni è ulteriormente connotata dall'elenco, non esaustivo, previsto dall'art. 6 della legge quadro.

Le province concorrono alla programmazione del sistema integrato secondo quanto previsto dalla normativa e con le modalità definite dalle regioni.

Alle regioni sono attribuiti compiti di programmazione, coordinamento e indirizzo degli interventi sociali, nonché di verifica dell'attuazione del sistema integrato nell'àmbito territoriale di competenza. Le funzioni sono specificate all'art. 8, comma 3 della legge n. 328/2000, che contiene un elenco di compiti da attuarsi «nel rispetto di quanto previsto» dal D.Lgs. n. 112 del 1998. Essi riguardano, fra l'altro, la determinazione dei distretti (con il coinvolgimento degli enti locali interessati), la definizione di politiche integrate con gli altri settori di intervento, la promozione di modelli sperimentali e innovativi, lo sviluppo di strumenti di valutazione. Spetta, inoltre, alle regioni l'indicazione di una serie di criteri concernenti la determinazione del concorso da parte degli utenti al costo delle prestazioni, la definizione delle tariffe che i comuni sono tenuti a corrispondere ai soggetti accreditati e la concessione di buoni-servizio che consentano l'erogazione di prestazioni. Infine, l'accentuazione della responsabilità politica e amministrativa delle regioni nell'implementazione del sistema è alla base della previsione dei poteri sostitutivi ad esse conferiti.

Le residue funzioni statali riprendono formulazioni presenti, in primo luogo, nel D.Lgs. n. 112 del 1998 e in altre leggi in materia di servizi sociali, che limitano le competenze statali a quelle strettamente connesse ai compiti di indirizzo, coordinamento, mediante l'indicazione di standard, e di ripartizione delle risorse. l compiti indicati alle lettere a), b), c) e d) dell'art. 9, comma 1, riguardano l'indicazione dei princìpi e degli obiettivi delle politiche sociali, mediante l'adozione del Piano nazionale degli interventi e servizi sociali che costituisce il fondamentale atto di programmazione in materia; l'individuazione dei livelli essenziali ed uniformi delle prestazioni, dei requisiti minimi strutturali e organizzativi per l'autorizzazione all'esercizio dei servizi nonché dei requisiti e dei profili per le professioni sociali.

Secondo il principio della «sussidiarietà verticale», fra le Istituzioni pubbliche, «l'esercizio delle responsabilità pubbliche deve, in linea di massima, incombere di preferenza sulle autorità più vicine ai cittadini» (articolo 4 della Carta Europea).

Secondo il principio della «sussidiarietà orizzontale» fra Istituzioni pubbliche e società civile (intesa, quest'ultima, come l'insieme dei soggetti individuali e collettivi che la compongono e rispetto ai quali l'ordinamento giuridico esprime una valutazione positiva di valore), per renderne compatibile l'applicazione con l'adeguatezza del livello di risposta ai bisogni, è necessario che l'Ente Locale titolare delle funzioni sociali svolga pienamente le funzioni di lettura dei bisogni, di pianificazione e programmazione dei servizi e degli interventi, di definizione dei livelli di esigibilità, di valutazione della qualità e dei risultati. In alcun modo la «sussidiarietà orizzontale» può essere intesa quale semplice supplenza delle istituzioni pubbliche alle carenze della società civile, ma quale strumento di promozione, coordinamento e sostegno che permette alle formazioni sociali (famiglie, associazioni, volontariato, organizzazioni non profit in genere, aziende, ecc.) di esprimere al meglio, e con la piena garanzia di libertà di iniziativa, le diverse e specifiche potenzialità. Resta in capo alle istituzioni il ruolo fondamentale di garanzia della risposta (esistenza, qualità, accessibilità).

Nei casi in cui l'intervento sociale provenga dalla comunità, esso è alternativo ai servizi sociali forniti dall'Ente pubblico, soddisfacendo direttamente il bisogno. In un quadro solidaristico che preservi le fondamentali funzioni dello stato sociale, la corretta applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale deve conservare e rafforzare il ruolo delle Istituzioni pubbliche in due direzioni:

a) sostegno costante alle risorse della società civile e ai legami solidaristici,

b) sorveglianza sul sistema di offerta complessivo, garanzie di imparzialità e completezza della rete degli interventi e dei servizi presenti nel territorio.

La sussidiarietà deve essere realizzata attraverso la concertazione a tutti i livelli istituzionali (a partire dalle Regioni e dagli Enti locali) con le organizzazioni sindacali che hanno il compito di formulare gli obiettivi di benessere sociale di concorrere alla programmazione degli interventi e di verificarne il raggiungimento, valorizzando il ruolo del volontariato del terzo settore nella coprogettazione e nella realizzazione dei servizi. La concertazione a tutti i livelli istituzionali è altresì volta a valorizzare tutti gli attori istituzionali (Ipab) e gli attori sociali (volontariato, terzo settore) nella progettazione e realizzazione del sistema integrato.

Il Piano nazionale sociale 2001-2003 si propone di valorizzare il lavoro svolto dal Dipartimento per gli Affari Sociali, in accordo con i referenti regionali e con i ministeri di riferimento, nell'àmbito della Programmazione dei Fondi strutturali 2000-2006, nella individuazione delle misure di intervento dei Quadri comunitari di sostegno nazionali e dei complementi di programmazione dei Fondi europei (obiettivi 1 e 3), nonché attraverso la predisposizione di un piano specifico di assistenza tecnica alle regioni e agli enti locali delle regioni del centro nord e del mezzogiorno.

L'assistenza tecnica del Dipartimento per gli Affari Sociali si propone quale strumento di integrazione e raccordo tra il quadro comunitario di sostegno dei fondi strutturali 2000-2006 e l'attuazione della legge quadro sull'assistenza.

Parte II - Obiettivi di priorità sociale

Premessa

Il Piano Nazionale Sociale 2001-2003 ha come obiettivo la promozione del ben-essere sociale della popolazione.

La realizzazione di un sistema integrato di interventi e servizi sociali è lo strumento attraverso il quale le politiche sociali perseguono gli obiettivi di benessere sociale.

Il primo Piano Nazionale Sociale individua i seguenti obiettivi prioritari:

1. valorizzare e sostenere le responsabilità familiari,

2. rafforzare i diritti dei minori,

3. potenziare gli interventi a contrasto della povertà,

4. sostenere con servizi domiciliari le persone non autosufficienti (in particolare le persone anziane e le disabilità gravi).

Oltre a tali quattro obiettivi, il Piano indica un quinto obiettivo riferito a una serie di interventi che per la loro rilevanza, e in coerenza con quanto previsto dalla normativa di settore, meritano specifico rilievo: l'inserimento degli immigrati, la prevenzione delle droghe, l'attenzione agli adolescenti.

Gli obiettivi non esauriscono, nel complesso, i bisogni di ben-essere sociale della popolazione. Altri bisogni, non espressamente considerati nel Piano, potranno essere assunti dagli enti locali e dalle Regioni sulla base di specifiche scelte di priorità sociale, tenuto conto dei bisogni della popolazione di riferimento.

Le Regioni, entro 120 giorni dalla entrata in vigore del Piano nazionale degli interventi e dei servizi sociali, adottano i Piani Regionali ai sensi dell'articolo 18, comma 6 della legge n. 328/2000 e secondo le modalità previste nell'articolo 3 della legge n. 328/2000.

Obiettivo 1

Valorizzare e sostenere le responsabilità familiari

Con l'obiettivo 1 il Piano Nazionale Sociale 2001-2003 si propone di:
- promuovere e sostenere la libera assunzione di responsabilità,
- sostenere e valorizzare le capacità genitoriali,
- sostenere le pari opportunità e la condivisione delle responsabilità tra uomini e donne,
- promuovere una visione positiva della persona anziana.

1.1 - Promuovere e sostenere la libera assunzione di responsabilità

La libera assunzione di responsabilità da parte degli individui nei confronti dei più piccoli, dei più anziani, dei non autosufficienti è non solo eticamente, ma anche socialmente, un fatto positivo. Le politiche nazionali e locali devono agevolare tali atti di libertà, correggendo o eliminando tutti quei fattori che li rendono troppo gravosi o inconciliabili con altre esigenze (in particolare, anche se non esclusivamente, con quelle delle donne con carichi familiari).

Le politiche sociali devono sostenere attivamente le scelte relative all'avere uno o più figli e quelle relative all'assunzione di responsabilità verso persone parzialmente autosufficienti nella propria rete familiare.

In tutti questi campi esistono forti diversificazioni nelle politiche locali che potrebbero utilmente essere messe a confronto anche per avviare processi di apprendimento reciproco e di verifica delle «buone pratiche», pur nella consapevolezza delle specificità locali.

Da questa diversità dei punti di partenza deriva anche la necessità di definire obiettivi di breve periodo diversificati per regione. Essi andranno chiaramente identificati nei piani regionali, sia in termini di copertura (percentuali di soggetti il cui bisogno si mira a soddisfare nell'arco del triennio, tasso di variazione rispetto alla situazione di partenza), sia in termini di strumenti da attivare (tipi di servizi e interventi).

1.2 - Sostenere e valorizzare le capacità genitoriali

Il peso delle responsabilità genitoriali e, soprattutto, le difficoltà a conciliare lavoro e famiglia condizionano in modo significativo sia le scelte della coppia circa l'avere uno o più figli, sia la partecipazione delle donne al mercato del lavoro.

Alcuni comuni hanno iniziato a fornire un sostegno economico vuoi per coprire le spese implicate dalla nascita di un figlio, vuoi per consentire ai genitori, specie a reddito medio-basso, di poter fruire effettivamente del congedo opzionale in presenza di figli piccoli. Si tratta di misure importanti, ma che non possono essere considerate alternative all'offerta di servizi di cura ed educazione di qualità e a prezzo contenuto. Tali servizi, infatti, da un lato consentono con maggior agio ad entrambi i genitori, e soprattutto all'eventuale unico genitore presente, di avere un lavoro remunerato (ovvero di assicurare nel tempo la sicurezza economica a se e ai propri figli); dall'altro costituiscono una risorsa aggiuntiva per i bambini e per i loro genitori: come spazi di socializzazione, di esposizione a esperienze e stimoli diversificati, di confronto e arricchimento personale. Possono inoltre costituire importanti strumenti di prevenzione e ascolto del disagio.

Per quanto riguarda la presenza, nei comuni, di asili nido e di servizi per minori in età prescolare e scolare, l'indagine Istat del 1997 rivela una situazione particolarmente grave. Nei piccoli comuni (meno di 5.000 abitanti), l'asilo nido è ancora molto raro (solo il 10% dei comuni del nord dispone di un asilo nido, 9% al centro e 1,9% al sud). Nei comuni medi la situazione è estremamente diversificata (si va dal 71,5% del nord al 28% del sud), mentre nei comuni più grandi il divario tra nord e sud è minore, ma ancora considerevole (92,7% al nord contro 64,8% al sud).

In tale contesto, è fondamentale il ricorso alla rete di aiuti informali, oltre che dei servizi a pagamento. Le famiglie con bimbi sono quelle che ricorrono più frequentemente agli aiuti informali, in particolare dei nonni; le famiglie con bimbi in cui la donna lavora sono quelle che ricorrono più frequentemente sia ai servizi privati sia alla rete informale (si veda in proposito l'Allegato statistico). Ciò può produrre sia elementi di costrizione e sovraccarico sulle famiglie e le loro reti informali, sia forti disuguaglianze tra famiglie e anche tra bambini a seconda della possibilità di ricorrere ad aiuti informali o a pagamento.

Alla luce della situazione descritta, peraltro in maniera ancora parziale, dalle statistiche sulle responsabilità e i carichi di lavoro delle famiglie con figli, le politiche sociali devono proporsi almeno i seguenti obiettivi di carattere generale:

a) riconoscere il costo economico legato alla presenza di uno o più figli;

b) facilitare la conciliazione delle responsabilità genitoriali con la partecipazione al lavoro remunerato delle madri e dei padri, in un'ottica di pari opportunità e di prevenzione dalla vulnerabilità economica;

c) sostenere, valorizzare e integrare le capacità genitoriali, fornendo strumenti per affrontare le normali fasi di cambiamento e i momenti di crisi, in un'ottica di prevenzione.

Tali obiettivi coinvolgono, in primo luogo, le politiche nazionali, in particolare quelle fiscali e di regolazione dei rapporti di lavoro e, in secondo luogo, le politiche locali, in particolare (ma non esclusivamente) per quanto riguarda l'offerta di servizi e l'armonizzazione dei tempi delle città.

Con riguardo agli obiettivi di sostegno e potenziamento della libera assunzione di responsabilità familiari e genitoriali, e in stretto collegamento con le azioni previste per l'obiettivo 2, i piani di zona dovranno prevedere misure e servizi in ognuno dei seguenti campi:
a) interventi a sostegno della conciliazione tra responsabilità familiare e partecipazione al mercato del lavoro, in particolare per le madri (ad esempio, servizi scolastici integrati, incentivi e cooperazione con le imprese per l'adozione di orari amichevoli), anche in collegamento con la legge 8 marzo 2000;
b) servizi di cura per i bambini, sviluppando le opportunità e la logica della legge n. 285/1997;
c) agevolazioni e misure di sostegno economico a favore delle famiglie con figli (ad esempio, nelle politiche tariffarie o abitative);
d) forme di agevolazione e sostegno delle famiglie con figli minori che presentano particolari carichi di cura (ad esempio, famiglie con un solo genitore o con un minore con handicap grave);
e) strumenti di incentivazione dell'affidamento familiare nei confronti di minori in situazione di forte disagio familiare e per i quali è impossibile, anche solo temporaneamente, rimanere presso la propria famiglia;
f) misure di sostegno alle responsabilità genitoriali (ad esempio, centri per le famiglie e consultori pedagogici, entrambi aperti anche ai gruppi di auto e mutuo aiuto).

All'interno delle politiche di sostegno alle responsabilità familiari, specifica attenzione deve essere dedicata alle famiglie che, di fronte alle responsabilità genitoriali, si trovano in condizioni di particolare difficoltà; ciò attraverso sia lo sviluppo di servizi (anche domiciliari) che sostengano le competenze genitoriali sia (quando queste misure non sono sufficienti a garantire la sicurezza e lo sviluppo dei minori) il ricorso temporaneo all'affido.

I piani di zona devono indicare gli obiettivi di breve e medio periodo, e gli strumenti adottati per la realizzazione degli obiettivi.

1.3 - Sostenere le pari opportunità e la condivisione delle responsabilità tra uomini e donne

La responsabilità di una famiglia comporta un rilevante carico di lavoro sulla donna: il 48% delle donne occupate lavora più di 60 ore a settimana, tra lavoro domestico e extradomestico (contro il 20% degli occupati). Il carico di lavoro è maggiore per le donne lavoratrici con bimbi piccoli. Fra le 637 mila coppie con bimbi piccoli (da 0 a 2 anni) in cui la donna lavora, ben il 64% delle donne lavora più di 60 ore a settimana. E fra quelle in cui il bimbo più piccolo ha tra i 3 e i 13 anni e la madre lavora (oltre 1 milione di famiglie), il 58% delle donne lavora più di 60 ore a settimana (Allegato statistico).

Le responsabilità familiari sono la principale causa di abbandono dell'attività lavorativa da parte delle donne: tra quelle con due figli, una su cinque ha abbandonato il lavoro in occasione della nascita di un bimbo, addirittura una su quattro se in età compresa tra 25 e 34 anni (Allegato statistico). Inoltre, nonostante la normativa a tutela della maternità, una percentuale significativa di donne interrompe il rapporto di lavoro nel periodo di maternità protetta (circa il 10% in media e oltre il 15% in alcune regioni come il Veneto, la Lombardia, il Trentino Alto Adige) (si veda l'Allegato statistico).

Nel rispetto delle libertà di scelta individuale, e nella consapevolezza che esistono diversi modelli culturali e valoriali di famiglia, il Piano nazionale Sociale 2001-2003 propone che le Regioni e gli enti locali nel progettare il sistema integrato di interventi e servizi affrontino esplicitamente (anche tramite l'ampliamento dell'offerta dei servizi di cura, la piena attuazione della legge 8 marzo 2000, la collaborazione con i comitati pari opportunità nazionale e locali) il problema relativo all'abbandono del lavoro da parte delle donne: a) nel periodo di maternità protetta e b) in occasione della nascita di un figlio. Le statistiche disponibili (vedi allegato statistico) consentono alle diverse regioni di conoscere la propria posizione di partenza e il divario rispetto alla media nazionale e rispetto alle regioni con le posizioni più favorevoli (verso le quali le regioni e i comuni devono puntare).

1.4 - Promuovere una visione positiva della persona anziana

La dinamica demografica pone l'Italia fra i Paesi con la più alta percentuale di anziani. All'1.1.2000 le persone di età superiore ai 65 anni sono oltre 10 milioni, pari al 18% della popolazione. I grandi vecchi, di età superiore agli 80 anni, rappresentano il 22% degli anziani. L'allungamento dell'aspettativa di vita (sono stati aggiunti più di trent'anni alla vita media dall'inizio del XX secolo), insieme alla riduzione del tasso di fecondità totale (il numero di nati per donna in età feconda è stato nel 1998 di 1,19, tra i più bassi al mondo) ha portato l'Italia ad essere il primo Paese in cui la popolazione degli ultra sessantacinquenni ha superato quella dei giovani con meno di 15 anni (tab. 1, Allegato statistico).

L'invecchiamento della popolazione, soprattutto in alcune regioni e comunità locali, sta modificando fortemente le reti familiari e l'insieme dei bisogni cui esse tradizionalmente facevano fronte. Le famiglie con almeno un anziano sono (secondo l'indagine Multiscopo dell'Istat) il 34,8% del totale (con un solo anziano nel 22,9% dei casi, con due o più anziani nell'11,9% - vedi Allegato statistico). Tale situazione è ulteriormente complicata dall'instabilità matrimoniale, dalla crescente diversificazione dei modi di «fare famiglia», oltre che dalla mobilità territoriale delle generazioni giovani e adulte (per lo più per motivi legati al lavoro).

Gli anziani che vivono soli sono oltre 2,6 milioni (il 27% degli anziani), di cui l'81% donne. La variabilità territoriale è molto accentuata, si passa dal 20% di anziani soli in Sardegna al 34% in Val d'Aosta. Una cosi alta percentuale di single non deve peraltro essere interpretata come indice di isolamento. Al contrario, segnala sia l'adesione ad un modello di autonomia nella vita quotidiana reso possibile anche dalle migliorate condizioni di salute in età anziana, sia l'esistenza di forti reti parentali che consentono autonomia senza abbandono. Il 24% degli anziani soli riceve aiuti informali e (soltanto) il 5% riceve aiuti dal Comune o da altri enti ed istituzioni.

Particolarmente a rischio appaiono 555 mila anziani soli che non hanno figli, fratelli, sorelle, oppure hanno figli che vedono solo raramente. Il 77% di questi è al di fuori di qualunque rete di aiuto (allegato statistico).

A fronte di tale situazione, va peraltro osservato che aumenta il numero di persone anziane che contribuiscono attivamente alla vita sociale o che offrono un sostegno (aiuto) informale alla famiglia. Il 58% dei nonni pari a circa 6,3 milioni di persone - ha almeno un nipote con meno di 14 anni. La maggioranza dei nonni con nipoti piccoli contribuisce alla loro cura. Infatti, complessivamente, l'84,2% dei nonni si prende cura dei nipoti almeno in qualche occasione. Le nonne sono più spesso partecipi della vita quotidiana dei nipotini: solo il 13% delle nonne non si occupa mai di loro. Ben il 29,8% dei nonni si occupa dei nipoti mentre i genitori lavorano, ma sono soprattutto quelli meno istruiti ad essere più spesso impegnati in questa attività. I nonni con maggiori livelli di istruzione sembrano invece più spesso occupati con i nipotini in occasioni di svago (per il tempo libero dei genitori e durante le vacanze).

Emerge un segmento maggioritario di nonni che si cura dei nipoti occasionalmente o in momenti di emergenza. Il segmento dei nonni impegnati a tempo pieno nella cura dei nipoti appare dunque minoritario. I nonni «a tempo pieno» sono di più nel Nord del Paese, ove sono più alti i tassi di occupazione femminile, a conferma del fatto che, in assenza di servizi adeguati, sono le reti familiari a consentire la conciliazione tra partecipazione al lavoro e responsabilità familiari, esigenze di reddito ed esigenze di cura.

L'invecchiamento è un processo naturale che riguarda tutte le persone e che si sviluppa in modo differenziato secondo i contesti sociali, culturali e familiari nei quali esso avviene. Non si tratta di un processo omogeneo e lineare: le condizioni che esprimono la vecchiaia sono diverse, come sono diversi i bisogni ad essa correlati. Dal punto di vista funzionale ci sono situazioni di totale autonomia e situazioni di totale dipendenza. Rispetto ai legami con la comunità, e quindi ai meccanismi di appartenenza sociale, mentre aumentano le persone anziane che contribuiscono alla vita sociale permangono situazione di debolezza e fragilità dipendente dall'indebolimento dei ruoli sociali.

L'invecchiamento si sviluppa all'interno delle reti familiari e nei contesti comunitari, per cui implica l'assunzione di precise responsabilità da parte delle componenti giovani e adulte della famiglia, relativamente ad ognuna delle varie fasi in cui si sviluppa l'invecchiamento e non soltanto nel momento in cui si manifesta la dipendenza in rapporto a condizioni di non autonomia.

Nella famiglia tali responsabilità riguardano di norma i figli, indipendentemente dalla condizione di convivenza, figli che a loro volta possono già essere coinvolti in un loro processo di invecchiamento. È in aumento la quota di anziani (per lo più donne) che ha responsabilità di cura nei confronti di altri anziani nella generazione precedente. Riconoscere e valorizzare il rapporto di tutela e di sostegno che i figli possono offrire ai genitori anziani, comporta offrire ai figli una serie di servizi e di aiuti, destinati ad integrare il lavoro di cura (quotidianamente o per periodi di sollievo), a sostenere psicologicamente la persona, a offrire risorse economiche (quando necessarie) per far fronte ai maggiori impegni. Occorre inoltre tenere presente che la forma della famiglia e delle reti familiari cambia lungo il ciclo di vita e che vi sono individui e famiglie nucleari che possono trovarsi a contare solo sulle proprie risorse ristrette, mentre altri possono vivere da soli, ma contando su una più o meno fitta rete di relazioni familiari.

È assodato che la crescente necessità di differenziare i servizi rivolti alla popolazione anziana nasce non tanto, e non solo, dalla carenza di risorse in rapporto al sempre crescente numero di potenziali utenti, quanto al maturare di una nuova coscienza circa la necessità di restituire alle persone anziane il potere di autodeterminazione, cioè di scegliere tra i vari servizi possibili quello più rispondente alle proprie preferenze, fermo restando l'appropriatezza dello stesso e la valutazione del rapporto costi/benefìci per quanto a carico della collettività. In particolare occorre che l'anziano non sia visto solo come soggetto passivo, ma al contrario sia recuperato il ruolo fondamentale dell'anziano, come memoria, come saggezza, come capacità di ridefinire le priorità dei valori, all'interno della società.

Il complesso di fenomeni legati ai mutamenti demografici e sociali richiede una forte innovazione e diversificazione nell'offerta di servizi e interventi nonché nella creazione di sinergie e collaborazioni tra servizi, reti familiari, associazioni di auto e mutuo aiuto, volontariato. Richiede anche di guardare alla famiglia in modo non statico e omogeneo, prestando attenzione alle risorse e potenzialità effettivamente disponibili, ma anche ai vincoli e alle difficoltà di tipo organizzativo e relazionale ed ai rischi di impoverimento e dipendenza che può provocare per alcuni soggetti un troppo esclusivo affidamento alla solidarietà familiare.

In una logica analoga vanno valorizzate e sostenute le risorse che la stessa comunità può mettere a disposizione, in particolare attraverso le associazioni e i gruppi di volontariato (anche di volontariato anziano), secondo princìpi di solidarietà (inter ed intra-generazionali).

Le politiche nei confronti della popolazione anziana possono qualificarsi con programmi improntati ad una visione positiva dell'età anziana, promuovendo una cultura che valorizzi l'anziano come soggetto sociale in una società integrata e solidale, garantendo condizioni di maggiore equità nella erogazione dei servizi.

Le politiche sociali devono proporsi almeno i seguenti obiettivi:
- sostenere le famiglie con anziani non autosufficienti bisognosi di assistenza a domicilio (anche a tutela dell'autonomia della donna, sulla quale ricade nella maggior parte dei casi l'onere dell'assistenza),
- innovare e diversificare l'offerta di servizi e interventi,
- riconoscere il diritto dell'anziano a scegliere dove abitare.

Tali obiettivi coinvolgono le politiche nazionali, in particolare quelle fiscali (di riconoscimento delle spese per l'adeguamento delle abitazioni alle esigenze delle persone anziane e delle spese per l'assistenza) e le politiche locali, in particolare (ma non esclusivamente) per quanto riguarda l'offerta e l'innovazione dei servizi.

Il Piano nazionale Sociale 2001-2003 propone che le Regioni e gli enti locali nel progettare il sistema integrato di interventi e servizi affrontino esplicitamente il problema relativo al sostegno alle famiglie con a carico persone anziane non autosufficienti prevedendo specificamente misure e interventi volte a:
- potenziare i servizi di assistenza domiciliare, prevedendo, in ogni caso, almeno un servizio in ogni comune (o consorzio di comuni),
- sviluppare l'offerta di servizi di sollievo, prevedendo, in ogni caso, almeno un servizio in ogni comune o consorzio di comuni.

Le statistiche disponibili (vedi allegato statistico) consentono alle diverse regioni di conoscere la propria posizione di partenza nonché il divario rispetto alla media nazionale.

Gli interventi sociali a sostegno delle persone anziane ed in particolare delle persone anziane non autosufficienti devono coordinarsi con il Progetto Obiettivo Anziani in particolar modo con le politiche di integrazione tra sanità ed assistenza così come definito dall'Atto di Indirizzo e Coordinamento relativo alla integrazione socio-sanitaria.

Con riguardo all'obiettivo di promozione di una visione positiva dell'anziano, e in stretto collegamento con quanto delineato per l'obiettivo 1 e l'obiettivo 4, i piani di zona dovranno prevedere misure e servizi in ognuno dei seguenti campi:
- istituzione, d'intesa con le organizzazioni delle persone anziane, di un servizio civile, ai quale partecipano le persone anziane (insieme ai più giovani) al fine di valorizzarne le esperienze e competenze,
- servizi di assistenza domiciliare (anche integrata con i servizi sanitari) con personale qualificato, con particolare attenzione allo sviluppo delle capacità relazionali degli operatori nel leggere le richieste non formulate o le sofferenze inespresse e nel saper dare risposte che tengano anche in considerazione il bisogno di ascolto,
- centri diurni che sappiano coniugare il sollievo alle famiglie e l'offerta di attività riabilitative, ricreative; di socializzazione sia per persone non autosufficienti fisiche sia per affetti da demenza senile o morbo di Alzheimer,
- servizi a sostegno della domiciliarità, trasporti adeguati che permettano una sufficiente mobilità e l'autonomia nelle attività quotidiane,
- mini-alloggi per gli anziani che per la posizione territoriale (es. montagna) o per lo stato della propria abitazione siano impossibilitati a rimanervi (per alcuni periodi o definitivamente),
- ospitalità temporanea, da un giorno a un massimo di tre mesi, nelle strutture residenziali, in posti associati ai centri diurni, al fine di risolvere urgenti necessità familiari o per sollievo alla famiglia ospitante, affinché possa soddisfare bisogni essenziali del nucleo ed in particolare dei minori presenti,
- affidamento a famiglie selezionate anche sulla compatibilità reciproca relativa ad abitudini di vita, a gusti, ad àmbito territoriale,
- offerta di attività di volontariato o di utilità sociale in particolare favorendo lo sviluppo dell'auto-mutuo aiuto in tutti i settori del bisogno sociale,
- apertura delle strutture residenziali e diurne alla comunità locale nella quale sono inseriti e promozione di incontri intergenerazionali in particolare tra bambini e anziani,
- soggiorni marini o in altre località, anche per persone non autosufficienti sia ricoverate in strutture sia residenti al proprio domicilio.

Obiettivo 2
Rafforzare i diritti dei minori

Con l'obiettivo 2, il Piano Nazionale Sociale 2001-2003 si propone di consolidare le risposte per l'infanzia e per l'adolescenza, in una logica di rafforzamento dei diritti dei minori, compresi gli immigrati.

2.1 - Consolidare e rafforzare le risposte per l'infanzia e l'adolescenza

La diminuzione della natalità, il progressivo invecchiamento della popolazione, l'aumento del tasso di occupazione della donna, talvolta la crisi dei rapporti coniugali, stanno introducendo rapidi mutamenti nella struttura familiare e nella condizione dei minori. Oggi i bambini ed i ragazzi, soprattutto nel nord del paese, hanno raramente molti fratelli e cugini mentre dispongono di un maggior numero di nonni e bisnonni con i quali passano molto tempo e dai quali vengono spesso accuditi. In questo quadro, la condizione e i bisogni dei minori sono in rapido cambiamento; stanno anche emergendo nuove fragilità e disagi evolutivi che, in molti casi, a causa del progressivo aumento delle condizioni di povertà, sfociano in difficoltà conclamate.

La legge n. 328/2000 precisa (art. 22, comma 1, lettera c) che gli interventi per la promozione dei diritti dell'infanzia e dell'adolescenza, nonché gli interventi a sostegno dei minori in situazione di disagio rientrano nel «livello essenziale delle prestazioni sociali erogabili sotto forma di beni e servizi». La legge precisa inoltre che gli interventi del sistema integrato sono realizzati secondo le finalità della legge n. 285/1997 (diritti ed opportunità per l'infanzia e l'adolescenza). Si tratta di una precisazione importante, perché volta a recepire la legge n. 285/1997 che nelle sue finalità, si ispira alla convenzione dell'Onu sui diritti del fanciullo.

Gli interventi per infanzia ed adolescenza vanno pertanto inquadrati in una logica di esigibilità dei diritti e di costruzione di opportunità. Le politiche si rivolgono tanto a situazioni di disagio conclamato e di disadattamento, quanto al cosiddetto «disagio evolutivo». Nella progettazione degli interventi per l'infanzia e l'adolescenza è importante passare dalla progettazione di singoli servizi alla progettazione di politiche pubbliche di territorio, organiche e di comunità, che tengano conto delle esigenze delle nuove generazioni in una logica - al contempo - promozionale, preventiva (primaria e secondaria) e curativa, nella prospettiva di sostenere ed accompagnare i minori verso uno sviluppo evolutivo sano. Le politiche sociali per infanzia e adolescenza si propongono inoltre, con iniziative di sostegno alla genitorialità, di formare ed accompagnare gli adulti più vicini ai bambini ed ai ragazzi.

Lo strumento strategico per la costruzione delle politiche per l'infanzia e l'adolescenza, per il loro consolidamento e la loro qualificazione è il Piano territoriale di intervento per l'infanzia e l'adolescenza (L. n. 285/1997, art. 2, comma 2).

Il Piano territoriale di intervento per l'infanzia e l'adolescenza si propone infatti di:
- dare compiuta attuazione al Piano d'Azione nazionale elaborato dall'Osservatorio Nazionale sull'infanzia e l'adolescenza ai sensi dell'articolo 2 della legge 23 dicembre 1997, n. 451;
- consolidare e dare più organicità agli interventi preesistenti rivolti a bambini e ragazzi, valutando costantemente la loro appropriatezza e adeguatezza,
- evidenziare sul territorio nuovi bisogni e nuove attese delle giovani generazioni, promuovere interventi innovativi che rispondano a tali bisogni e attese,
- promuovere idee ed iniziative sperimentali per conoscere nuovi bisogni e aprire nuovi fronti di soddisfazione delle esigenze delle nuove generazioni.

Alla costruzione del Piano territoriale partecipano, nel medesimo territorio, tutti gli attori istituzionali e della società civile coinvolti nell'erogazione delle politiche per i minori.

Il Piano territoriale per l'infanzia e l'adolescenza è costruito in stretta connessione con gli altri strumenti strategici di programmazione locale, previsti dalla legge n. 328/2000 (in particolare, il Piano di zona e la Carta dei servizi sociali). È importante che l'ente locale (comune capofila o associazione di Comuni) si ponga in un ottica di regia di tale processo progettuale, investendo energie e risorse.

È altrettanto importante che gli altri livelli di governo (Province, Regioni, Dipartimento per gli Affari Sociali) sostengano questo processo con adeguati accompagnamenti ed interventi di promozione, assistenza tecnica e formazione, che rappresentano condizione essenziale per utilizzare a pieno gli strumenti e le opportunità di sviluppo, anche culturale, delle politiche italiane per l'infanzia e l'adolescenza.

In particolare si propone la prosecuzione e l'implementazione dei positivi rapporti tra regioni, enti locali ed il Centro Nazionale di documentazione ed analisi sull'infanzia e l'adolescenza previsto dall'articolo 3 della citata legge n. 451/1997.

In stretto collegamento con quanto indicato per il sostegno alle responsabilità familiari e la conciliazione tra responsabilità familiari e lavorative, le politiche sociali devono proporsi almeno i seguenti obiettivi, da realizzare nel triennio 2001-2003:

1. attivazione di forme di partecipazione degli adolescenti alla vita della loro comunità locale,
2. creazione di spazi di socializzazione e per il tempo libero «protetti», anche in collaborazione con gli istituti scolastici,
3. rafforzamento ed estensione dell'affidamento familiare come modalità di risposta al disagio familiare, in alternativa alla istituzionalizzazione,
4. programmazione di campagne informative e di consulenza sulle dipendenze e sulle possibilità di affrancamento da esse, in particolare mediante gruppi di auto-mutuo aiuto,
5. realizzazione di almeno una struttura di accoglienza per minori a carattere famigliare (art. 22, comma 2, lett. c) per ciascun àmbito territoriale definito dalla Regione,
6. attivazione di servizi quali educatori di strada e simili.

Ogni regione, sulla base degli obiettivi che precedono, provvederà ad istituire un osservatorio generale, in collaborazione con le province, dello stato dei servizi rivolti all'infanzia e all'adolescenza, a seguito del quale, entro il primo anno di vigenza del Piano nazionale, individuerà con gli enti locali le priorità di istituzione dei servizi, modulate sulle caratteristiche demografiche, territoriali, socio-culturali.

Il Piano regionale ed i piani di zona stabiliranno gli obiettivi concretamente raggiungibili per ciascun anno di vigenza del Piano.

Con riguardo all'obiettivo di consolidare le risposte per l'infanzia e l'adolescenza, e in stretto collegamento con quanto delineato per l'obiettivo 1, i piani di zona dovranno prevedere lo sviluppo di misure e servizi in ognuno dei seguenti campi:
- servizi di tipo prescolastico, a completamento della rete di scuole per l'infanzia, gestiti con la partecipazione dei genitori;
- realizzazione di servizi per la prima infanzia, attraverso lo sviluppo e la qualificazione di nidi d'infanzia e di servizi ad essi integrativi che consentano una risposta qualificata e flessibile a bisogni sociali ed educativi diversificati;
- offerta di spazi di gioco di libero accesso per i bambini da 0 a 3 anni, con genitori, nonni, ecc., anche con la presenza di operatori di supporto alle funzioni genitoriali;
- luoghi di gioco «guidato», accessibili anche ai bambini residenti in zone ad alta dispersione, mirato a favorire la socializzazione, la tolleranza, il rispetto e un rapporto positivo con se stessi e con il mondo circostante;
- sostegno psicologico e sociale per nuclei famigliari a rischio di comportamenti violenti e maltrattamenti, attraverso interventi di prevenzione primaria e a forte integrazione sociosanitaria;
- servizi di cura e recupero psico-sociale di minori vittime di maltrattamenti e violenze, anche sessuali, attraverso interventi con caratteristiche di forte integrazione tra i settori sociale, sanitario, giudiziario e scolastico;
- servizi di sostegno per i minori sottoposti ad abusi;
- servizi di supporto per gli studenti con difficoltà di apprendimento, anche come aiuto alla famiglia nel seguire il percorso scolastico del figlio;
- offerta di spazi e stimoli ad attività di particolare interesse da parte degli adolescenti, con la presenza di persone di altre generazioni, con o senza la presenza di operatori qualificati, per assicurare l'inclusione sociale, le pari opportunità, nonché lo sviluppo di capacità di autogestione degli spazi e delle attività;
- percorsi sperimentali di formazione ed inserimento lavorativo che assecondino le capacità, la creatività, le positive aspirazioni dei giovani, soprattutto di quelli a rischio di devianza, riducendo il divario di opportunità rispetto ai coetanei inseriti in contesti sociali più favorevoli;
- luoghi di ascolto immediatamente accessibili, al di fuori dei consueti spazi istituzionali e preferibilmente interni o attigui ai luoghi abitualmente frequentati, che permettano ai giovani di conoscere, instaurando rapporti di fiducia ed amicali, operatori esperti cui esprimere la proprie difficoltà;
- gruppi appartamento per adolescenti, anche non ancora maggiorenni, previo nullaosta del Tribunale dei Minori, privi di validi supporti familiari, eventualmente accompagnati da operatori esperti nel percorso di autonomizzazione.

I servizi sopra indicati dovranno fare riferimento alle esperienze già avviate nell'applicazione della L. n. 285/1997, consolidandone gli obiettivi e la metodologia, e perfezionando la qualità degli interventi, anche attraverso la conoscenza e la valutazione delle sperimentazioni effettuate.

Obiettivo 3
Potenziare gli interventi a contrasto della povertà

Con l'obiettivo 3, il Piano Nazionale Sociale 2001-2003 si propone di potenziare gli interventi volti a contrastare la povertà (e in particolare le povertà estreme) e a restituire alle persone le capacità di condurre una vita con dignità.

Il contrasto alla povertà e all'esclusione sociale è uno degli obiettivi strategici ripetutamente indicati dal Consiglio Europeo, in particolare da quello del 17 dicembre 1999 e quello del marzo 2000 a Lisbona, e ancora nell'accordo sull'agenda sociale europea approvata a Nizza nel novembre 2000. In occasione del Consiglio Europeo di Lisbona si è concordato che ciascun paese metterà in campo un piano di azione nazionale di contrasto alla povertà, in cooperazione con la Commissione. Tali piani di azione dovranno contenere obiettivi di breve e medio termine specifici e l'indicazione degli strumenti messi in campo. È fatta esplicita menzione sia della competenza specifica dei governi locali sia della necessità di coinvolgere le associazioni non lucrative come soggetti particolarmente attivi.

In Italia si trova in condizione di povertà relativa (cioè consuma meno della metà del consumo medio pro-capite) 1'11,9% delle famiglie: 2.600.000 di famiglie, pari a 7.500.000 persone. Se guardiamo alla povertà assoluta (cioè alla impossibilità di soddisfare bisogni essenziali) la percentuale scende, ma rimane significativa: essa coinvolge il 4,8% delle famiglie (pari a circa 1.038.000 famiglie). La povertà è concentrata nel Mezzogiorno e nelle isole, ove risiede il 66% delle famiglie povere. È inoltre concentrata nelle famiglie numerose, con quattro, e soprattutto cinque o più, componenti, specialmente se tra questi ci sono tre o più figli minori. Anche le famiglie in cui c'è almeno un anziano sono più vulnerabili alla povertà, toccando il 15,7%. Infine vi è un nesso stretto tra mancanza di lavoro della persona di riferimento e povertà della famiglia: è povero il 28,7% delle famiglie in cui la persona di riferimento è in cerca di lavoro. Anche se vi sono famiglie povere anche là dove la persona di riferimento è lavoratore dipendente (9%) o autonomo (7%).

Gli interventi di contrasto alla povertà riguardano innanzitutto le politiche attive dei lavoro e di sviluppo locale e le politiche formative. In parte riguardano anche le politiche di conciliazione tra partecipazione al mercato del lavoro e responsabilità di cura familiare, nella misura in cui molta povertà è dovuta all'esclusivo impegno domestico delle madri, specie nel caso di famiglie con un solo genitore e nelle famiglie numerose. Anche le misure di sostegno economico alla crescita dei figli costituiscono una forma di prevenzione e contrasto della povertà, in quanto correggono la potenziale inadeguatezza del reddito familiare rispetto al numero di persone che da questo dipendono.

In questa prospettiva è importante che le iniziative di sviluppo locale, incluse quelle che si avvalgono dei fondi europei, si pongano esplicitamente (anche) obiettivi di contrasto e prevenzione della povertà, individuando sia i soggetti potenzialmente più vulnerabili, sia gli strumenti più adatti a sostenerne le potenzialità (in termini di occupabilità, ma anche di capacità di condurre una vita dotata di senso per sé e per altri, di possibilità di sostenere relazioni significative e di assumere responsabilità verso altri).

Se un'occupazione adeguatamente remunerata è la via maestra per contrastare la povertà, non sempre in un momento e in un contesto dato vi è una domanda di lavoro sufficiente a coprire l'offerta e non sempre chi si trova in povertà è immediatamente in grado di accettare una eventuale occupazione (per formazione inadeguata, per fragilità fisica o psichica, per gravosità del carico familiare di cura). Inoltre vi è chi è povero nonostante abbia una occupazione, perché la remunerazione non è adeguata ai bisogni familiari o anche solo ai bisogni individuali. Come hanno mostrato molte ricerche italiane e straniere, infatti, i motivi per cui si entra in povertà sono diversificati, così come lo sono le risorse per uscirne. Di questa diversificazione devono tenere conto le politiche per essere efficaci, non tanto per quanto riguarda il sostegno economico, ma per quanto riguarda le misure di accompagnamento sociale e il tipo di patti che si stipulano con i benefìciari del sostegno economico.

La legge quadro, all'art. 23 stabilisce che, tramite un apposito provvedimento legislativo, venga esteso su tutto il territorio nazionale il Reddito Minimo di Inserimento, RMI, attualmente in corso di sperimentazione in un limitato numero di Comuni italiani come misura di sostegno al reddito e di integrazione sociale rivolta a chi si trova al di sotto di una determinata soglia di reddito familiare. Ciò consentirà anche al nostro Paese di ottemperare alla raccomandazione europea del 1992 relativa all'impegno di ogni Paese a fornire a tutti i cittadini la garanzia di un livello minimo di risorse e prestazioni sufficiente a vivere conformemente alla dignità umana.

In assenza di una misura nazionale di sostegno al reddito di ultima istanza, i governi locali (regionali, provinciali e comunali) hanno sviluppato negli anni modalità di intervento fortemente diversificate nel livello di sostegno, nei soggetti benefìciari, nella durata dei benefìci. Tale diversificazione raramente è spiegabile con la diversità dei bisogni; viceversa produce forti disuguaglianze tra cittadini a parità di bisogno oltre che forme di discrezionalità difficilmente accettabili.

Nel breve periodo, in attesa che il Reddito Minimo di Inserimento venga messo a regime, è quindi necessario che i governi locali inizino a modificare i propri sistemi di assistenza economica nella prospettiva di intervento prevista dal RMI: uniformità e chiarezza dei criteri di accertamento del reddito, riferimento al bisogno e non alla appartenenza categoriale, orientamento alla valorizzazione delle capacità e potenzialità dei soggetti, sviluppo di forme di accompagnamento sociale in collaborazione con i diversi soggetti pubblici, non lucrativi e privati presenti sul territorio, inserimento di queste attività nei piani di sviluppo locale.

Il reddito minimo di inserimento è in prospettiva lo strumento di base di una politica di alleviamento della povertà per chi, in modo più o meno temporaneo, non ha le risorse personali o le opportunità necessarie per essere economicamente autonomo. Ad esso devono accompagnarsi politiche di sostegno e incentivazione alla formazione (per i giovani) e alla riqualificazione (per gli adulti), di facilitazione all'accesso all'abitazione per le famiglie a basso reddito (anche in collegamento con le misure nazionali), di facilitazione all'utilizzo dei servizi sociali, formativi e sanitari da parte di chi si trova in condizioni di particolare vulnerabilità. In attesa dell'estensione del RMI su base nazionale, gli enti locali potranno e dovranno iniziare a ridefinire la propria attività anche in questi settori, indicando nei propri piani gli obiettivi di medio e breve termine rispetto alla situazione di partenza.

Tra coloro che si trovano in situazione di grave disagio economico e di rischio di esclusione sociale particolare attenzione va prestata alle persone senza dimora. A queste persone vanno dirette specifiche misure sia per favorirne l'inserimento e il reinserimento nei servizi (inclusi quelli sanitari), sia per accompagnarle in un percorso di recupero delle capacità personali e relazionali, sia infine per affrontarne i bisogni di sopravvivenza fisica.

In questa prospettiva la legge quadro ha indicato le persone senza dimora tra i benefìciari prioritari del RMI a regime (nel suo duplice aspetto di sostegno al reddito e di accompagnamento sociale) e ha allocato un finanziamento ad hoc per due anni, per sollecitare i governi locali, specie metropolitani, ad attivare una gamma articolata di misure e servizi specifici.

Tali indicazioni vanno nella direzione indicata dal Consiglio Europeo il quale, con riferimento ai piani nazionali di azione per l'inclusione sociale che anche il nostro Paese dovrà predisporre, ha precisato le seguenti direttrici di sviluppo:
1. la promozione della partecipazione al lavoro e dell'accesso, da parte di tutti, alle risorse, ai diritti, ai beni e ai servizi,
2. la prevenzione dei rischi di esclusione,
3. l'azione a favore dei più vulnerabili,
4. la mobilitazione dell'insieme degli attori.

Il Piano nazionale sociale 2001-2003, in coerenza con quanto sancito dalla legge n. 328/2000 e in linea con gli orientamenti del Consiglio europeo, si propone i seguenti obiettivi:
- promuovere l'inserimento nei piani di zona delle azioni a contrasto della povertà,
- estendere e uniformare progressivamente le forme di sostegno al reddito di chi si trova in povertà,
- creare le condizioni organizzative e professionali necessarie per la messa a regime del RMI,
- sviluppare forme di accompagnamento sociale e di integrazione sociale personalizzate, mirate - ove possibile - al raggiungimento della autonomia economica,
- ridurre l'evasione scolastica.

A tal fine, i piani di zona dovranno prevedere, attraverso il coinvolgimento attivo dei destinatari e previa precisazione delle condizioni organizzative, tecniche e professionali più adeguate all'attuazione delle politiche di contrasto della povertà, lo sviluppo di misure e interventi nei seguenti campi:
- avvio di forme di collaborazione tra scuole e servizi sociali al fine di prevenire l'evasione scolastica e di sostenere la frequenza,
- sviluppo di servizi di accompagnamento sociale,
- avvio di una razionalizzazione delle forme di sostegno al reddito esistenti,
- sperimentazione, sotto la regia delle regioni, di forme di erogazione di «pacchetti di risorse» (integrazione del reddito, accesso gratuito ai trasporti, aiuti per il pagamento delle utenze e per l'acquisto di alcuni beni di consumo, ecc.) alle famiglie e agli individui in condizione di povertà,
- avvio di sperimentazioni di «contratti di inserimento» con i benefìciari d'aiuti economici, in collaborazione con i diversi soggetti presenti sul territorio,
- rilevazione delle condizioni di povertà a livello locale.

Per quanto riguarda i «senza dimora», il presente Piano indica quale obiettivo specifico la generalizzazione sul territorio di servizi e azioni che consentano di prendere contatto con i senza dimora e di offrire loro condizioni di riduzione del danno e percorsi di recupero. A tal fine, i piani di zona dovranno prevedere lo sviluppo di misure volte a:
- approntare, per i diversi livelli subterritoriali (quartieri/zone di particolare frequentazione dei senza dimora), almeno un servizio di bassa soglia,
- sviluppare almeno un servizio di seconda accoglienza e di accompagnamento,
- avviare iniziative di collaborazione tra servizi sociali, sanitari, del lavoro (oltre che con il volontariato) per consentire il progressivo re-inserimento nei servizi di tutti.

Obiettivo 4
Sostenere con servizi domiciliari le persone non autosufficienti, in particolare gli anziani e le disabilità gravi

Con l'obiettivo 4, il Piano nazionale si propone in particolare di:
- favorire la permanenza a domicilio, o l'inserimento presso famiglie, persone o strutture comunitarie di accoglienza di tipo familiare, di persone anziane e/o disabili con problemi di non auto sufficienza, in particolare delle disabilità gravi, sostenendone l'autonomia e limitando quanto più possibile il ricorso all'istituzionalizzazione,
- sostenere i nuclei familiari nelle responsabilità di cura domiciliare di persone anziane e/o disabili non autosufficienti, in particolare di quelli gravi.

Dall'indagine multiscopo dell'Istat sulle condizioni di salute emerge che nel 1999 i disabili sono il 5% della popolazione di 6 anni e più, oltre 2,6 milioni di persone. Il dato si riferisce alla popolazione che vive in famiglia e non tiene conto delle persone residenti permanentemente in istituto.

Le persone con disabilità sono prevalentemente concentrate tra gli anziani (73,2%, per un totale di 1,9 milioni di persone), per i quali il rischio di malattie, in particolare di quelle invalidanti, aumenta esponenzialmente con il passare degli anni. Tra le persone di 65-74 anni, i disabili sono il 9,3%, passano al 20,7% tra 75 e 79 anni, per arrivare al 47,5% tra le persone con più di 80 anni. Vanno comunque considerati i disabili non anziani: 87 mila minori, 127 mila persone tra 18 e 34 anni e 505 mila persone tra 35 e 64 anni (vedi allegato statistico).

Considerando i diversi livelli di disabilità, quello più grave è rappresentato dal confinamento che implica la permanente costrizione a letto o su una sedia con livelli di autonomia pressoché nulli, nonché il confinamento in casa per impedimento fisico o psichico. Risultano confinati il 2,2% delle persone di 6 anni e più (tra le persone di più di 80 anni il tasso raggiunge il 24%).

Complessivamente, possono essere considerati disabili gravi 1,5 milioni di persone (2,8%); sono state considerate tra queste i confinati a letto o su una sedia, le persone con molti problemi (cioè coloro che presentano almeno due tipologie di problemi tra difficoltà nelle funzioni, nel movimento, nella vista, udito, parola) e i confinati a casa che non sono autonomi nella gestione di soldi, nell'uso del telefono, dei mezzi di trasporto e nell'assunzione delle medicine.

La centralità della famiglia nella cura della malattia e nella tutela della salute è un dato consolidato. Le famiglie con almeno un disabile sono 2 milioni 396 mila, l'11,2% del totale; in 246 mila famiglie vive più di un disabile. Le famiglie con almeno un disabile grave sono 1 milione 403 mila, il 6,6% delle famiglie italiane. Il problema delle barriere architettoniche all'interno del proprio edificio risulta particolarmente grave per i disabili. Il 48,2% dei disabili è confinato o ha difficoltà di movimento e abita a piani superiori al piano terra senza avere l'ascensore.

Sono 2 milioni 673 mila le persone di 14 anni e più che vivono con disabili, il 5,4% della popolazione, quasi quanto i disabili. Esiste anche un altro settore di persone che pur non vivendo con persone disabili (o non autonome) se ne prendono cura nell'àmbito della rete informale: 1,5 milioni di persone tra i 35 e i 69 anni di età hanno almeno un genitore non convivente con problemi di autonomia. L'82, 7% di questi vede i propri genitori almeno una volta a settimana. L'aiuto è dato dal 30,9% di questi, in maggioranza donne (allegato statistico).

Il sostegno e l'affiancamento delle famiglie in cui siano presenti anziani o disabili non autosufficienti, siano esse composte da anziani soli, da coppie di anziani ovvero siano famiglie plurigenerazionali, può essere reso concreto solo attraverso un effettivo sviluppo della rete dei servizi e delle prestazioni, purché la stessa rete abbia caratteristiche di flessibilità funzionale ed organizzativa adeguata alle diverse esigenze delle famiglie. Queste vanno considerate a partire dalla possibilità, per le famiglie, di entrare in comunicazione con il sistema dei servizi; di veder accolte e considerate le proprie proposte nella ricerca di soluzioni rispetto ai problemi che si trovano ad affrontare; di poter fruire di programmi individualizzati che tengano conto della trasformazione nel tempo delle condizioni di bisogno. Se è vero, infatti, che le responsabilità di cura e assistenza riguardano, di solito, i genitori per quanto riguarda i disabili, ed i figli per quanto riguarda gli anziani, le risposte devono tener conto delle difficoltà di organizzazione della vita domestica, di quelle legate all'attività lavorativa dei familiari, dei problemi di relazione e di comunicazione, della fatica e del logoramento dei membri su cui grava l'onere dell'accudimento quotidiano delle persone bisognose di cure, specie quando essi stessi sono già coinvolti in un loro processo di invecchiamento, delle difficoltà infine di natura economica che possono derivare dalla necessità di far fronte ad impegni onerosi e prolungati nel tempo.

La rete dei servizi deve poter disporre di strumenti, professionalità e strutture sufficienti a garantire l'attivazione di forme di supporto flessibili a soddisfare innanzitutto le esigenze organizzative e psicologiche della famiglia, che possono richiedere, nei diversi momenti e nelle diverse situazioni, forme di affiancamento nei compiti di assistenza e servizi di sollievo che prevedano interventi a domicilio, semiresidenziali o residenziali, ovvero la possibilità di disporre di informazioni e conoscenze che possano contenere e ridurre i danni e gli scompensi conseguenti alla situazione di non autosufficienza.

La comunità locale può fornire risposte ai problemi della famiglia con anziani e disabili non autosufficienti attivando sia il sistema dei servizi, sia le risorse del volontariato e più in generale della cittadinanza attiva, considerando in prima istanza le esigenze effettive della famiglia e la sua possibilità di condurre una vita il più possibile piena ed autonoma.

Con riguardo al sostegno domiciliare per le persone anziane non autosufficienti, la legge n. 328/2000 prevede esplicitamente una riserva di risorse, a valere sul Fondo nazionale per le politiche sociali, allo scopo di favorire l'autonomia della persona anziana non autosufficiente e di sostenere il nucleo familiare nell'assistenza domiciliare. Coerentemente con tale previsione, il Piano nazionale sociale 2001-2003 indica specificamente fra le aree di intervento in base alle quali è definito il riparto funzionale delle risorse complessivamente disponibili (vedi Parte III, paragrafo 3) la macro-area «persone anziane», a favore della quale sono allocate risorse che tengono conto di quanto indicato nell'articolo 15, comma 1 della legge n. 328/2000

Ferme restando le competenze del Servizio sanitario nazionale in materia di prevenzione, cura e riabilitazione, gli interventi a favore degli anziani non autosufficienti a sostegno della domiciliarità dovranno essere realizzati prestando particolare attenzione alla necessaria integrazione tra assistenza e sanità, secondo gli indirizzi della legge n. 328/2000, anche tenuto conto di quanto previsto dall'atto di indirizzo e coordinamento di recente emanazione sull'integrazione sociosanitaria.

Il Piano sociale 2001-2003 propone alle Regioni e agli Enti locali, in applicazione dell'articolo 15 della legge n. 328/2000, di promuovere un Progetto nazionale per le persone anziane non autosufficienti con l'obiettivo di consentire alle persone anziane di vivere a casa o in un ambiente simile alla casa, contro il rischio di abbandono, di sradicamento dalle abitudini e dal contesto sociale, di segregazione in istituto. Alla elaborazione e alla realizzazione di tale progetto concorrono le organizzazioni del volontariato, del privato sociale nonché le Ipab.

Con riferimento all'handicap, il Piano nazionale sociale 2001-2003 si propone di dare piena attuazione all'articolo 22, comma 2, lettera f, della legge n. 328/2000, alla legge n. 162/1998 nonché al Programma di Azione per le politiche dell'handicap 2000-2003 adottato dal Consiglio dei Ministri del luglio 2000. Nell'àmbito di tale Programma di azione e nel quadro del processo di integrazione dei servizi sociali e di quelli sanitari, per favorire una piena tutela dei disabili e delle loro famiglie e promuovere opportunità di integrazione, assumono particolare rilievo i seguenti obiettivi:
- sostenere e sviluppare tutta l'autonomia e le capacità possibili delle persone non autosufficienti, in particolare dei disabili gravi,
- rimuovere gli ostacoli che aggravano la condizione di disabilità,
- creare condizioni di pari opportunità,
- sostenere, ma anche sollevare le famiglie,
- monitorare, attraverso una commissione permanente attivata presso la segreteria della Conferenza Stato/Regioni, i livelli di attivazione degli interventi per disabili gravi nei termini di misure assistenziali, educative, riabilitative e scolastiche.

Con riguardo all'obiettivo di sostenere e sviluppare l'autonomia delle persone non autosufficienti, e in stretto collegamento con quanto delineato per gli obiettivi 1 e 2, i piani di zona dovranno prevedere, con particolare riferimento alla disabilità grave e gravissima, lo sviluppo delle seguenti misure:
- progetti personalizzati di riabilitazione e reinserimento sociale, anche dei soggetti seguiti in strutture ad alta integrazione assistenziale,
- individuazione di soluzioni abitative adeguate alla disabilità fisica, anche grave, favorendo la ristrutturazione delle abitazioni degli interessati, l'utilizzo di patrimoni comunali finalizzati a interventi sociali o di edilizia popolare, la dotazione di tecnologie adeguate,
- sviluppo di servizi di assistenza a domicilio per favorire la permanenza dei disabili presso la propria abitazione anche quando privi di sostegno familiare, per sollevare la famiglia (quando presente) e per permettere al disabile un soddisfacente uso del tempo libero,
- sviluppo di piani di apprendimento o recupero di capacità nella gestione della vita quotidiana, anche in vista del «Dopo di noi», cioè del momento in cui la famiglia non è più in grado di assistere il disabile,
- promozione delle famiglie - comunità per il «Dopo di noi»,
- misure volte a consentire al disabile grave una vita di relazione e sociale il più possibile piena e indipendente (garantendo efficaci mezzi di trasporto, promuovendo programmi di accesso ai servizi per il tempo libero, favorendo la pratica sportiva, ecc.),
- previsione di soluzioni residenziali di emergenza o di sostegno domiciliare per necessità temporanee o imprevedibili,
- sviluppo di centri diurni a sostegno della permanenza in famiglia di persone con handicap grave,
- misure di sostegno all'inserimento scolastico e lavorativo attraverso servizi adeguati, coinvolgendo le famiglie quali parti attive del processo di autonomizzazione dei propri congiunti, garantendo la dignità del soggetto inserito, ricercando la migliore collocazione possibile per lo sviluppo delle capacità del disabile,
- sperimentazione di programmi di assistenza, anche in forma indiretta ed autogestita, per la vita indipendente delle persone non autosufficienti.

I Piani di zona devono garantire almeno i seguenti servizi a favore delle famiglie e delle persone con disabilità grave e gravissima:
- centro diurno a carattere educativo,
- assistenza domiciliare e servizi di sollievo per le famiglie così come previsto dalla legge n. 162/1998,
- famiglie - comunità per il «Dopo di noi».

Le Regioni, in collaborazione con gli enti locali, nell'àmbito del Sistema informativo regionale dei servizi sociali, anche prevedendo il coinvolgimento dell'Istat, provvedono a promuovere, in ogni àmbito territoriale, un censimento della domanda esplicita di prestazioni e servizi domiciliari, nonché studi e ricerche volti a rilevare il bisogno complessivo e la domanda sommersa. Provvedono altresì alla rilevazione quantitativa dell'offerta di servizi di assistenza domiciliare disponibile sul territorio.

I Piani regionali ed i Piani di zona prevedono come obiettivo da perseguire nel triennio un incremento, anche con il concorso del fondo sanitario regionale, per ogni anno del livello di copertura del bisogno, in particolare con riferimento agli anziani non autosufficienti, sulla base delle rilevazioni di cui in precedenza.

Obiettivo 5
Altri obiettivi di particolare rilevanza sociale

Oltre agli obiettivi di cui in precedenza, il Piano 2001-2003 indica quali settori cui rivolgere particolare attenzione a livello locale le aree volte a favorire l'inclusione della popolazione immigrata, la prevenzione delle dipendenze e l'impegno nei confronti dell'adolescenza.

La prevenzione delle dipendenze, e in particolare delle tossicodipendenze, richiede lo sviluppo di un'esplicita strategia di intervento. Le azioni di prevenzione, soprattutto dell'uso di droghe sintetiche, devono comprendere:
- aiuto e sostegno alle famiglie e alla scuola,
- interventi di riqualificazione del tessuto urbano e sociale e creazione, per i giovani, di opportunità di aggregazione e di partecipazione alla vita della comunità,
- misure volte a costruire relazioni di fiducia fra le generazioni, a supportare le motivazioni e le capacità dei giovani, a sviluppare il senso di appartenenza positiva all'ambiente in cui vivono,
- interventi volti a promuovere modelli e stili di vita che rifiutino il ricorso a sostanze tossicodipendenti o all'abuso di alcool,
- interventi di informazione sugli effetti dell'uso delle sostanze tossicodipendenti, e in particolare delle droghe sintetiche.

I piani di zona di sviluppo delle politiche sociali devono prestare specifica attenzione alle misure volte a favorire l'inclusione degli immigrati, con specifico riferimento agli interventi diretti ad affrontare i problemi legati a:
- la tutela dei diritti dei minori immigrati,
- la condizioni abitativa degli immigrati,
- l'accesso ai servizi alla persona.

Per quanto riguarda l'attenzione nei confronti dell'adolescenza si rimanda a quanto indicato nei capitoli relativi agli obiettivi 1 e 2.

Parte III - Lo sviluppo del sistema integrato di interventi e servizi sociali

Lo sviluppo del sistema integrato di interventi e servizi sociali richiede la precisazione di una serie di strumenti, di seguito delineati nei loro aspetti essenziali e con riferimento agli elementi prioritari nella prima fase di attuazione della legge quadro per l'assistenza.

1 - Il livello essenziale delle prestazioni sociali

I livelli essenziali delle prestazioni sociali sono disegnati, nei limiti delle risorse del fondo nazionale per le politiche sociali e tenuto conto delle risorse ordinarie già destinate dagli enti locali alle politiche sociali, con riferimento a:
- un insieme di princìpi generali, ispiratori della legge quadro e alla base della programmazione delle politiche sociali,
- una griglia articolata su tre dimensioni:
1) le aree di intervento,
2) le tipologie di servizi e prestazioni,
3) le direttrici per l'innovazione nella costruzione della rete degli interventi e dei servizi.

I princìpi ispiratori, enunciati nella parte prima del presente Piano, sono richiamati in questa sede in quanto alla base del delicato e complesso processo di realizzazione di un sistema in grado di garantire, sull'intero territorio nazionale, un insieme di interventi giudicati prioritari ed essenziali ai fini delle politiche di sostegno alla piena realizzazione della persona. I princìpi esplicitano gli obiettivi di ben-essere che le politiche sociali intendono perseguire.

Le tre dimensioni contribuiscono a connotare, ognuna da una diversa angolatura, i possibili contenuti dei livelli essenziali.

La prima dimensione (aree di intervento) contribuisce a rispondere al quesito «livelli essenziali per chi? per rispondere a quali bisogni?».

La seconda dimensione (tipologie di servizi) contribuisce a rispondere al quesito «livelli essenziali per erogare quali prestazioni e servizi?».

La terza dimensione (direttrici per l'innovazione) contribuisce a risponde al quesito «livelli essenziali garantiti come? con quali criteri organizzativi e di erogazione dei servizi e delle prestazioni?».

Le aree di intervento costituiscono una articolazione, per macro categorie, delle aree rispetto alle quali le politiche sociali devono prevedere interventi e risposte. Le aree sono individuate con riferimento ai bisogni da soddisfare, tenuto conto delle indicazioni della legge quadro e delle priorità dei presente Piano. Esse sono così definite:

1.responsabilità familiari
2.diritti dei minori
3.persone anziane
4.contrasto della povertà
5.disabili (in particolare, i disabili gravi )
6.droghe
7.avvio della riforma

Le prime sei aree fanno riferimento a ambiti di bisogno, la settima è proposta tenuto conto della esigenza di prevedere interventi specifici, e adeguati finanziamenti, per l'avvio e la piena attuazione della riforma da parte dell'Amministrazione centrale, delle regioni e degli enti locali. Si noti che l'area relativa all'inserimento degli immigrati non è stata individuata come area a sé, bensì ricompresa trasversalmente nelle altre aree.

Le tipologie di servizi e prestazioni costituiscono una articolazione, per macro categorie, degli interventi e delle prestazioni che possono essere programmate e realizzate per rispondere alle esigenze proprie delle aree di bisogno di cui alle citate aree di interventi. Esso sono definite con riferimento a quanto previsto dall'articolo 22, comma 4, della legge n. 328/2000 come segue:

1.servizio sociale professionale e segretariato sociale per l'informazione e consulenza al singolo e ai nuclei familiari
2.servizio di pronto intervento sociale per le situazioni di emergenza personali e familiari
3.assistenza domiciliare
4.strutture residenziali e semi-residenziali per soggetti con fragilità sociali5.centri di accoglienza residenziali o diurni a carattere comunitario

Le direttrici per l'innovazione nelle politiche sociali e, in particolare, nella costruzione della rete degli interventi e servizi (terza dimensione) descrivono i criteri progettuali, di organizzazione e di funzionamento della rete, anche con l'obiettivo di consolidare e rafforzare le leggi innovative sulle politiche sociali. La complessità dei fenomeni legati ai mutamenti sociali richiede, infatti, una forte innovazione nella definizione delle politiche sociali, la creazione di sinergie e collaborazioni fra tutti i soggetti coinvolti e la valorizzazione delle risorse e delle potenzialità disponibili. Tali direttrici possono essere così delineate:
- partecipazione attiva delle persone nella definizione delle politiche che le riguardano,
- integrazione degli interventi nell'insieme delle politiche sociali, mobilitando a tal fine tutti gli attori interessati e prevedendo una strategia unitaria per l'integrazione sociosanitaria,
- promozione del dialogo sociale, della concertazione e della collaborazione tra tutti gli attori pubblici e privati, in particolare coinvolgendo i soggetti non lucrativi, le parti sociali e le organizzazioni dei servizi sociali, incoraggiando l'azione di tutti i cittadini e favorendo la responsabilità sociale delle imprese,
- potenziamento delle azioni per l'informazione, l'accompagnamento, gli sportelli per la cittadinanza,
- sviluppo degli interventi per la domiciliarità e la deistituzionalizzazione,
- interventi per favorire l'integrazione sociale,
- sviluppo delle azioni e degli interventi per la diversificazione e la personalizzazione dei servizi e delle prestazioni sociali,
- innovazione nei titoli per l'acquisto dei servizi.

Le direttrici attraversano trasversalmente le aree di intervento e le tipologie di servizi.

Con riguardo alle tipologie di servizi e prestazioni sociali e alle direttrici per l'innovazione si richiamano i seguenti aspetti.

La funzione di segretariato sociale (art. 22, comma 4 lett. a) risponde all'esigenza primaria dei cittadini di:
- avere informazioni complete in merito ai diritti, alle prestazioni, alle modalità di accesso ai servizi,
- conoscere le risorse sociali disponibili nel territorio in cui vivono, che possono risultare utili per affrontare esigenze personali e familiari nelle diverse fasi della vita.

In particolare l'attività di segretariato sociale è finalizzata a garantire: unitarietà di accesso, capacità di ascolto, funzione di orientamento, funzione di filtro, funzioni di osservatorio e monitoraggio dei bisogni e delle risorse, funzione di trasparenza e fiducia nei rapporti tra cittadino e servizi, soprattutto nella gestione dei tempi di attesa nell'accesso ai servizi.

È quindi un livello informativo e di orientamento indispensabile per evitare che le persone esauriscano le loro energie nel procedere, per tentativi ed errori, nella ricerca di risposte adeguate ai loro bisogni. A questo scopo occorre in particolare evitare che proprio i cittadini più fragili e meno informati vengano scoraggiati nella ricerca di aiuto a fronte di barriere organizzative e burocratiche che comunque vanno rimosse per ridurre le disuguaglianze nell'accesso.

Sul piano organizzativo occorre quindi istituire in ogni àmbito territoriale, definito ai sensi degli articoli 6 e 8, comma 3 lettera a) della legge n. 328/2000, una «porta unitaria di accesso» al sistema dei servizi, tale da essere accogliente nei confronti della più ampia tipologia di esigenze e tecnicamente capace di assolvere le funzioni sopra indicate.

Nel piano di zona vanno individuate le soluzioni più idonee per unificare non solo l'accesso ai servizi sociali ma, più in generale, l'accesso al sistema dei servizi sociosanitari presenti nell'àmbito dei distretto, tramite accordi operativi con l'azienda sanitaria, ai sensi dell'art. 3-quater del D.Lgs. n. 229/1999.

La funzione di segretariato sociale risulterà tanto più efficace quanto sarà progettata e attuata in modo collaborativo con tutti gli attori sociali della rete e in particolare con le organizzazioni solidali presenti nel territorio, cioè con le forme di cittadinanza attiva nella tutela dei soggetti deboli e nella promozione dei loro diritti.

Il cittadino rivolgendosi al segretariato sociale, oltre ad avere informazione, e orientamento nel sistema di offerta pubblica, solidaristica e di auto-aiuto presente nel welfare locale, potrà avere informazioni anche sui soggetti privati che erogano servizi a pagamento, sulle tariffe praticate e sulle caratteristiche dei servizi erogati.

Per svolgere le funzioni di segretariato sociale è necessario disporre di professionalità idonee, dotate delle competenze necessarie per riconoscere le ricadute organizzative, gestionali nonché le implicazioni tecnico-professionali di quanto viene proposto al cittadino.

Le funzioni del servizio sociale professionale sono finalizzate alla lettura e decodificazione della domanda, alla presa in carico della persona, della famiglia e/o del gruppo sociale, all'attivazione ed integrazione dei servizi e delle risorse in rete, all'accompagnamento e all'aiuto nel processo di promozione ed emancipazione, in riferimento al dettato dell'articolo 22 della legge n. 328/2000.

Per qualificare le scelte finalizzate all'integrazione socio-sanitaria è necessario garantire unitarietà al processo programmatorio rendendo tra loro compatibili le scelte previste dal Programma delle attività territoriali (di cui all'articolo 3-quater del D.Lgs. n. 229/1999) e dal Piano di zona (di cui all'articolo 19 della legge n. 328/2000.) Il Programma delle attività territoriali è il piano di salute distrettuale in cui sono definiti i bisogni prioritari e gli interventi di natura sanitaria e sociosanitaria necessari per affrontarli. Allo stesso tempo il Piano di zona è lo strumento per definire le strategie di risposta ai bisogni sociali e sociosanitari. È pertanto necessario che i due strumenti siano gestiti all'interno di un'unica strategia programmatoria, attuata in modo collaborativo tra azienda sanitaria ed enti locali, finalizzata alla promozione e alla tutela della salute delle persone e delle famiglie.

Con riguardo alle innovazioni introdotte con i «titoli per l'acquisto dei servizi sociali», già sperimentati in alcuni comuni ed espressamente previsti dall'articolo 17 della legge n. 328/2000, i comuni possono diversificare gli interventi assicurati dal sistema integrato prevedendo la concessione, su richiesta dell'interessato, di buoni-servizio utilizzabili per «acquistare» servizi da uno degli erogatori (pubblici o privati) accreditati ai sensi della legge n. 328/2000, operanti sul territorio. I comuni possono assegnare i buoni servizio anche come alternativa a proprie prestazioni economiche. L'obiettivo è introdurre una maggiore libertà di scelta in merito a come e da chi farsi assistere (elementi sempre più essenziali per un servizio di qualità), all'interno di un sistema regolato in maniera tale da non produrre esiti negativi sotto il profilo dell'equità e dell'appropriatezza degli interventi. A tal fine la legge n. 328/2000, nell'introdurre i «titoli per l'acquisto dei servizi sociali» precisa che essi dovranno essere forniti «nell'àmbito di un percorso assistenziale attivo per la integrazione o la reintegrazione sociale dei soggetti benefìciari».

La conoscenza dei bisogni è indispensabile sia per una adeguata programmazione degli interventi, sia per il monitoraggio e la valutazione delle politiche. Perciò i diversi livelli di governo, oltre a partecipare al sistema informativo dei servizi sociali di cui all'articolo 21 della legge n. 328/2000 e al punto 7, Parte III di questo Piano, si dotano di strumenti di verifica periodica dei bisogni della popolazione e della adeguatezza delle risposte ad essa forniti.

Va privilegiata l'adozione di modelli organizzativi e di gestione orientati ai risultati, così da rendere possibile la gestione per processi, con le relative fasi di controllo e di valutazione. Anche per questo vanno richiamate le norme già in vigore per gli enti in materia di controllo di gestione, norme che valorizzano proprio i risultati, riducendo la «centralità» della prestazione.

Potrebbero essere inoltre introdotti anche strumenti per la diffusione e il confronto delle «buone pratiche», utilizzabili nella logica dell'apprendimento continuo (learning organisation) e all'interno dei sistemi premianti.

2 - La programmazione partecipata

I piani regionali

Le Regioni sono chiamate ad esercitare un ruolo incisivo nella programmazione dei servizi alle persone, attraverso la predisposizione di piani regionali secondo i tempi stabiliti dall'articolo 18, comma 6, e le modalità previste dall'articolo 3 della legge n. 328/2000, volti a selezionare le priorità, a definire le risorse disponibili, a precisare le modalità di funzionamento del sistema integrato e a verificare i risultati raggiunti.

Il Piano di Zona

In base al principio di sussidiarietà, lo sviluppo del sistema integrato di interventi e servizi sociali spetta, negli ambiti definiti dalle regioni e compatibilmente con le risorse disponibili, ai Comuni associati.

Il Piano di Zona, PdZ,è lo strumento fondamentale attraverso il quale i Comuni, con il concorso di tutti soggetti attivi nella progettazione, possono disegnare il sistema integrato di interventi e servizi sociali con riferimento agli obiettivi strategici, agli strumenti realizzativi e alle risorse da attivare.

La legge n. 328/2000 specifica (art. 19, comma 2), le finalità strategiche del Piano di Zona, il quale è volto a:
- «favorire la formazione di sistemi locali di intervento fondati su servizi e prestazioni complementari e flessibili....»,
- «responsabilizzare i cittadini nella programmazione e nella verifica dei servizi»,
- «qualificare la spesa, attivando risorse, anche finanziarie, derivate dalla concertazione» con i soggetti interessati,
- «definire criteri di ripartizione della spesa a carico di ciascun comune, delle aziende unita sanitarie locali e degli altri soggetti firmatari dell'accordo, prevedendo anche risorse vincolate per il raggiungimento di particolari obiettivi»,
- «prevedere iniziative di formazione e di aggiornamento degli operatori...».

La predisposizione del PdZ assume un significato strategico ai fini della precisazione delle condizioni da garantire su tutto il territorio. In tale contesto, vanno valorizzate le esperienze programmatorie degli enti locali, realizzate sia in occasione dell'attuazione della legge n. 285/1997 sia nei limitati (ma significativi) casi di predisposizione di documenti analoghi, laddove previsti dalle normative regionali.

In particolare, pare utile richiamare alcuni aspetti generali in grado di qualificare il processo di pianificazione:

- il processo non deve essere visto in termini meramente amministrativi (e di adempimento formale), ma deve prevedere l'attivazione di azioni responsabilizzanti, concertative, comunicative che coinvolgano tutti i soggetti in grado di dare apporti nelle diverse fasi progettuali;
- l'attenzione va concentrata, in primo luogo, sui bisogni e sulle opportunità da garantire e, solo in secondo luogo, sul sistema di interventi e servizi da porre in essere;
- devono essere valorizzate le risorse e i fattori propri e specifici di ogni comunità locale e di ogni àmbito territoriale: ciò al fine non solo di aumentare l'efficacia degli interventi, ma anche di favorire la crescita delle risorse presenti nelle singole realtà locali;
- particolare attenzione deve essere riservata, sin dalle prime fasi della programmazione, alle condizioni tecniche e metodologiche che consentono di effettuare (successivamente) valutazioni di processo e di esito;
- vanno puntualmente definite le responsabilità, individuando, negli «accordi di programma», gli organi e le modalità di gestione ed esplicitando le azioni da porre in essere nei confronti dei soggetti eventualmente inadempienti.

La predisposizione del PdZ può essere articolata nelle seguenti fasi metodologiche:
a) attivazione della procedura, prevedendo il coinvolgimento di tutti i soggetti interessati e la definizione dei singoli ruoli,
b) ricostruzione della «base conoscitiva», ai fini dell'analisi dei bisogni e della conoscenza dell'esistente,
c) individuazione degli obiettivi strategici,
d) precisazione dei contenuti, con riferimento a quanto indicato all'articolo 19, comma 1 della legge n. 328/2000,
e) approvazione del PdZ e sottoscrizione di un'«accordo di programma», ai sensi dell'articolo 27 della legge n. 142/1990 e successive modificazioni.

3 - Il finanziamento delle politiche sociali

La legge n. 328/2000 costituisce, anche dal punto di vista delle risorse finanziarie disponibili, una svolta significativa rispetto alla precedente visione frammentaria, discontinua e settoriale del finanziamento delle politiche sociali. L'istituzione del Fondo Nazionale per le Politiche Sociali, FNPS, pone infatti le basi per una concreta, complessiva programmazione degli interventi.

Il FNPS è alimentato, attraverso stanziamenti di bilancio, a carico della fiscalità generale, da un insieme di fonti che, originariamente disciplinate da una pluralità di disposizioni legislative, contribuiscono alla formazione dell'ammontare complessivo delle risorse specificamente destinate alle politiche sociali.

Nel triennio 2001-2003, le risorse complessivamente confluite al fondo sono determinate in relazione a quanto previsto dalle leggi di settore. Nella tabella di seguito riportata sono indicate le risorse destinate alle politiche sociali per il triennio di validità del Piano. Gli importi comprendono anche le risorse relative a interventi e a specifiche fiscalizzazioni la cui destinazione funzionale è già definita da provvedimenti legislativi ovvero si riferiscono a benefìci economici la cui erogazione risulta già attribuita per via legislativa ad altri enti (in particolare, assegni di maternità e assegni al nucleo familiare). Sono per contro esclusi gli assegni agli invalidi civili.

Per quanto ancora inadeguato rispetto ai livelli di molti altri paesi sviluppati dell'Unione Europea, le innovazioni introdotte nel corso dell'ultimo quinquennio in materia di assistenza consentono di garantire alle politiche sociali un ammontare di risorse in continua crescita.

Risorse destinate alle politiche sociali per il triennio 2001-2003

(omissis)

3.1 - Schema generale del processo di allocazione delle risorse

L'innovazione introdotta con l'istituzione del FNPS impone la definizione ex novo di un meccanismo di allocazione delle risorse, fra settori di intervento e fra aree territoriali, che tenga conto dei bisogni complessivi delle diverse realtà geografiche e degli obiettivi prioritari definiti dalla programmazione nazionale e locale.

Lo schema generale del processo di allocazione delle risorse finanziarie destinate alla realizzazione degli obiettivi di politica sociale è delineato come segue.

La metodologia di riparto è definita tenuto conto dell'insieme delle risorse disponibili per i procedimenti di riallocazione. A tal fine sono considerati gli stanziamenti previsti per il FNPS, compresi quelli disponibili in base alle disposizioni legislative di cui all'articolo 80, comma 17, della legge finanziaria per l'anno 2001. Particolare attenzione è riservata alle esigenze di:
- evitare sovrapposizioni nel finanziamento di specifici settori o programmi di intervento (articolo 20, comma 5, lettera a, della legge n. 328/2000),
- garantire opportune integrazioni ai settori e ai programmi di intervento che, pur benefìciando di risorse assicurate da specifiche leggi di settore, accedono al FNPS, nel rispetto degli equilibri generali e compatibilmente con le disponibilità complessive.

Con riferimento alle procedure operative, la metodologia proposta è volta a favorire:
- la semplificazione delle procedure di assegnazione delle risorse (in coerenza con quanto previsto dall'articolo 20, comma 5, lettera a, della legge n. 328/2000), prevedendo il riparto in un'unica soluzione, ai sensi dell'articolo 80;comma 18, della legge finanziaria per l'anno 2001,
- la funzionalità rispetto alle esigenze di programmazione degli enti decentrati, prevedendo tempi e modalità tali da consentire alle Regioni e agli enti locali di conoscere
i) con certezza,
ii) con sufficiente anticipo,
iii) su un orizzonte temporale tendenzialmente triennale,
le risorse disponibili, sulla base delle quali procedere alla programmazione delle politiche,

- la trasparenza delle procedure, con riferimento sia alla ricognizione degli stanziamenti previsti dai diversi provvedimenti normativi, sia ai criteri adottati per la loro allocazione (fra settori di intervento e fra aree territoriali),
- la snellezza della metodologia adottata, garantendo il miglior equilibrio possibile fra semplicità delle procedure e completezza degli elementi considerati.

Con riferimento alla metodologia di allocazione, lo schema logico propone un riparto a due livelli, per aree di intervento e per aree territoriali:
- per aree di intervento, con riguardo alla articolazione degli interventi in base ai bisogni da soddisfare (evitando, in linea di principio, il riparto in base ai servizi da erogare),
- per aree territoriali, con riguardo alle dimensioni della popolazione destinataria dei programmi di intervento (o di suoi sotto-insiemi), opportunamente corretta secondo i fattori di correzione di seguito individuati sulla base di quanto previsto dalla n. 328/2000.

Con riferimento ai criteri e ai parametri di riparto, per il primo triennio di validità del Piano Nazionale Sociale la metodologia è definita con riferimento a:
- gli obiettivi di priorità sociale individuati per il periodo 2001-2003,
- l'esigenza di assicurare un congruo ammontare di risorse per l'attuazione della legge quadro e per l'avvio del sistema integrato di interventi e servizi sociali,
- i criteri generali (demografici, economici e occupazionali) indicati dall'articolo 18, comma 3, lettera n) della legge n. 328/2000,
- le statistiche disponibili (con riferimento all'ultimo dato noto) circa gli elementi demografici, economici e occupazionali di cui all'articolo 18, comma 3, lettera n) della legge n. 328/2000.

Con riferimento alle esigenze di sostegno e incentivazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali, la metodologia di riparto prevede quote di risorse specificamente destinate a:
- incentivare l'associazionismo degli enti locali, in particolare dei comuni, ai sensi dell'articolo 20, comma 5, lettera b) della legge n. 328/2000, anche tenuto conto dell'inadeguatezza della dimensione comunale per una efficiente organizzazione di molti servizi e programmi di intervento,
- sostenere l'integrazione fra programmi di intervento e fra enti locali, favorendo la realizzazione di reti di servizi.

Con riferimento alle esigenze di responsabilizzazione degli enti che accedono al riparto, la procedura contempla misure volte a:
- garantire che gli stanziamenti a favore delle regioni e degli enti locali costituiscano quote di cofinanziamento dei programmi e dei relativi interventi (ai sensi dell'articolo 20, comma 5, lettera c), della legge n. 328/2000), prevedendo anche modalità di accertamento mediante lo sviluppo del sistema informativo dei servizi sociali,
- prevedere l'adozione di strumenti di analisi, valutazione e verifica delle risorse impiegate, dei programmi svolti e dei risultati raggiunti (ai sensi dell'articolo 20, comma 5, lettera d), della legge n. 328/2000),
- prevedere l'introduzione di procedure per la revoca dei finanziamenti in caso di mancato impegno da parte degli enti destinatari (ai sensi dell'articolo 20, comma 5, lettera e), della legge n. 328/2000.)

Con riferimento ai vincoli di destinazione dei finanziamenti, pare utile precisare che, mentre è assolutamente chiara l'intenzione del legislatore di assicurare esplicitamente la finalizzazione del FNPS alle politiche sociali (e, quindi, di escludere - almeno nel breve-medio periodo - la sua equiparazione agli altri trasferimenti interessati dal provvedimento sul federalismo fiscale di cui al D.Lgs. n. 56/2000), il riparto per aree di intervento è da considerarsi, in fase di prima applicazione e in attesa dell'emanazione del regolamento di cui all'art. 20, comma 5, della legge 8 novembre 2000, n. 328

(salvo diversa indicazione della normativa vigente), indicativo delle priorità definite dalla programmazione nazionale per il triennio 2001-2003 e, in quanto tale, non vincolante per le Regioni, fermo restando l'impegno delle Regioni a:
a) prevedere programmi e azioni in ciascuna delle aree di intervento;
b) garantire che le risorse ripartite non siano sostitutive di quelle già destinate dai singoli enti territoriali.

In particolare ogni regione potrà utilmente prevedere modalità di allocazione fra i diversi settori di intervento (all'interno, ovviamente, delle politiche sociali) che tengano conto dei bisogni specifici della popolazione di riferimento, dello sviluppo esistente (e auspicato) della rete locale dei servizi e delle priorità definite dalla programmazione regionale.

3.2 - Metodologia e criteri di riparto

La metodologia di allocazione delle risorse prevede un riparto per aree di intervento e per aree territoriali.

Ai fini del riparto delle risorse disponibili per il triennio 2001-2003, considerate le priorità individuate dal presente Piano nazionale, sono definite le seguenti macro-aree di intervento:

Aree di intervento1.responsabilità familiari2.diritti dei minori3.persone anziane4.contrasto della povertà5.disabili (in particolare, disabili gravi)6.immigrati7.droga8.avvio della riforma

L'articolazione per aree di intervento corrisponde a quella prevista per i livelli essenziali del sistema integrato (punto 1 della parte III), con l'aggiunta dell'area relativa agli immigrati che in quella sede è considerata (e inserita) trasversalmente (rispetto alle diverse aree), mentre in questa sede è considerata a parte, stante la presenza di una specifica legge di settore che ne dispone il finanziamento.

Il riparto per aree di intervento riflette il principio in base al quale le risorse devono essere allocate agli obiettivi da realizzare (e non alle prestazioni da erogare), posto che le politiche sociali perseguono obiettivi di ben-essere (e non di produzione di servizi); esso è funzionale inoltre all'esigenza di favorire l'integrazione degli interventi all'interno delle singole aree (integrazione infra-settoriale) e fra le diverse aree di intervento (integrazione inter-settoriale).

L'area n. 8 «avvio della riforma» è inserita alla scopo di garantire il finanziamento di azioni e progetti specificamente destinati all'avvio del sistema integrato di interventi e servizi, elaborati dalle regioni o dagli enti locali, finalizzati a:
- lo sviluppo del sistema informativo dei servizi sociali, in una logica di condivisione delle informazioni e di integrazioni dei sistemi informativi dei diversi livelli di governo,
- lo sviluppo di forme di aggregazione e associazione degli enti locali, al fine di evitare diseconomie e duplicazioni di esperienze (articolo 20, comma 5, lettera a, della legge n. 328/2000),
- la sperimentazione di forme innovative di organizzazione ed erogazione degli interventi, anche al fine di assicurare l'effettivo accesso alle categorie più fragili,
- lo sviluppo di programmi di intervento di valenza sovra-regionale o nazionale,
- la realizzazione di progetti obiettivo e di azioni programmate con particolare riferimento alla definizione di percorsi attivi a favore delle persone in condizioni di povertà e di difficoltà psico-fisica (articolo 18, comma 3, lettera b, della legge n. 328/2000),
- la realizzazione di progetti obiettivo finalizzati alla realizzazione di specifici obiettivi individuati come particolarmente prioritari dalla programmazione regionale e locali e pertanto meritevoli di una quota vincolata di finanziamenti,
- il funzionamento del Dipartimento per gli Affari Sociali, per quanto attiene alle funzioni di indirizzo, coordinamento e monitoraggio delle politiche sociali, affidate allo Stato (art. 9, legge n. 328/2000), in relazione all'attuazione della riforma.

In fase di prima applicazione, tenuto conto dei vincoli - soprattutto temporali - che limitano la realizzazione di specifici progetti, le risorse riservate all'area n. 8 «avvio della riforma» sono contenute entro i limiti ritenuti sufficienti a garantire il finanziamento di attività preliminari allo sviluppo dei programmi di intervento.

Il riparto per aree territoriali ha come principale riferimento la popolazione destinataria delle politiche sociali, di volta in volta definita con riguardo alle caratteristiche demografiche, economiche e occupazionali verosimilmente correlate al fabbisogno finanziario delle singole realtà regionali (o locali). Il riferimento alla popolazione, quale criterio principe ai fini del riparto per aree territoriali, rimanda alla quota capitaria di finanziamento, calcolata con riguardo:

a) alla popolazione complessiva, per tutte le aree di intervento destinate alla generalità della popolazione, senza alcuna significativa differenziazione,
b) alla popolazione obiettivo, per tutte le aree di intervento destinate a specifici sotto-insiemi di popolazione, caratterizzati in base alla struttura demografica, la condizione reddituale e occupazionale (articolo 18, comma 3, lettera n, della legge n. 328/2000.)

Ne risulta un riparto per quota capitaria corretta tenuto conto delle diverse caratteristiche della popolazione.

L'individuazione dei parametri di riparto è effettuata assegnando maggiore importanza alla «struttura demografica» della popolazione, rispetto ai livelli di reddito e alle condizioni occupazionali. Tale scelta è motivata da una serie di considerazioni, di principio e tecniche. Innanzitutto, esiste ampio consenso circa il fatto che le caratteristiche socio-demografiche della popolazione (età, genere, tipo e dimensione della famiglia di appartenenza, ecc.) costituiscono il più importante indicatore (e predittore) di bisogno, cui le politiche sociali devono fare riferimento.

In secondo luogo, gli indicatori demografici presentano alcune importanti caratteristiche che ne facilitano (e ne giustificano) l'impiego: sono disponibili in modo sistematico e a livello territoriale disaggregato, sono comprensibili e semplici da utilizzare. Gli indicatori di reddito e di occupazione sono, per contro, meno oggettivi e completi.

Infine, la preferenza accordata ai dati demografici discende dalla convinzione che le esigenze della` persona, all'interno della famiglia, debbono essere al centro dell'attenzione di chi progetta e governa il sistema dei servizi.

Tenuto conto delle considerazioni esposte, lo schema di riparto è sintetizzato nella tavola 3.4.3, il quale riporta anche gli indicatori utilizzabili per la concreta quantificazione della quota di risorse allocabile nelle diverse aree territoriali. Il dettaglio degli indicatori terrà conto delle indicazioni contenute nelle diverse leggi di settore.

In fase di prima applicazione, tenuto conto delle finalizzazioni previste dalle leggi di settore che assicurano - in particolare alle aree immigrati e droga - stanziamenti che possono essere ritenuti adeguati in termini comparativi rispetto alle disponibilità complessive, il riparto funzionale delle risorse indistinte è effettuato sulla base delle quote riportate nella tavola seguente (colonna centrale). La quota proposta per l'area «persone anziane» è definita nel rispetto di quanto previsto dall'articolo 15, comma 1 della legge n. 328/2000 e considerata l'assenza di ogni altro finanziamento riservato nonostante le particolari esigenze del settore.

Tav. n. 3.4 (omissis)

I livelli di governi destinatari del riparto sono le regioni e gli enti locali, secondo le indicazioni della normativa di riferimento.

3.3 - Sostegno e revoca in caso di mancato utilizzo dei finanziamenti

Ai sensi dell'articolo 20, comma 5, lettera d), della legge n. 328/2000, le Regioni e gli enti locali diretti destinatari dei finanziamenti di cui al FNPS predispongono annualmente una relazione sulle attività svolte, sulle risorse impegnate e sui risultati raggiunti.

La relazione è oggetto di ampia pubblicizzazione presso la popolazione e le parti sociali.

La relazione, contenente anche il dettaglio degli stanziamenti erogati da almeno 2 anni e non ancora impegnati, è trasmessa al Dipartimento per gli Affari Sociali della Presidenza del Consiglio dei Ministri. In caso di mancato impegno di parte (o dell'insieme) dei finanziamenti, il Dipartimento per gli Affari Sociali e l'ente destinatario dei finanziamenti costituiscono, entro 3 mesi dall'avvenuta verifica, un Comitato paritetico per l'analisi delle cause del mancato utilizzo delle risorse disponibili e per la individuazione delle possibili forme di accelerazione dei programmi di intervento.

Qualora, a 30 mesi dall'erogazione degli stanziamenti, le somme risultassero ancora non impegnate, l'ente che ha provveduto al trasferimento è tenuto, ai sensi dell'articolo 20, comma 5, lettera d), della legge n. 328/2000, a procedere alla revoca degli stanziamenti stessi. Della revoca è data ampia pubblicizzazione presso la popolazione dell'area territoriale interessata. Le somme revocate sono riallocate fra tutti i destinatari; esse possono altresì essere destinate alle aree e alle amministrazioni alle quali sono state revocate, per il finanziamento di programmi speciali volti a superare gli ostacoli che precedentemente hanno impedito lo sviluppo dei programmi di intervento.

4 - La qualità del sistema integrato di interventi e servizi sociali

Le Regioni hanno da tempo regolamentato in varie forme la qualità dei servizi socio-assistenziali e socio-educativi. Questo complesso di norme, procedure e strumenti valgono nel territorio di riferimento e spesso per singoli settori d'intervento.

Nell'àmbito sociale, lo sviluppo dal basso dell'iniziativa dei cittadini, delle associazioni, del volontariato e delle imprese si fonda da un lato sull'autonoma capacità dei soggetti di «fare qualità» e dall'altro su una visione condivisa degli elementi qualificanti dei servizi sociali. La concertazione, già ampiamente sperimentata per la programmazione dei servizi, è altrettanto importante per la valutazione e lo sviluppo di un sistema di qualità, che si basa su valori comuni, regole condivise e controlli imparziali.

Infine, le regole per la qualità che si vanno determinando in àmbito pubblico riguardano per lo più i servizi sociali essenziali di cui l'Ente Locale è titolare e che sono definiti nei piani regionali. Tranne poche esperienze esemplari, finora le Regioni e gli Enti Locali non sono ancora intervenuti per regolare la qualità dei servizi che i cittadini e le famiglie acquistano direttamente e/o organizzano in proprio avvalendosi di personale non sempre inquadrato con contratti appropriati. In particolare, quando a questo personale viene affidata l'assistenza a domicilio di anziani con ridotta autonomia (diurna o continuativa) e l'assistenza educativa dei bambini (singoli o in gruppi), il servizio assume un carattere sociale che deve sottostare a princìpi di qualità, a tutela delle persone che ne usufruiscono. In tale contesto, devono essere avviate politiche che utilizzino incentivi mirati alle famiglie che acquistano servizi alla persona accreditati dal pubblico. Tale scelta, da un lato favorisce l'emersione del lavoro sommerso e, dall'altro, consente di affermare nel concreto che la qualità dei servizi è strettamente legata alla qualità del lavoro impiegato. Ciò implica una progettualità integrata fra i servizi per l'impiego, i servizi per la formazione professionale e i servizi alla persona.

Si tratta allora di costruire un «sistema qualità sociale», inteso come insieme di regole, procedure, incentivi e controlli atti ad assicurare che gli interventi e i servizi sociali siano orientati alla qualità, in termini di adeguatezza ai bisogni, efficacia dei metodi e degli interventi, uso ottimale delle risorse impiegate, sinergie con servizi e risorse del territorio, valutazione dei risultati, apprendimento e miglioramento continuo.

A tal fine, le Regioni e gli Enti Locali:
- individuano la tipologia dei servizi da includere nel sistema per la qualità sociale,
- promuovono sedi di concertazione sui princìpi generali ispiratori della qualità dei diversi interventi e servizi sociali, invitando tutti i soggetti interessati al sistema, enti pubblici, produttori privati, professionisti del sociale e rappresentanti dei cittadini fruitori dei servizi,
- definiscono le norme per l'autorizzazione al funzionamento e le norme per l'accreditamento, operando, ove possibile, L'accorpamento in un testo unico delle molteplici normative, procedure e adempimenti richiesti ai produttori di servizi,
- individuano i soggetti istituzionali, le metodologie e gli strumenti, atti a controllare l'applicazione delle norme in modo omogeneo sul territorio regionale, trasparente e imparziale,
- programmano e attuano piani di formazione e di incentivazione, ai fini di favorire e sostenere l'applicazione delle norme e diffondere una cultura della qualità sociale,
- adottano propri strumenti di valutazione della qualità dei servizi, del funzionamento e dell'impatto del sistema qualità.

Contestualmente all'adozione di norme che definiscano i requisiti professionali degli operatori addetti ai servizi, le Regioni programmano piani di formazione professionale finalizzati a:

1) garantire agli utenti livelli di professionalità tendenzialmente omogenei,
2) consentire agli operatori in servizio di ottenere titoli professionali riconosciuti a livello nazionale,
3) assicurare agli enti che gestiscono servizi di poter reperire sul mercato del lavoro locale la quantità e qualità di personale richiesto dalle norme.

5 - Rapporti tra enti locali e terzo settore

L'attuale sistema di erogazione dei servizi sociali è fortemente incentrato sulla relazione tra ente locale e terzo settore. Per questo la legge di riforma introduce rispetto al tema della esternalizzazione dei servizi sociali rilevanti novità, definendo le diverse funzioni svolte dagli enti pubblici e dal privato sociale, riconoscendo espressamente al privato sociale un ruolo in termini di co-progettazione dei servizi e di realizzazione concertata degli stessi.

Coerentemente a questa impostazione, e riconoscendo una grande crescita del terzo settore, gli enti locali dovranno ricorrere a forme di aggiudicazione dei servizi che «consentano ai soggetti operanti nel terzo settore di esprimere pienamente la propria progettualità». Questo significa privilegiare, ove possibile e funzionale, il ricorso all'appalto concorso, lo strumento che più di ogni altro consente la progettualità dei partecipanti e la possibilità di valutare la qualità delle prestazioni offerte e del personale che si propone di impiegare.

Nel procedere alla valutazione dei servizi esternalizzati, gli enti locali dovranno accogliere una concezione di valutazione che si distingua nettamente dal concetto di adeguamento a standard, assumendo parametri riferiti all'efficacia, all'efficienza e ai risultati degli interventi.

La legge di riordino dei servizi sociali, nel ribadire implicitamente il divieto delle gare al massimo ribasso nell'àmbito dei servizi alla persona, ha assegnato alle regioni importanti funzioni di regolazione delle modalità di interazione tra enti pubblici e terzo settore.

Alle regioni sono, infatti, assegnate due funzioni estremamente delicate: definire gli indirizzi per regolare i sistemi di affidamento dei servizi alla persona e definire le modalità con cui valorizzare il volontariato.

La funzione regolativa della regione è opportuno si fermi alla indicazione in generale dei parametri da considerare per la valutazione delle offerte, lasciando ad ogni singolo ente appaltante di definire quali siano in concreto i criteri di scelta da adottare e gli indicatori da predefinire: una previsione analitica da parte della regione dei criteri e degli indicatori per la individuazione del soggetto cui affidare l'erogazione dei servizi alla persona, infatti, sarebbe incoerente con le finalità di flessibilità e di negozialità contenute nella legge di riordino.

Per ogni tipo di servizio e per ogni singola gara d'appalto, del resto, è necessario che l'ente appaltante ridefinisca i criteri di scelta, gli indicatori di riferimento e il sistema di ponderazione.

Rispetto al tema della valorizzazione dell'apporto del volontariato nell'erogazione dei servizi, la legge di riforma non innova rispetto a quanto previsto dalla legge n. 266/1991, che non prevede che le organizzazioni di volontariato vendano servizi in un regime di convenzionamento che leghi la quantità di prestazioni ad un corrispettivo.

Nell'affidamento al volontariato di interventi o servizi, l'ente locale dovrà dunque prevedere nella convenzione una modalità di rimborso spese coerente con le caratteristiche di gratuità e solidarietà che caratterizzano le organizzazioni di volontariato. L'ente locale potrà evidentemente anche erogare contributi alle organizzazioni di volontariato.

Al fine di favorire un corretto rapporto tra enti locali e terzo settore, le regioni sono chiamate ad istituire gli albi regionali di soggetti autorizzati all'esercizio dei servizi socio-assistenziali sulla scorta di una valutazione di indicatori oggettivi di qualità. La definizione degli indicatori rappresenterà per le regioni un grande impegno anche culturale, oltre che una occasione per intervenire molto concretamente nel mercato delle imprese sociali: è dunque opportuno che la definizione dei requisiti avvenga in modo partecipato, attraverso un processo di individuazione di caratteristiche di qualità che ad una istruttoria tecnica faccia seguire una successiva fase di confronto e validazione che coinvolga sia il pubblico che il privato sociale.

6 - La carta dei servizi sociali

La carta dei servizi sociali, intesa e realizzata come «carta per la cittadinanza sociale», non si limita a regolamentare l'accesso ai servizi riproducendo la logica dei soggetti erogatori, ma si concentra sulle persone che hanno bisogno di accedere ai servizi. In tal senso la carta dei servizi sociali viene a caratterizzarsi come percorso progettuale finalizzato a conseguire gli obiettivi di promozione della cittadinanza attiva, consapevole nella popolazione, nelle istituzioni e nei servizi. Il termine «

cittadinanza» si collega strettamente ai diritti che ogni persona ritiene le debbano essere riconosciuti nella vita quotidiana e nelle situazioni di bisogno. La logica dei diritti sociali nella carta per la cittadinanza si collega strettamente con la logica dei doveri o meglio ancora dell'incontro tra diritti e doveri sociali.

Con riferimento ai contenuti, la carta dovrà prevedere:

- le condizioni per un patto di cittadinanza sociale a livello locale,
- i percorsi e le opportunità sociali disponibili,
- la mappa delle risorse istituzionali e sociali,
- i livelli essenziali di assistenza previsti,
- gli standard di qualità da rispettare,
- le modalità di partecipazione dei cittadini,
- le forme di tutela dei diritti, in particolare dei soggetti deboli,
- gli impegni e i programmi di miglioramento,
- le regole da applicare in caso di mancato rispetto degli standard.

Ogni comune, in quanto responsabile dell'offerta dei servizi sociali, deve adottare una propria «carta», nella quale saranno riflessi i suoi orientamenti e le sue possibilità. Al fine di favorire una certa omogeneità, è opportuno che le carte abbiano un «nocciolo» di contenuti comuni. In particolare è necessario che, almeno per i tipi di prestazioni più diffuse, alcuni indicatori siano definiti a livello nazionale, ferma restando la possibilità di affinarli e integrarli in sede locale e, soprattutto, fermo restando l'esclusiva responsabilità delle amministrazioni comunali nella determinazione dei valori (e quindi nella concreta determinazione degli standard di qualità). A tale esigenza corrisponderà la produzione dello Schema di riferimento che il Dipartimento per gli Affari Sociali dovrà presentare, nonché l'eventuale implementazione che potranno farne le regioni.

Di particolare rilevanza è il processo di costruzione delle carte. In primo luogo esso costituisce una preziosa occasione di coinvolgimento della collettività, con la quale potranno essere confrontati i princìpi cui si ispirano le strategie di offerta e negoziati gli standard di qualità e gli strumenti in caso di mancato rispetto. Così facendo si potrà dar corpo all'affermazione secondo la quale le carte costituiscono un «patto» tra i comuni e i cittadini. In secondo luogo, la loro costruzione costituisce una preziosa occasione di verifica, all'interno delle amministrazioni, dello stato dei servizi sociali e delle possibilità di miglioramento, dando cosi corpo all'affermazione secondo la quale le carte costituiscono uno strumento, oltre che di tutela dei cittadini, di crescita organizzativa.

La legge n. 328/2000 stabilisce che l'adozione della carta dei servizi sociali da parte degli erogatori è condizione per il loro accreditamento. Evidentemente tale previsione non può essere riferita alle amministrazioni comunali e sta piuttosto ad indicare che anche i gestori dei servizi - in quanto diversi dalle amministrazioni comunali - devono dotarsi, ognuno, di una propria carta. Il contenuto di quest'ultima, peraltro, deve essere diverso da quello fin qui considerato: le «carte» dei soggetti in questione devono contenere impegni (nei confronti dei comuni) riferiti al possesso di strumenti e al rispetto di regole di funzionamento coerenti con un effettivo «orientamento alla qualità», caratterizzandosi dunque per la presenza di standard di tipo organizzativo. In ogni caso si deve escludere che gestori dei servizi diversi dalle amministrazioni comunali stabiliscano, essi stessi, gli standard di qualità delle prestazioni. Anche nel caso di gestioni «esterne», infatti, questi ultimi devono restare di competenza dei comuni che, al riguardo, potranno procedere come segue: definire un insieme di indicatori e valori di base; sollecitare quanti competono per l'affidamento di un servizio a formulare proposte migliorative; convalidare la proposta contenuta nell'offerta più rispondente al proprio insieme di obiettivi e di vincoli, assumendone a tutti gli effetti la responsabilità nei confronti dei cittadini.

7 - Il sistema informativo dei servizi sociali

Il sistema informativo dei servizi sociali (Siss) risponde alle esigenze della programmazione, della gestione e della valutazione delle politiche sociali. È strumento di conoscenza di fondamentale importanza per gli operatori, i responsabili delle politiche (ai diversi livelli) e i cittadini. La sua funzione non è (solo) quella di descrivere le risorse impiegate e le attività svolte nelle diverse articolazioni territoriali e organizzative, ma (soprattutto) quella di facilitare la lettura dei bisogni e di sostenere il processo decisionale a tutti i livelli di governo, sulla base di una rigorosa analisi delle attività e dei risultati raggiunti rispetto ai risultati attesi e alle esigenze della popolazione. La disponibilità di informazioni è inoltre funzionale alla diffusione della cultura del confronto e alla valutazione comparativa delle esperienze e dei risultati.

Lo sviluppo del Siss deve prevedere il potenziamento della produzione statistica ufficiale nell'àmbito delle indagini presso le famiglie e presso le istituzioni (pubbliche e private). Le rilevazioni statistiche ufficiali presso le famiglie devono permettere di valutare la rete degli aiuti che i cittadini ricevono dal settore sociale (pubblico e privato), e degli aiuti informali (familiari e non) che i cittadini si scambiano, nonché i bisogni emergenti. Le rilevazioni ufficiali presso le istituzioni devono garantire un flusso di informazioni continuo rispetto all'offerta dei servizi, con particolare riferimento ai servizi attivati localmente per i diversi soggetti sociali (bambini, anziani, disabili, ecc).

Specifica attenzione dovrà essere dedicata ai sistemi di rendicontazione degli enti locali (in particolare, ai bilanci dei Comuni) al fine di renderli più funzionali alla rilevazione delle informazioni sulla spesa e sulle attività sociali.

Per sviluppare la massima potenzialità, il sistema informativo dei servizi sociali (Siss) dovrà essere organicamente collegato, fra l'altro, al sistema informativo sanitario (Sis) e a quello europeo (Eurostat).

Fra le funzioni specifiche del Siss, assumono particolare rilievo:
a) il monitoraggio dei livelli essenziali di cui all'articolo 22 della legge n. 328/2000;
b) il monitoraggio di specifiche misure di intervento promosse dalle politiche sociali, in particolare il Reddito minimo di inserimento (Rmi) e il Reddito minimo per la disabilità;
c) l'analisi della qualità dei servizi e della loro effettiva rispondenza ai bisogni da soddisfare, anche attraverso l'utilizzo di un insieme (essenziale) di indicatori collegati al sistema delle Carte dei servizi sociali.

Per essere funzionale alle esigenze di governo delle politiche sociali, il Siss deve essere essenziale ovvero disegnato in modo da evitare la proliferazione delle informazioni e l'inflazione di dati. Particolare attenzione dovrà essere riservata alle esigenze di flessibilità e tempestività, evitando di sacrificarle alle richieste di esaustività e completezza. Il modello di funzionamento dei flussi informativi (chi rileva le informazioni, con chi e come sono condivise, come sono trattate ed elaborate, come sono aggregate, come ritornano a chi le ha prodotte) deve essere improntato ad estrema chiarezza, entro una logica sufficientemente decentrata, perché è a livello locale che si gioca l'affidabilità del sistema.

Al fine di evitare la sovrapposizione o (addirittura) la contrapposizione di più sistemi informativi (uno o più nazionali, tanti regionali, tanti locali) è essenziale che i diversi soggetti (ai diversi livelli di governo) si integrino e condividano il disegno complessivo del Siss. In particolare, la partecipazione di tutti gli attori alla costruzione del sistema, favorendo il superamento dei limiti propri della visione da mero debito informativo, è garanzia di collaborazione allo sviluppo del sistema e fonte di fertili aspettative nei suoi confronti. A tutti i livelli di governo, il bilancio informativo fra, da un lato, i dati che si rilevano o si acquisiscono e, dall'altro, le conoscenze che si ricavano o si restituiscono, deve essere rispettato, caratterizzando in senso circolare i rapporti tra i diversi attori coinvolti (all'interno degli enti e tra centro e periferia).

È essenziale che alla definizione dell'architettura del Siss collaborino esperti di politiche sociali (in particolare, di valutazione di programmi e servizi), esperti statistici (in particolare dell'Istat, in modo da sviluppare sinergie e omogeneità), esperti di sistemi informativi (in modo da garantire lo sviluppo di connessioni di rete, in un'ottica di interoperabilità funzionale), responsabili delle politiche sociali e, in primo luogo, responsabili locali (perché la partecipazione di chi produce e utilizza le informazioni è condizione indispensabile per la qualità del sistema). È inoltre necessario che essi sappiano cogliere (in una logica di costante ascolto) i fabbisogni conoscitivi delle principali istituzioni interessate, inclusa la Commissione di Indagine sull'Esclusione Sociale.


Homepage / Indice / Argomenti / Normativa /