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BOULEVARD

L'Ombra delle Reti

EPISTEMOLOGIA E ONTOLOGIA VIRTUALI

 

I sensi costituiscono l'interfaccia fra l'oggettività della realtà e la soggettività della coscienza. Nuove interfacce sensoriali, come quelle promesse (o minacciate) dalla Realtà Virtuale, possono quindi modificare la nostra concezione del mondo (sia esterno che interno), e introdurre una nuova prospettiva nel dibattito filosofico.


Il problema epistemologico

L'ipotesi che le percezioni colleghino oggetti percepiti a soggetti percepenti fu il punto di partenza per l'indagine filosofica greca del mondo. Il primo problema che si pose fu determinare di quale natura sia tale collegamento.

Le risposte possibili sono molteplici: in sintesi, si può credere che le percezioni sensoriali siano sempre corrette, sempre errate, o a volte corrette e a volte errate.

La posizione più immediata è la prima: le percezioni sono sempre corrette, e quindi tutto è come appare. Essa fu sostenuta implicitamente dalla scuola ionica-naturalista (VI secolo a.C.), ed esplicitamente da Eraclito (VI secolo a.C.). Protagora (V secolo a.C.) la espresse però in modo tanto memorabile (con il motto: "l'uomo è la misura di tutte le cose"), che le discussioni nel Teeteto di Platone e nel libro IV della Metafisica di Aristotele si riferiscono principalmente a lui. E' comunque evidente che uno stesso oggetto può provocare percezioni fra loro contraddittorie in soggetti diversi allo stesso tempo, o nello stesso soggetto in tempi diversi. La posizione che le sensazioni siano sempre corrette porta dunque ad un rifiuto dei principi di non contraddizione e del terzo escluso da un lato, e del concetto di identità dall'altro. Questi rifiuti sono espliciti in Eraclito, che espresse in modo particolarmente significativo l'ultimo (con il motto: "non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume'').

Parmenide (V secolo a.C.) diede avvio ad una critica della posizione precedente basata proprio su queste sue implicazioni, ed oppose alla logica del divenire (concreto) una logica dell'essere (astratto). Il fatto che quest'ultima si chiami oggi 'classica' mostra a sufficienza quale di esse ebbe il sopravvento, e servì da base per gli sviluppi della filosofia occidentale (fino ad Hegel, che segnò un ritorno alla logica di Eraclito), ma nasconde il fatto che essa non è la logica della 'realtà' immediata.

L'accettazione dei principi della logica classica non permette più di considerare la realtà come coincidente con l'apparenza, ma non appena esse si separano tutto si complica. Infatti, poichè l'apparenza può allora sia nascondere la realtà che rivelarla, l'epistemologia diventa duplicemente problematica: si tratta di capire da un lato che ruolo assegnare all'apparenza, e dall'altro come conoscere la realtà.

Se le percezioni sono sempre errate allora niente è come appare. Questa è la posizione di Platone (428-347 a.C.): nel mito della caverna (libro VII della Repubblica) l'apparenza è vista come una proiezione distorta della realtà, e quindi la conoscenza deve essere fondata non sui sensi ma sulla ragione.

Se le percezioni sono a volte corrette e a volte errate allora non tutto è come appare, e si tratta di stabilire quando lo sia. Questa è la posizione di Aristotele (384-322 a.C.): le percezioni sono dati da elaborare, e la conoscenza viene raggiunta mediante un processo che fa intervenire sia i sensi che la ragione.



Il problema ontologico

La separazione fra apparenza e realtà rende problematica non solo l'epistemologia, ma anche l'ontologia: si tratta infatti di capire di che cosa consista la realtà.

Come al solito, le risposte possibili sono molteplici: ad esempio, secondo Platone esistono gli universali (i concetti), secondo Aristotele i particolari (gli oggetti). Queste risposte, benchè antitetiche, concordano però in almeno un punto: l'apparenza sensibile è in qualche modo causata da una realtà che esiste in modo indipendente da essa.

Il pensiero greco non arrivò infatti mai a concepire la sola posizione che permette di formulare il dubbio ontologico sull'esistenza della realtà: il porre cioË la coscienza come soggetto che è (almeno come possibilità) indipendente dal mondo. Questa posizione fu invece congeniale al pensiero indiano, nella cui storia la negazione del mondo è la tendenza dominante (benchè , ovviamente, non certo esclusiva).

Una volta introdotto un potenziale dualismo fra coscienza (interna) e mondo (esterno), si presentano quattro soluzioni possibili al problema ontologico: entrambi esistono, solo uno di essi esiste, e nessuno esiste.

La posizione che prende più sul serio la coscienza è il monismo idealista: solo la coscienza esiste. Essa fu introdotta dalle Upanishad (VIII-V secolo a.C.), e sistematizzata nel Vedanta, in particolare da Shankara (IX secolo d.C.): la coscienza individuale (atman) coincide con quella cosmica (brahman), mentre il mondo delle apparenze è pura illusione (maya), un gioco che la coscienza gioca con se stessa. L'unione dell'atman con il brahman si può raggiungere con un graduale distacco ascetico dal mondo (fino alla rinuncia totale), unito ad una concentrazione sulla coscienza (che si ottiene, in particolare, pronunciando l'om).

Il distacco dal mondo non sembra però essere una conseguenza logica dell'illusorietà di questo: e infatti l'induismo della Bhagavad Gita (II secolo d.C.), partendo da premesse analoghe al brahmanesimo (in cui però il brahman è personificato nel dio Vishnu), non solo permetterà, ma addirittura suggerirà di abbandonarsi all'incomprensibile gioco, purchè si mantenga uno spirito di distanza da esso.

La sostanziale ambiguità dell'induismo, che nega il mondo nella teoria per poi affermarlo nella prassi, è eliminata dal dualismo: sia la coscienza che il mondo esistono. Questa è la posizione della samkhya (VI secolo a.C.): la coscienza si incontra con la materia generando la mente, nella mente si proietta un mondo di apparenze da cui ha origine il dolore, e il superamento del dolore si ottiene liberando la coscienza dalle apparenze, attraverso pratiche psico-fisiche (yoga) di distacco dal mondo.1

Una posizione imparentata con la precedente è quella del giainismo (VI secolo a.C.): la coscienza (jiva) permea la materia (ajiva), e ne è imprigionata. Per liberarla è necessario non solo il distacco, ma anche il rispetto e l'amore verso tutto ciò che la manifesta: poichè la coscienza è però presente anche nella materia inanimata oltre che in quella animata, si arriva allora ad un concetto di non violenza assoluta (ahimsa), ripreso in tempi moderni dal Mahatma Gandhi.

L'esistenza della coscienza (individuale o cosmica) non è però necessaria per il distacco dal mondo, ed un suo rifiuto è tipico di tutto il buddismo. Pur non negando l'esistenza di processi mentali, esso cessa infatti di postulare un io distinto da essi. Il buddismo hinayana o theravada (VI secolo a.C.), detto anche "piccolo veicolo", sostiene un monismo materialista: solo il mondo esiste. Poichè la realtà del mondo è il dolore, e questo è generato dall'attaccamento alla vita, per liberarsi dal dolore diventa necessario distaccarsi interiormente dalla vita, mediante la meditazione: si arriva così in ogni caso ad una negazione del mondo, ma soltanto da un punto di vista etico, e non più ontologico.

In realtà, la posizione che prende più sul serio la negazione del mondo è il nihilismo totale: nè la coscienza nè il mondo esistono. Questa è l'ardita posizione di Nagarjuna (II secolo d.C.), esponente del buddismo mahayana, detto anche "grande veicolo".2 Egli la espresse nel motto "tutto è niente": la coscienza si inganna non soltanto sul contraddittorio mondo delle apparenze ma anche su se stessa, benchè possa arrivare a percepire la verità dell'assoluto nulla (in maniera più convincente di quanto percepisca se stessa e il mondo) mediante la concentrazione spirituale.3

I filosofi occidentali sapranno giungere a posizioni ontologiche analoghe a quelle del pensiero indiano soltanto dopo duemila anni (a partire cioË da Cartesio, Hume e Berkeley), a volte con esplicite dipendenze, e mai in modo eticamente convincente: per dirla con Aristotele, se essi avessero veramente creduto a ciò che dicevano, si sarebbero comportati diversamente.4



Epistemologia virtuale

Avendo posto sul tappeto le questioni epistemologica e ontologica e le loro possibili soluzioni, ci interessa ora riesaminarle nel contesto della realtà virtuale.

Il termine (da virtus: capacità, potenza) significa 'realtà potenziale', ossia 'mondo possibile'. Nel campo dell'informazione sono fonti di realtà virtuale la letteratura, il giornalismo, il teatro, il cinema, la televisione e il computer, ed i sensi coinvolti sono in genere soltanto la vista e l'udito. Il termine Realtà Virtuale (con le maiuscole) è anche usato in senso più specifico nell'informatica per indicare sistemi di grafica interattiva computerizzata che coinvolgono tutti i sensi, attraverso interfacce consistenti di caschi con visori e auricolari, oltre a guanti e tute con sensori e stimolatori.

Il problema epistemologico richiede un'analisi del ruolo dell'apparenza, ed è particolarmente interessante nel caso della Realtà Virtuale: questa promette infatti, in un futuro più o meno lontano, input sensoriali indistinguibili da quelli forniti dalla realtà 'reale', e quindi percezioni 'vere' generate da mondi 'falsi'.5

Se tutto è come appare, allora la Realtà Virtuale è ciò che si percepisce attraverso l'interfaccia, ad esempio ciò che si vede sullo schermo del computer. Questa è la posizione del fruitore passivo, che si immerge nell'apparenza senza altro fine che l'immersione stessa, facendo coincidere la Realtà Virtuale con il proprio mondo, per il periodo della fruizione.

Se niente è come appare, allora la Realtà Virtuale non ha niente a che vedere con ciò che si percepisce attraverso l'interfaccia. Questa è la posizione del programmatore, il quale sa bene che dietro all'apparenza sta un programma che la genera: il programma diventa così l'analogo informatico dell'idea platonica, la Realtà Virtuale 'reale' che sta dietro a quella 'virtuale'.

Se non tutto è come appare, allora ciò che si percepisce attraverso l'interfaccia è solo un dato da elaborare. Questa è la posizione del fruitore attivo, che usa la Realtà Virtuale non come fine a se stessa, ma come mezzo per un'applicazione (industriale, scientifica, pedagogica o ricreativa).

Naturalmente il confine tra fruizione passiva e attiva è labile, e dipende da fattori più psicologici che oggettivi. Ad esempio, l'uso ricreativo della Realtà Virtuale può facilmente oscillare fra i due estremi, a seconda dell'atteggiamento momentaneo del fruitore. Analogamente, la decantata 'interattività' della Realtà Virtuale, proprio perchè permette una più completa immersione, può facilmente divenire un'additivo della passività.



Ontologia virtuale

Il problema ontologico richiede un'analisi del rapporto fra coscienza (sia fruitrice che programmatrice) e Realtà Virtuale, ed è reso delicato dal fatto che questa si situa in un contesto di realtà esterna ad essa, senza però risultarne distinguibile (almeno secondo le promesse) da un punto di vista percettivo: assegnare loro diverso statuto ontologico è dunque possibile solo a prezzo della schizofrenia. In particolare: se si afferma l'esistenza del mondo esterno, si dovrebbe anche affermarla per la Realtà Virtuale; e se si nega l'esistenza della Realtà Virtuale, si dovrebbe anche negarla per il mondo esterno.

Se si nega valenza ontologica alla Realtà Virtuale, allora essa è pura illusione, un (video)gioco che l'utente gioca con se stesso. Il brahmanesimo virtuale richiede di distaccarsene gradualmente (fino alla rinuncia totale), mentre l'induismo virtuale ne permette o suggerisce l'uso, purchè effettuato in uno spirito di distanza: il primo ci sembra particolarmente indicato per gli usi passivi della Realtà Virtuale, il secondo per quelli attivi.

Quando si assegni invece valenza ontologica alla Realtà Virtuale, le vie indiane sembrano tutte sottolineare un aspetto centrale dell'informatica, che deriva dal doppio ruolo del computer sia come macchina che come medium: e cioè, l'alienazione che esso provoca nel programmatore e nell'utente. Così la samkhya virtuale considera la Realtà Virtuale come un mondo di apparenze generato dal riflesso della coscienza (il programmatore) nella materia (l'hardware), e da cui ha origine il dolore (l'alienazione). Il buddismo virtuale addirittura ritiene che nella Realtà Virtuale la coscienza non esista più, dissolta nell'alienazione.

Tali posizioni non affrontano però il problema ontologico della Realtà Virtuale se non da un punto di vista metaforico. Affrontarlo seriamente significa invece chiedersi se la Realtà Virtuale sia costituita da enti veramente esistenti nella realtà 'reale'.

Una risposta positiva è data dal platonismo virtuale. Per quanto balzano ciò possa sembrare, non lo è più del platonismo matematico, che considera come veramente esistenti gli enti matematici (quali i numeri o le figure geometriche), oltre ad un sesto senso che servirebbe a percepirli. Non stupisce quindi che, così come il platonismo matematico è la posizione di molti matematici, quello informatico sia la posizione di alcuni informatici: se non altro, esso richiede soltanto i cinque sensi per percepire gli enti della Realtà Virtuale.

Si può comunque andare oltre, ed arrivare ad una teoria delle idee virtuali: la vera realtà è costituita dalla Realtà Virtuale. Come il nome suggerisce, questa è una versione della teoria platonica secondo cui gli enti della matematica non solo esistono realmente, ma sono la vera essenza della realtà.6

Sembrerebbe impossibile prendere sul serio questa posizione, ma non appena si tolgano le maiuscole e ci si soffermi un momento sulla realtà virtuale del mondo dell'informazione, essa sembra acquistare un sinistro (o meglio, destro) sapore di verità, e descrivere perfettamente la vita dominata dal nulla assoluto di giornali e televisione oggi, e (forse) della Realtà Virtuale domani.

Di recente poi, come in un filmaccio di fantascienza, i mostri virtuali sono usciti dagli schermi per invadere la nostra vita. Sarebbe forse possibile negare loro statuto ontologico negandolo a noi stessi in un nihilismo virtuale, in cui il nostro dissolversi nel nulla trascinasse anche loro nell'oblio. C'è però il rischio che alla fine ci dissolviamo solo noi, ed essi rimangano padroni incontrastati del mondo: è un dovere allora continuare a giocare l'incomprensibile gioco, nel tentativo forse tardivo di ricacciarli dentro gli schermi da cui sono venuti.

1 In modo metaforico, si può parafrasare l'intero processo nel modo seguente: una sofferenza (perfettamente reale) generata da una eccessiva immedesimazione in un film tragico viene facilmente superata quando ci si ricordi di stare appunto vedendo un film, ad esempio staccando lo sguardo dallo schermo e rivolgendolo altrove in sala. 2'Piccolo' e 'grande' si riferiscono all'enfasi posta rispettivamente sulla salvezza individuale o collettiva, che si raggiunge individualmente nel primo caso diventando arhat (illuminati), e nel secondo bodhisatva (salvatori).

2 Non è certo un caso che paesi in cui il grande veicolo ha storicamente avuto il sopravvento (Cina, Vietnam) si siano poi rivelati più sensibili all'ideologia marxista di altri che storicamente hanno preferito il piccolo veicolo (Birmania, Tailandia, Sri Lanka).

3 Benchè il nihilismo totale sembri piuttosto irrazionale se preso in senso letterale, esso diventa molto ragionevole (oltre che moderno, più precisamente decostruzionista) se interpretato semplicemente come un rifiuto di postulare sia oggetti che soggetti al di là delle percezioni e dei processi mentali.

4 Il caso di Schopenhauer (1788--1860) è tipico: da un lato la derivazione indiana (più precisamente, dalle Upanishad e dal buddismo) del suo pensiero è dichiarata, dall'altro egli seppe tenere ben distinta la sua teoria ascetica dalla sua pratica libertina.

5 Le promesse della Realtà Virtuale vanno considerate più seriamente di quelle fatte a suo tempo dall'Intelligenza Artificiale: la prima è infatti già oggi in grado di ingannare almeno due sensi (vista e udito), anche se a costi esorbitanti e in modo non interattivo (si vedano film quali Jurassic Park o Terminator II); la seconda non ha invece mai potuto produrre sistemi che esibissero aspetti intelligenti indistinguibili quelli umani (che superassero cioè un test di Turing), a nessun costo.

6 Le idee erano originariamente le forme (eidos) geometriche, cioè gli enti della geometria, a cui si riduceva (da un punto di vista fondazionale) l'intera matematica greca.

Piergiorgio Odifreddi ha insegnato logica matematica negli Stati Uniti ed in Unione Sovietica, ed attualmente è professore presso l'Università di Torino. E' autore di Classical Recursion Theory (North Holland, 1989), curatore di Logic and Computer Science (Academic Press, 1990), e sta preparando un volume di saggi sui legami fra matematica, informatica, letteratura e filosofia.

 

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