4. UN NUOVOCOMPITOPOLITICO
Siamo così arrivati a precisare un nuovo punto di metodo importante, relativo all’azione politica
necessaria, come abbiamo potuto osservarla, nei decenni scorsi, nelle città più attive; queste,
le loro classi dirigenti politiche e di società civile, avevano con chiarezza capito di dovere
stanare, mobilitare e per quanto possibile mettere in forma, in un disegno di insieme, le risorse
di cui disponevano, e che era necessario riprodurre nel tempo le condizioni favorevoli alla
crescita. Questo è un compito politico in senso lato, che non tocca solo l’azione delle istituzioni
politiche, un compito nel quale si vedevano impegnati, nelle città d’Europa, politici e
rappresentanti delle istituzioni pubbliche, associazioni di interessi, camere di commercio,
università e centri di ricerca, banche e fondazioni, soggetti chiamati a confrontarsi
pubblicamente e collaborare in forme e occasioni definite .

In questo quadro, il compito decisivo della politica, in un senso stretto del termine, si precisava
così: convincere attori diversi, molti dei quali possono in ogni momento spostarsi o orientare
altrove le loro relazioni, a investimenti che si incrociano, arrivando insieme all’appuntamento,
e creando in tal modo le condizioni per una collaborazione sul lungo periodo. È un compito
difficile, che va giocato in ordine all’efficienza, non alla riproduzione locale di rapporti
inefficienti, e che deve rispettare l’autonomia delle imprese impegnate sui mercati, e le
verifiche di mercato, posto anche che nessun sistema locale può essere chiuso su se stesso,
ma deve necessariamente essere inserito in rapporti e reti di relazioni esterne. È un compito
che richiede capacità nuove e una leadership adeguata. L’impressione è che i casi di successo
abbiano sempre richiesto una decisa, realistica leadership politica dei processi.
«Abbiamo fatto gioco di squadra»: questo sentiamo dire quando una città ha ottenuto un
risultato coordinando attori diversi. Ma quali sono le buone regole per un buon gioco di squadra,
e come garantire l’accesso al gioco a diversi interessi, come rendere sistematico e acquisito
nel tempo il gioco, anche con attori che cambiano, come rendere possibile il confronto
e lo scontro di prospettive diverse? Sono di questo tipo le questioni che si pongono per
consolidare la prospettiva, e che le città innovative si sono poste e hanno risolto in modi adattati
alla loro storia e alle loro particolarità, ma senza perdere di vista un principio che si è fatto
strada: le politiche pubbliche sono oggi elaborate con il concorso di attori pubblici e privati,
che cooperano per decisioni che una volta prese possono con facilità avere seguito.
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Si può obiettare che tutto ciò suona un po’ complicato o volontarista. Si può allora rispondere
che in tutta Europa molte città hanno provato a consolidare metodiche del genere, ottenendo
ottimi risultati. Una esperienza del genere, che riesce e si consolida, è una risorsa per
il governo locale che ha compiti di sintesi politica, perché permette di coordinare attori
e prospettive di azione che il mercato da solo non è in grado di fare incontrare, e che la politica,
per parte sua, vede altrimenti con difficoltà. Ha poi anche una implicazione che non deve essere
sottovalutata: se bene intesa, tende ad ampliare la sfera pubblica, perché i diversi soggetti
che fa incontrare sono chiamati ad argomentare pubblicamente un punto di vista e un’azione
in riferimento all’interesse generale. Anche quello che stiamo facendo qui, oggi, è qualcosa
del genere. Torniamo allora a Torino, per qualche breve considerazione.
Per lo meno dalla metà degli anni Ottanta, in realtà anche prima, ci si poteva rendere conto
che Torino non sarebbe mai più stata quella di prima, per un motivo essenziale: la società
industriale, come era stata conosciuta nei paesi avanzati, era scomparsa. Torino era in ritardo,
ed essendo stata un esempio molto puro di società industriale, probabilmente avrebbe avuto
più problemi di altre città a trovare la strada, con molti conti economici e sociali sulle spalle.
Con un punto a favore: che prima di essere la città-fabbrica era stata una delle capitali regionali
della modernizzazione europea. Questo aveva costituito una eredità materiale, culturale,
professionale importante, rimasta sottotraccia, ma non cancellata. Negli anni di transizione,
all’inizio fra conflitti e prove di forza, si sono fatte strada progressivamente nuove idee sulle
opportunità e i modi per costruire un percorso. Questo è avvenuto con il concorso di molti,
per tentativi ed errori, ma cumulando esperienza, con possibilità che si aprivano per strada,
per esempio con le nuove regole per l’elezione diretta del sindaco, o sfruttando opportunità
di contrattazione disposte dal governo nazionale. Credo che un osservatore distaccato, pur
riconoscendo debolezze e limiti, possa riconoscere che negli anni si è costruita una capacità,
possiamo anche dire una cultura di azione strategica, che poteva orientarsi a problemi diversi:
si sono diffusi un vocabolario con il quale parlarsi, immagini relativamente condivise della città,
delle sue opportunità e delle sue criticità maggiori, si sono trovate occasioni di valutazione
pubblica delle politiche, sono emerse linee di azione e azioni combinate che hanno avuto
seguito, contribuendo a mantenere un quadro per quanto possibile coordinato e di insieme
di quanto nell’economia e nella società locale si stava muovendo. Se pensiamo all’eredità
di questi anni di trasformazione, dobbiamo anche mettere in conto che così si è generato
capitale sociale, un termine con cui economisti e sociologi indicano la capacità diffusa di dar
vita a contesti attrezzati di azione cooperativa, riconoscendolo un ingrediente essenziale dello
sviluppo, accanto al capitale economico e al capitale culturale, vale a dire alle capacità delle
persone.
Ricorderò solo due momenti in cui questa capacità si è rivelata: l’attribuzione dei giochi
olimpici, ottenuta perché si era stati in grado di presentare un dossier affidabile, e poi la
gestione degli stessi giochi, nella quale si può dire che veramente una città si è mobilitata;
il secondo esempio è la costituzione di Torino internazionale, l’associazione che ha dato vita,
per la prima volta in Italia, a un processo di elaborazione di un piano strategico con metodiche
simili a quelle internazionali.
Oggi siamo in grado di valutare l’esperienza passata, vederne i risultati positivi e anche limiti
e opportunità non sviluppate, criticità che permangono. Con quanto siamo riusciti a cumulare
di capitale economico, culturale, sociale negli ultimi decenni, ci troviamo alla sfida della crisi
mondiale. Bisogna rifare i conti, affrontare le urgenze senza compromettere la visione
d’insieme e di più lungo periodo. Si tratterà, per esempio, di considerare se nel sostegno
a settori innovativi di sicura potenzialità – come la meccanica, le ICT, le biotecnologie –
le politiche seguite per coordinare le risorse, trasferire tecnologie a imprese, attrarre partner
dall’esterno abbiano bisogno di essere meglio messe a punto; considerare se e come la
modernizzazione delle nostre università può rafforzarsi più velocemente, una volta riconosciuto
senza polemiche che si tratta di istituzioni con i parametri migliori nel paese; capire perché
anche negli anni favorevoli sono nate, e soprattutto cresciute relativamente poche imprese;
vedere come aggiornare il quadro della rappresentanza di interessi, per aderire a realtà che
cambiano.
Anche di questi temi si parlerà nella tavola rotonda che segue. Qui vorrei solo ricordare un
punto fermo sul quale si è arrivati a concordare nella fase precedente, e che non dovrebbe
essere dimenticato, perché ha segnato la svolta di Torino: la necessità di una economia più
differenziata; ciò significa una industria più differenziata, e poi una economia non solo
industriale, ma espansa nei settori dei servizi. Nessuno, ma credo proprio nessuno ha mai
pensato che l’industria non avrebbe continuato a essere una risorsa fondamentale di Torino,
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da continuare a valorizzare. Sgombriamo il campo da equivoci su questo, che hanno in passato
suscitato polemiche inconcludenti. L’industria, le attività in settori innovati correlati, in primo
luogo la ricerca e la formazione, devono continuare a essere sostenute nella crisi. L’industria
però non basta a una grande città nell’epoca post-industriale. Sia per motivi direttamente
economici, sia di organizzazione della qualità urbana e di tono sociale e culturale.
È poi certamente vero che in epoca di crisi è meglio un asilo in più e un evento in meno,
ma disperdere i risultati raggiunti come città culturalmente viva e affidabile, che in pochi anni
hanno cambiato l’immagine internazionale di Torino, non sarebbe davvero una buona cosa:
bisognerebbe ricominciare da capo, perché – torno a dire – l’industria non basta a una grande
città dell’epoca post-industriale.