Un mio vecchio problema con l’epistemologia di John McDowell: percepire è “concettualizzare in atto”?

Provo a parafrasare tale posizione in (a-d):
a. Ogni percezione (o “immissione esperienziale”, o cognizione intuitiva) è già “carica” di concetti.
b. Quel che, per esempio, vediamo, ha già la forma di una credenza (de dicto) del tipo “le cose stanno così e cosi”
c. Ogni soggetto cognitivo, non fa mai esperienza del processo di tale concettualizzazione in atto, ma vive solo il risultato di tale “immissione esperienziale”. Vediamo che “le cose stanno così e così”, ma non stiamo a ragionarci sopra nel mentre, altrimenti non potremmo, con McDowell, identificare tale immissione esperienziale con l’intuizione kantiana e l’equivalenza tra credenza percettiva e processo concettuale sarebbe una petitio principi.
d. Esercitare delle capacità concettuali - per McDowell - significa saper concepire le nozioni o i contenuti isolanti tali concetti come premesse o conclusioni di inferenze, cioè trovarsi nel famoso “spazio delle ragioni” di cui parla Sellars, o per usare le sue stesse parole «uno spazio logico organizzato in relazioni di giustificazione tra coloro che abitano in esso» [John McDowell, «Naturalism in Philosophy of Mind», in (a cura di D. MacArthur e Mario De Caro) Naturalism in Question, Harvard, President and Fellows of Harvard College, 2004, pp. 91 -105, p. 91.]
e. Tale concettualizzazione (per a, b, c) deve, inoltre, essere una concettualizzazione inconscia (per tutto quello che abbiamo rilevato finora).
f. Conclusione (per d e per e): ogni intuizione (nel senso McDowelliano di immissione esperienziale) non è altro che il risultato di un’inferenza inconscia, in cui dei concetti (premesse e conclusioni) sono già al lavoro al di sotto della consapevolezza cosciente.
Ora, per quel che ne sappiamo, dei concetti possono essere immessi esperienzialmente in modo del tutto simultaneo all’atto intenzionale della loro istanziazione (in questo caso: percettiva) solo in due modi senza che la coscienza del percettore ne abbia, per così dire, notizia rilevante. O per mezzo di quelle rappresentazioni inferenziali che già nel XIX secolo autori così diversi come Bernhard Bolzano, Hermann Von Helmholtz e Charles Peirce definirono ora conclusioni da inferenze inconscie (Helmholtz) chi inferenze acritiche (Peirce), oppure assumendo che la struttura del dato (o la struttura oggettiva di ciò che è dato nella percezione) sia extra - inferenzialmente concettualizzata in modo immediato. La prima soluzione mi sembra filosoficamente implausibile, sebbene molti psicologi della percezione, influenzati ancora oggi da Helmholtz, come Richard Gregory e Irving Rock la considerino la soluzione. Autori così diversi tra loro come Jacques Bouveresse, P. M. S. Hacker e M. R. Bennett, sembrerebbero, inoltre, seguendo coerentemente la propria matrice wittgensteiniana, averla abbondantemente confutata fin nei minimi particolari. Inoltre McDowell non accetterebbe mai una simile interpretazione della sua versione (neo) kantiana del concettuale senza confini, perché per McDowell la concettualizzazione è comunque un atto spontaneo dell’intelletto (ed è, quindi, ben trasparente alla coscienza). Resta quindi una sola alternativa per i concettualisti sellarsiani come McDowell (e come il filosofo delle scienze cognitive Bill Brewer, che sembra seguirlo su questa strada): sostenere che gli oggetti o gli aggregati strutturali extramentali per come sono costituiti non siano altro che complessi concettualmente predeterminati, che la nostra spontaneità non deve far altro che riconoscere già al livello della mera ricettività facendo così del dato intuitivo un Dato/giustificatore ingiustificato.
In questo modo dalla padella delle concettualizzazioni private, la teoria dell’esperienza come concettualizzazione in atto sembrerebbe cadere nella brace da cui avrebbe voluto salvare l’esperienza stessa, il terribile empirismo sensoriale che da Locke ad Ayer passando per Russell, Moore, la teoria dei “sense data”, ed il Wiener Kreis arriva dritto (o meno) ad autori come Dretske, Bermudez, Martin, Tye; l’empirismo che gli odierni sellarsiani - come lo stesso McDowell -  chiamerebbero senz’altro “Mito del Dato”.
Ma sarà vero, poi, che l’unico empirismo possibile (non “trascendentale”, come quello, di contro, proposto da McDowell) sia quello del Dato? Al lettore lascio, molto volentieri, la risposta.

Grazie per la lettura e ancor di più per ogni utile critica, commento, obiezione o quant’altro. Un caro saluto a tutti

Stefano Vaselli/Odradek70