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Appunti


Il convegno L'Ombra delle Reti (Torino, Galleria Civica d'Arte Moderna e Contemporanea, 11-12 aprile 1997) indica, puntando sulle reti come a una sorta di schema di riferimento, tre prospettive di azione e di riflessione. Le tre sigle di ciascuna prospettiva, se si vuole chiamarle in questo modo, sono i percorsi rizomatici delle arti, i codici, le interfacce.
Gli aspetti, peraltro correlati, di azione e di riflessione spiegano la compresenza al convegno di autori (ma perché non chiamarli anche, in molti casi almeno, artisti che si misurano con l'pportunità creativa dell'esporsi in rete?...) e di teorici di varia estrazione disciplinare.
La rete, dunque, compresa la rete delle reti (l'Internet mi sembra la versione in età di sovrabbondanza di telematica dell'Ur-libro che, come è stato detto da scrittori illustri, si vorrebbe scrivere sapendo che non lo si scriverà mai) , intesa come la Ur-rete del non-luogo, di una connettività che tende all'utopia. Com'è naturale, il riferimento a un sistema di comunicazione - nonché a tecnologie mirate... - qual è quello delle reti rimette in campo anni di ricerche, opere, eventi, e così via, sul rapporto fra arti e tecnologie; fra estetica e, appunto, comunicazione; fra linguaggi entrati più di recente in un'inevitabile concorrenza fra di loro (esempio: reti, cinema, videogiochi, prodotti multimediali). Investe, insomma, un'evoluzione e una mutazione di paradigmi rispetto alla quale, per me neanche troppo paradossalmente, l'evoluzione delle tecnologie riflette una variabile - le tecnologie, appunto - che è sopra tutto influenzata dal mercato.
In un quadro della comunicazione, partiamo da quella, dove gli elementi apocalittici diffusi che la riguardano, per quanto ancora popolari, mi sembrano sempre meno significativi rispetto agli elementi tautologici e di autismo che dilagano tristemente, è importante ricordarsi che, quasi come... struttura primordiale, alla rete vanno associati, oltre beninteso la connettività e le varie tecnologie del casting - "la trasmissione" - i concetti di sistema aperto e quello di dispersione.
Fuori e dentro, con ambiguità, al casting interconnesso in più modi che, in funzione anche del costo delle tecnologie impiegate è oggi possibile praticare in rete, noi indigeni delle varie discipline, le tribù , portiamo e talvolta ibridiamo le nostre scritture, i nostri sistemi di segnali, le nostre cifre: i codici.
Mi chiedo se esista, in questa Babele dislocata , un'arroganza primordiale che, sulla crescita peraltro non scandalosa degli usi più ortodossi dei media e delle tecnologie della info-comunicazione, tenda alla riscrittura perenne di un codex, di un manoscritto di riferimento che guidi e descriva una specie che, volendo, potrà oscillare fra clonati e mutanti.
Primi grandi artifici, nella loro storia, dei tentativi spesso riusciti di clonazione di massa, i media, e men che meno i media in rete, non vanno approcciati senza lo schermo protettivo dei segni. Solo così, ma il dubbio in me resta forte, è ipotizzabile uno spiraglio da cui trapeli, si sveli, qualcosa(è un modo meno drammatico di aprire uno spiraglio "apocalittico", pur rispettando le origini di questa parola per sua essenza rivelatrice...) . Del resto, anche sui contenuti autistici e tautologici citati prima non sono mancate, in questi anni, riflessioni adeguate.
I segni appaiono di fatto come una carrellata di sinonimi del segno stesso: possono indicare, infatti, la qualità di un'appartenenza, tanto un gesto quanto la presenza di un mezzo di comunicazione, una caratteristica soggettiva... Lo spazio numerico - il cyberspace - finisce per essere, complesso com'è e aldilà di ogni comprensione immediata, una grandiosa sintesi ibrida, o forse meglio, una sintesi di ibridi.
I segni, letteralmente i sintomi di un inevitabile spaesamento, vanno aldilà dello spiazzamento così a lungo praticato dalle arti, ma finiscono per comprenderlo. Il segno, ciò che rivela qualcosa di non direttamente evidente, si divide in vari momenti e porzioni di significato, dislocabili e manipolabili senza fine...
Il segno, l'inglese qui mi aiuta, è atto fisico e artificio (signal), è segno di appartenenza (badge) , è caratteristica che, ad esempio, consente di individuare qualcosa e qualcuno (mark).
Il percorso sotterraneo delle arti, ad esempio, lo si può leggere anche come un sistema di percorsi rizomatici che tanto meglio sono emersi quanto più, limitiamoci a questo secolo ventesimo, hanno saputo assumere un ruolo premonitore e prospettico. Curiosa, per me, e anche sorprendente è stata la capacità di certe ondate artistiche di declinare, mi si passi la battuta, lo spettro ampio dei sinonimi del segno... Anzi, nella loro poetica - uso con serenità questo termine in modo scorretto - le ondate successive di avanguardie (direi anche delle loro conseguenze degli ultimissimi decenni) si sono misurate senza posa, e quasi sempre senza sorriso, sul dilemma fra amnesia e memoria, fra tabula rasa (una versione dell'amnesia) e storia, ovvero l'applicazione della memoria anche nella sua accezione più funzionale alle trasformazioni della società.
Il rizoma allenato delle arti tende all'ibridazione coi media, per usare un termine lieve ma di largo consumo..., non solo per cercare strade espressive comunque più articolate e complesse (in questo senso il rizoma in questione è davvero molto ben allenato), ma perché geneticamente questo essere, strutturalmente, non può vivere di sola memoria. In qualche misura non gli basta un sistema, come quello classico, o tardo-classico meglio, delle arti, che cerca di chiudere le valenze eventualmente ancora aperte della modernità sottolineandone gli aspetti premonitori del nostro presente, eludendo però la questione della perdita di centralità del sistema o, almeno, la questione su quali saranno i suoi centri futuri.
E' vero, il cadavere, per fortuna metaforico, di quel padre di cui si sbarazzarono Apollinaire e altri nostri avi, lo si può ripresentare nello spazio numerico o, rubando una pensiero illustre, anche solo con un'immagine. Insomma, è il significato mortuario della fotografia, così come lo conoscevamo prima dell'avvento del computer e a cui, un po' tautologicamente, tende a rifarsi ogni desiderio di prolungare la vita in rete. Ma il nostro rizoma, a differenza di quegli enti che ragionano solo in tre dimensioni, quali i vermi piatti, è uscito in sequenza sia dal riferimento paradigmatico alla meccanica, che da quello alla fisica. Nell'ecosistema complesso in cui si trova, dove la biologia è diventata il paradigma che conta e dove ciascun essere vivente, oltre a analizzare poniamo i suoi rapporti con la luce - naturale o artificiale - analizza i segnali che scambia con gli altri "abitanti" del sistema, il rizoma ha finito per scoprirsi come un insieme di sensori e, in pratica, si è immaginato come un' interfaccia.
A seconda di come si considera, e di quale tecnologia adotta, è se stesso o il suo doppio è, comunque, insieme lui e la sua incarnazione simbolica, o come si suol dire, il suo avatar.
Al rizoma non basta la storia. Le amnesie brevissime e non patologiche che lo caratterizzano lo spingono al dialogo, gli forniscono il tempo necessario per sospendere il giudizio della memoria che, nel caso siano successi fatti traumatici, può diventare una gabbia.
I media, uso ancora l'espressione di largo consumo, hanno cambiato, fra l'altro, radicalmente alcuni elementi del dialogo... Il rizoma esperto porta la sua esperienza e non può che andare, anche andare, verso quelle nuove frontiere dove interattività, simulazione, connettività, corpo, spazio..., diventano altro, spiazzano,...
È anche possibile che vada su quei nuovi assi che terranno sempre più conto di pratiche, e di poetiche, che si stanno manifestando in altri punti del globo.
Un robottino che sa..., un programma esperto che ci guida in uno spazio numerico, per dirla così, molto complesso, può essere ibridato da artisti, può rimandare, questo sì, a qualche elemento che il rizoma di cui sopra ha nella sua memoria dalle arti moderne. Insomma, sono le Figure della modernità teorizzate, non molti anni fa, da Filiberto Menna in Italia, forse interessanti per avvicinarsi all'opera dei Knowbots (i robottini esperti) del gruppo tedesco dei Knowbotic Research.
Il dialogo, il riferimento alla sintesi dello spazio cyber diventa per me niente più che una metafora, è quello che, in qualche film attuale, fonde, o se vogliamo connette, ad esempio cinema e letteratura. Ma quali saranno, allora, i codici e le interfacce in The Pillow Book di Peter Greenaway?Il corpo, è stato notato in proposito, è testo e immagine, è un ideogramma che vive... Che vive nel film, naturalmente, basato sul diario di Sei Shonagon, cortigiana intorno all'anno mille... alla corte imperiale giapponese. La tradizione del segno, la tradizione che viene da Oriente, un corpo e il libro intimamente fusi. La pelle come interfaccia, il corpo come segno (il rizoma potrebbe dire la sua). La scrittura, per citare infine Roland Barthes prima solo evocato, come gesto corporeo comunque presente, "in tutta la vita".
Chi sono, infine, i cursori che agiscono nello spazio un po' ipnotico che ha per riferimento lo spazio connesso delle reti, con le sue derive e le sue aperture inusitate e, probabilmente, in attesa di un selvaggio controllo?
In Lost Highway, l'ultimo film uscito di David Lynch, la "realtà" è come sconnessa in un dittico e si vive tra anamorfosi continue. Come forse coi media... si comunica per echi, tra momenti di cinema che si inseguono e connessioni e sconnessioni continue. E se fossimo noi i cursori? O è meglio scrivere, come in The Pillow Book, sulla pelle del corpo amato?

marzo 1997

                                  Franco Torriani


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