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BOULEVARD

L'Ombra delle Reti

Fuochi accesi a Netville.



La prima azione immaginata per la Città dei Monumenti (1993) fu quella di uno spettacolo a dimensione planetaria.

La scintilla di Netville passò quindi ad accendere alcuni fuochi nei luoghi che per varie ragioni parevano idonei a dare vita a quel progetto.

A tre anni di distanza da allora, si può dire che molte delle situazioni previste, a cui si pensava di dover dare impulso in prima persona, si sono di fatto verificate "spontaneamente", con la progressiva affermazione di varie forme di "distribuzione", sociale e commerciale, degli accessi a Internet.

Oggi molti degli obiettivi di Netville, in quanto progetto artistico attivatore di percorsi rizomatici di conoscenza (nella dimensione contemporanea, fortemente esposta alle urgenze del futuro prossimo), possono dirsi sostanzialmente raggiunti (al di là del proprio merito),
quindi per molti versi superati.

L'auspicato trapianto nel "grande corpo di atomi del pianeta abitato" del nuovo "grande cervello di bit" si è rivelato come un'operazione in qualche modo endogena, spontanea, tendente a risolversi nell'adozione "inevitabile" di alcuni abiti-utensili prêt à porter. (Non che tutto questo avvenga in modo indolore, s'intende, tant'è vero che su questo versante si giocano le più colossali sfide politico-economico-finanziarie di fine/inizio millennio).

Sono proprio queste tensioni di guerra per la conquista degli standard di dominio del "pensiero connettivo" che inducono a riformulare non solo le strategie politiche per la sopravvivenza delle culture di cui non ci si intende lasciar espropriare, ma anche le pratiche artistiche intese come esercizi del proprio interfacciamento con il mondo contemporaneo.

Se è vero che il "dualismo mente-corpo non esiste" (Will Bauer) e che la mente è quella parte del corpo che lo interfaccia al mondo, non è forse vero che questa nuova sorta di "iper-corteccia cerebrale planetaria" (Roy Ascott) rischia di connettere solo una parte esigua e privilegiata del mondo fisico costruito e abitato (il suo corpo di pertinenza), abbandonandone alla necrosi dell'obsolescenza la porzione più rilevante?

Non esiste il rischio che buona parte dell'intelligenza connessa in rete si produca in "elefantiasi virtuali" progressive abbandonando al suo destino la carcassa tutta che la contiene e supporta? Potrà essa stessa vivere a lungo separata (di fatto) dalla sua carne di terra, acqua, linfa, aria, febbre, fuochi, eccetera?

Quanto della "memesis" culturale (Ars Electronica Festival 96), scatenata nel panorama evolutivo dei media, è in grado di bucare realmente lo schermo dei terminali più o meno intelligenti e polidimensionali per nutrire la "genesis" del mondo attuale, senza limitarsi a succhiarne le milgliori energie con il render sempre più anemici il suolo calpestabile e il paesaggio del mondo costruito, quotidianamente vissuto da chi non sempre sta collegato a smanettare?

Nel commentare la propria esperienza di componente della giuria del Prix Ars Electronica 96, sezione Web, Karin Spaink mette, per così dire, al bando, con più di una ragione, dalle arti nel Web sia l'Arte per l'Arte che la Tech per la Tech. Il problema a mio parere è che poi si finisce per cadere nel "labirinto incantato" delWeb per il Web: "what we are judging: the web-pages, and not their relation to any outside world". E qui si rischia di scivolare senza appiglio negli imbuti ben lubrificati delle varie compagnie di ventura dell'infomercato. Senza peraltro volerle demonizzare a tutti i costi, bisogna pur riconoscere che queste rischiano, quanto meno, di giocare la parte delle Sirene nella vicenda del navigatore Ulisse. Su queste linee infatti si aprono in continuazione nuove scorribande negli arcipelaghi del macchinario, spesso molto lontani dalla vita reale.

E' ben vero che gl'interfaccia sono vieppiù connaturati al nostro corpo "rilassato", che non è più necessario ingarbugliarsi in scafandri cablati per interagire con il sistema evolutivo dei nuovi media, che sempre meno lo sarà nei prossimi giorni o settimane o mesi, ma è altrettanto vero che la l'esperienza della pienezza del mondo fisico non è da confondere con un -sia pure sofisticatisssimo- programma di "fitness" multimediale.

Eppure non possiamo negarlo: il sistema di rappresentazione del mondo è cambiato, cambia in continuazione: la prospettiva rinascimentale, neanche se riciclata dentro la telecamera e il tubo, funziona più. Ma non serve a nulla continuare a ripeterlo, stando appollaiati fuori dal flusso della realtà nell'illusione di poterla sorvegliare.

L'igiene e profilassi mentale dei nuovi media risiede, a mio parere, sulla sponda soleggiata e abitata del fiume dei dati, più che non nei suoi gorghi.
Dove c'è il sole c'è l'ombra dei corpi e l'ombra della rete può diventare una trama ritmica di scansione della realtà, cosìcome, anche se in modo diverso, il gioco dei pieni e dei vuoti in un colonnato palladiano è la condizione di vita delle architetture che lo contemplano.

In questo senso posso dire di essere d'accordo con Anne-Marie Morice quando sostiene, dalle pagine in rete della sua rivista Synesthesie, che "Le défi d'Internet peut être d'incarner, par l'art et le mouvement, la chair du digital." Per quanto posssa sembrare contraddittorio, sono infatti dell'avviso che il "bagno digitale" nella connettività sia di tutt'altro segno rispetto a quello del "tuffo" solitario nella cosiddetta "realtà virtuale". Non a caso "on a souvent reproché à l'ordinateur la dépersonnalisation, la déshumanisation qu'il menace d'introduire dans l'organisation des sociétés avancées": ogni schermo è una finestra sul vuoto, finché non rimanda ad un altro nodo, in qualche modo collegato alla complessità del reale.

La metafora liquida ben si sposa con la natura (anzi, con l'artificio) della rete: immagino quindi il processo in atto come una sorta di nederlandizzazione del mondo. Il trasferimento delle merci più preziose sulla rete dei canali può essere molto positivo, finché non ci si trova di fronte ad una inondazione che tutto inghiotte senza nulla restituire.

E allora ritorniamo ai monumenti. Corpi solidi immersi nel traffico quotidiano della vita, investiti dalla necessità di farsi metafore dell'organizzazione sociale cittadina, per continuare ad essere vivi e interpretabili.

Quando scendo in una città, tento sempre, per quanto possibile, di muovermi a piedi. Cerco i segni tangibili che ne marcano l'identità.
Anche se costruiti pietra su pietra, questi mutano continuamente, in rapporto con la vita che li circinda e li attraversa, conoscendo spesso momenti alterni di memoria e di oblio.
Quasi sempre si tratta, tecnicamente, di manufatti più o meno antichi e voluminosi, talvolta ridestinati nel tempo ad usi diversi, fatti per essere aggirati, scalati, percorsi, abitati, affollati, oppure ignorati, a seconda delle varie diacronie. Si tratta, insomma, dei monumenti riconoscibili che marcano la differenza fra una città e l'altra.

Ombre e luci li rendono percettibili alla vista.
Qualcuno, come Monet, insisté a lungo e non invano su questa osservazione.
Oggi la situazione è un poco più complicata, ma la città "in atomi" è ancora lì a farsi lambire da luci diverse, da raggi diretti o filtrati e rifratti da nebbie, fumi, alchimie quotidiane più o meno salutari.

Non solo i notabili della storia o delle storie cittadine, scolpiti in effigie di marmo oppure fusi in bronzo, sono assurti a monumenti di interesse collettivo. Spesso fabbriche, ponti, strade, insegne, bar-tabacchi, saracinesche o muri crivellati di colpi in qualche ricorrente notte di sanvalentino oppure decorati a festa in nove novembri da non dimenticare, sono diventati segni inconfondibili per abitanti e per visitatori. I corpi stessi di questi possono in qualche modo essere considerati parte costitutiva, transeunte e mutevole, ma presente, della monumentalità contemporanea. Penso anche a qualche strada di Singapore o di Hong Kong, e ai corpi umani associo quelli di varie specie di veicoli e masse in movimento.

Tutto questo si intreccia sempre più con i bit, con i flussi fra sportelli bancari automatici, con la leggerezza di internet, conservando nondimeno il suo peso di atomi variamente combinati e disposti a far cadere la propria ombra da qualche parte, quando esposti alla luce.

Fu proprio fra queste luci e a queste ombre che si manifestò per me la necessità di immaginare, modulare e costruire Netville come "città dei munumenti in rete" .

Già nel '93, in collaborazione con Ennio Bertrand, (con il supporto di ZnortLink, della Rai regionale del Piemonte e di un paio di gallerie fra Milano e e Torino), avevamo dato vita ad una serata telematica dedicata alle &laqno;Interviste Possibili» con alcuni monumenti e con personaggi ad essi correlati. La compresenza dei luoghi fisici e della memoria viva di culture attive in rete aveva il senso di mettere in gioco autori e spettatori convenuti in un cortocircuito di arte mediale espansa nello spazio e nel tempo.
(Per la cronaca, i monumenti erano il &laqno;Caval 'd bronz» di Piazza San Carlo a Torino e la &laqno;Madunina» del Duomo di Milano, e i personaggi coinvolti erano Frederich Nietzsche e Giselle, più alcuni altri di contorno, evocati in un "chat-work" con il pubblico presente nei diversi luoghi coinvolti).

Non ci fu in quell'occasione alcuna "sfida" nei confronti di altre manifestazioni di arte telematica, realizzate con maggiore dispiego di tecnologia e su distanze molto più spettacolari. C'era invece la volontà di entrare nel merito della condizione teleconnessa, con un atteggiamento già in qualche modo orientato verso la ricerca di una nuova osmosi fra lo spazio fisico e lo spazio senza distanze della comunicazione digitale.

Monumenti come "tavole" della città comunicante, sulle quali perseguire un equilibrio di "surfing" non solitario e anonimo, ma conviviale e fra "soggetti collaboranti".

L'onda della rete non aveva ancora, in quella fase, raggiunto la forza dirompente, "anomala", che si manifesta oggi, anzi, pareva necessario in qualche modo sollecitarne la crescita. Una crescita di "intelligenza connettiva" per la salute del "corpo della città planetaria".

Oggi la situazione rischia di ribaltarsi completamente.
Occorre, a mio avviso, "dare corpo" alla massa di "nuovo cervello" disponibile, anche allo scopo di tenere a bada i "deliri" che al suo interno si scatenano. Non mi riferisco qui certo alle febbricitanti creatività che sempre più di frequente lo scuotono, con brividi sicuramente salutari e benvenuti, penso piuttosto con preoccupazione alle guerre di dominio commerciale che possono alla fine trasformarlo in un "cervello alieno", condizionato, allucinato, totalitario, servo e padrone a un tempo.

Certo ci sono oggi miriadi di realtà vitali in gioco nella rete, e queste in qualche modo ne sono garanzia di libertà e salute democratica o anarchica se preferiamo. Ma sono realtà che si spogliano spesso con troppa disinvoltura del loro corpo per entrare nell'agone digitale, rischiando di risultare travolti dalle maree dominanti.

Se la rete rischia di cancellare la sua e la nostra intelligenza con la propria stessa ombra, sarà forse il caso di accendere fuochi nelle nostre città, anche nei più remoti villaggi. Fuochi di connessione, s'intende, nodi emergenti dal mare grigio della "sovraesposizione" digitale, monumenti pesanti nel loro equilibrio spaziotemporale, ma leggeri nella loro capacità di rendersi ubiqui e dialogare, senza attese messianiche della prossima release per sempre rapidamente obsoleti cybespazi da sballo.

La zona di massima concentrazione dello sforzo creativo mi sembra debba esssere insomma, come nella più tradizionale delle leve meccaniche, localizzata nel fulcro, cioè in ciascuno dei nodi di passaggio dagli atomi ai bit e viceversa. In questo modo i "monumenti" di Netville possono essere intesi come gli "interfaccia plastici" della città con la rete.
Qui alla disparità dei luoghi potremo ben associare la più ampia varietà dei codici. La radicale banalizzazione dei soggetti rilevabili da semplici codici a barre avrà modo di confrontarsi con la complessità dei rapporti innescati dagli agenti artificiali sguinzagliati in rete per selezionare e costruire nuovi percorsi di conoscenza e, in definitiva, nuovi "monumenti".

Credo si possa a questo punto rilevare la distanza fra questa concezione della monumentalità e quella, a mio avviso alquanto cimiteriale, di tante pretenziose collezioni di vestigia riprodotte con le tecnologie della realtà virtuale.

Da queste premesse discende l'importanza attribuita all'azione del "passare". Come ho tentato di fare con i miei lavori più recenti.

Giorgio Vaccarino, ottobre 1996

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