Il
metodo e le prove scientifiche in psicoterapia
Giuseppe Nicolo e Sergio Salvatore
da Psicobiettivo 1/2008
Nel nostro paese la ricerca in psicoterapia è un ambito
scientifico relativamente giovane, con una storia alle spalle non
più che ventennale (Nicolo, Salvatore, 2008). Volendo riportare
un dato indicativo in tal senso negli ultimi 10 anni sono stati
pubblicati solo 5 lavori di autori italiani su Psychotherapy Research,
la rivista più autorevole del settore. Tale relativamente
giovane area di ricerca si inscrive d'altra parte in un movimento
scientifico internazionale che può ormai vantare quasi un secolo
di storia.
In realtà, dal punto di vista storico, è possibile
assumere il 1952 come una sorta di spartiacque. Fino a quel momento la
ricerca in psicoterapia consisteva essenzialmente nella raccolta di
casistiche e in studi naturalistici di campo, che estendevano le prime
sistematiche analisi sull'impatto delle cure psicoanalitiche realizzate
nella Germania di inizio secolo. Nel 1952 Eysenck pubblica un lavoro
che molti considerano il punto di avvio del movimento della
psychotherapy research cosi come oggi la conosciamo. Il lavoro di
Eysenck (1952) viene in genere considerato come una critica di merito
dell'efficacia della psicoterapia. In realtà il suo impatto
è stato anche, e forse soprattutto, metodologico. Esso infatti,
evidenziando la necessità di confrontare i tassi di
miglioramento dei pazienti con i tassi di miglioramento spontaneo, di
fatto ha portato a riconoscere come standard metodologico generale la
necessità di introdurre parametri di controllo negli studi volti
a valutare l'efficacia della terapia. Come conseguenza di ciò,
la ricerca in psicoterapia si trovò a riconfigurarsi secondo il
modello della ricerca cllnica sperimentale, assumendo come fondamentale
criterio di validità il razionale RCT (Randomized Clinical
Trial). Questo metodo di indagine fu poi implementato da altre
procedure di analisi ma è rimasto una pietra miliare ancora oggi
irrinunciabile.I ricercatori hanno tentato di separare gli effetti
specifici della terapia dai cambiamenti risultanti da altri fattori
aspecifici, isolando l'intervento come unico fattore responsabile del
cambiamento osservato. In queste ricerche sono utilizzati i gruppi di
controllo, assegnando i pazienti in modo ran-domizzato al trattamento o
al gruppo di controllo definito dalla condizione di non
trattamento/lista d'attesa. Quando i pazienti trattati mostrano
miglioramenti chiaramente superiori rispetto a quelli non trattati, il
trattamento è considerato efficace. Sebbene la condizione di
controllo basata sull'assenza di trattamento è a volte utile, in
particolare nelle prime fasi della valutazione di un intervento, sono
tuttavia preferibili altre procedure di controllo.
Questo tipo di studi permette di determinare il grado - o il grado
relativo — di cambiamento positivo associato al trattamento. Rassegne
dei risultati di tali ricerche (ad esempio, Lambert e Ogles, 2004)
suggeriscono che l'efficacia dei placebo si manifesterebbe nei termini
di una percentuale di miglioramento di circa il 40% dei pazienti. Una
parte rilevante dell'attuale ricerca di questo tipo è andata
oltre l'uso del placebo, proponendo disegni di ricerca basati sul
confronto tra due trattamenti attivi. Questo tipo di studi intende
verificare se un tipo di psicoterapia sia superiore ad un altro tipo
nel trattamento di specifici disturbi. Una procedura comunemente
utilizzata è quella di confrontare un trattamento non ancora
testato con un tipo di psicoterapia standard o "as usuai" (prestazioni
di routine). L'uso di trattamenti standard o di routine come condizione
di controllo implica assumere come riferimento per i nuovi trattamenti
l'intervento in quel momento applicato nel caso dei problemi e dei
clienti in gioco nella valutazione. Inoltre, i confronti con il
trattamento standard dovrebbero essere messi in campo solo una volta
che tale trattamento si sia mostrato superiore alle condizioni di
controllo volte a verificare spiegazioni alternative dei risultati.
Senza tali test preliminari, nel caso in cui sia il trattamento
standard che quello nuovo mostrino miglioramenti, il ricercatore non
sarebbe nelle condizioni di poter determinare se tali miglioramenti
siano dovuti al trattamento o ad altri fattori, quali il trascorrere
del tempo o l'esperienza generica di aver ricevuto una forma di
intervento. L'uso di trattamenti standard come forma di controllo offre
un vantaggio: si risolve in modo definitivo il problema etico relativo
all'uso di controlli basati sull'assenza di trattamento, dato che la
qualità dell'assistenza è garantita a tutti i
partecipanti allo studio; allo stesso tempo, dato che ciascun
partecipante riceve trattamenti, è probabile che il numero di
soggetti che abbandona lo studio rimanga minimo. Il problema più
grande in tale tipo di studi è che tali ricerche vengono
promosse proprio dai gruppi che vogliono validare il proprio
trattamento e dimostrarne la superiorità rispetto ad altrui
trattamenti.
Il confronto viene effettuato con un gruppo di controllo basato su
assenza di trattamento, trattamento alternativo o placebo e con
assegnazione ran-domizzata ai gruppi (Randomized Control Trial); o di
un disegno sperimentale basato sul caso singolo (Controlied Single-Case
Experimenf)', o di un disegno basato sul confronto di campioni
temporali equivalenti (Equivalent Time-Sampks Design).
Da tale confronto deve emergere che TEST sia significativamente
superiore alla condizione di non trattamento, di placebo o di
trattamento alternativo o che TEST sia equivalente al trattamento
già riconosciuto efficace.
Alcuni aspetti dell'impianto di ricerca degli studi randomizzati
suggeriscono indicazioni rilevanti per i ricercatori impegnati nella
psychotherapy research. Coloro che si impegnano nella ricerca in
psicoterapia utilizzano, per descrivere i risultati, i dispositivi
della statistica inferenziale tradizionale, implicanti la definizione
preliminare dei livelli di probabilità, il calcolo
dell'entità dell'effetto (effect size) — volto a misurare quanto
rilevante sia l'impatto del cambiamento - e la stima del significato
clinico del cambiamento (Jacobson e Truax, 1991; Kazdin, 2003). Il
concetto di appropria-tezza in politica sanitaria prevede la
necessità di offrire ai pazienti trattamenti basati su prove di
efficacia (Empirically Supported Treatments); attualmente, in ambito
psicoterapeutico, nel nostro Paese, tali sforzi appaiono vani.
Specificita' del trattamento
Un importante aspetto della verifica di efficacia dei trattamenti
è la capacità di pervenire ad una definizione operativa
dei trattamenti stessi. La soluzione tipica di questo problema implica
lo sviluppo di manuali di trattamento che guidi l'azione del terapeuta
nel corso dell'intervento. Per replicare la valutazione di un
trattamento, o per mostrare ed insegnare come condurlo, è
essenziale che esso sia adeguatamente descritto. I manuali rinforzano
la validità interna delle ricerche, in quanto garantiscono
l'integrità del trattamento analizzato; ciò attraverso
l'uso di scale di valutazione dei terapeuti implicati nella ricerca,
relativamente al grado di conformità al modello manualizzato e
di competenza nell'applicarlo. I manuali permettono, inoltre, la
comparazione dei trattamenti tra differenti contesti e formati; allo
stesso tempo eliminano fattori spesso fonte di confusione, quali le
differenze nella quantità di contatto tra terapeuta e cliente,
il tipo e la quantità di formazione necessaria per implementare
il trattamento. Relativamente agli studi comparativi di esito e ai
trattamenti sostenuti da prove di efficacia (EST) vi è poco
accordo circa la presenza e l'entità di effetti differenziali
tra trattamenti diversi (Lambert e Ogles, 2004; Wampold, 2001).
IL DIBATTITO INTORNO AGLI EST
- La Evidence Based Medicine ha rappresentato il modello di riferimento
nel campo delle scienze sanitarie e della psicoterapia negli ultimi 15
anni. Lo studio empirico della psicoterapia ha compiuto innegabili
progressi grazie a tale paradigma. Esso ha infatti offerto la cornice
epistemologica e concettuale per la crescita complessiva della
qualità della ricerca. Bisogna considerare che fino a 15 anni fa
l'ambito psicoterapeutico in Italia era davvero lontano da ogni forma
di verifica empirica, per cui la scelta del trattamento era fondata
sulla autorevolezza dei clinici e non sulle evidenze scientifiche o
sulla diagnosi del paziente. La EBM è stata in grado di definire
l'agenda metodologica in modo strettamente correlato alle strategie per
affrontare tali problemi.
A tutto ciò va aggiunto un ulteriore fondamentale merito: la
filosofia EB ha introdotto una cultura del rigore scientifico in grado
di legittimare e consolidare socialmente le prassi psicoterapeutiche
sia a livello della professione privata che a livello delle istituzioni
pubbliche della sanità. Non da ultimo, va riconosciuto il
contributo che il movimento EB ha dato alla dei-deologizzazione della
ricerca intorno alla psicoterapia.
Oggi non si può certamente affermare che il modello EB sia
superato. Al contrario, esso è saldamente radicato ed esercita
un'influenza strategica sulla ricerca (ovviamente non solo di tipo
concettuale, ma anche culturale, economico ed istituzionale). Sono
molti coloro che ne sostengono le ragioni e ne richiamano la
necessità. Le riviste autorevoli che adottano criteri di
valutazione derivati da tale modello di ricerca sono probabilmente la
maggioranza. Il modello EB costituisce dunque oggi il paradigma
dominante. Negli ultimissimi anni è andato tuttavia montando un
movimento critico nei confronti di tale modello della ricerca
sperimentale (la Randomized Clinical Trial, RCT) che ne costituisce la
derivazione sul piano metodologico ed operativo.
Riprendiamo brevemente alcune delle fondamentali critiche sollevate.
In primo luogo, viene osservato come le metodologie messe in atto sono
molto simili, se non identiche, a quelle utilizzate per la ricerca in
ambito farmacologico, assumendo il concetto che un farmaco e un
trattamento psicoterapeutico producessero degli effetti e dei risultati
discreti e misurabili (Westen e Shedler 2007; Howard, Orlinsky, Lueger
1994; Zeeck, Hartmann, Oriinsky, 2006).Questa critica veicola due
generi di feconde implicazioni. Da un lato, JJ rifiuto di quelle
posizioni che tendono ad identificare la ricerca EB come l'unico
modello della ricerca in psicoterapia. Dall'altro, la prospettiva di un
progresso nello stesso campo della RCT, conseguente alla
capacità di questo tipo di ricerca di approfondire e validare
empiricamente gli stessi assunti che pone a proprio presupposto.
Emblematico di questa posizione il recente oramai già classico
lavoro di Westen e colleghi (2004).
Tale critica ha diverse ragioni di esistere (anche di ordine politico)
per cui la EBM aveva favorito in modo inequivocabile la diffusione
della terapia cognitiva in molti ambiti clinici ed istituzionali,
facendo un po' perdere il primato alla psicoanalisi o ad altre forme
terapeutiche. Di fatto, la critica principale degli Autori si basa sul
fatto che il campione clinico sottoposto a trattamento è il
risultato di una selezione così artificiale per cui non potrebbe
in alcun modo costituire un riferimento rappresentativo della
popolazione clinica (per esempio, assenza di comorbidità).
Un'altra obiezione riguarda gli interventi del terapeuta, per i quali
si assume un nesso stretto causa-effetto. Westen e colleghi, sostengono
che la ricerca RCT per svilupparsi debba applicare anche a se stessa -
ai propri assunti - il principio aureo della validazione empirica.
L'intento di Westen e colleghi è volto a migliorare la
validità ed utiliz-zabilità di tale forma di ricerca. Ed
è interessante che in questa prospettiva gli Autori evidenzino
l'esigenza di sviluppare studi di campo, basati sulla metodologia
correlazionale (ad esempio, in questi anni si è
significativamente sviluppata la ricerca single case).
Va comunque detto come a favore degli EST gioca il riconoscimento di
come gli studi di efficacia nella pratica (effectiveness) abbiano
evidenziato che i protocolli efficaci testati possono essere applicati
nella pratica clinica con qualche adattamento (Nathan, 2005; Gorman,
1998; Barlow et al., 2000).
Basandosi su dati di questo tipo, i fautori degli studi EST hanno
elencato i seguenti vantaggi: a) divulgare la conoscenza; b)
miglioramento delle cure rivolte al paziente; e) indirizzare i
finanziamenti verso forme di ricerca efficaci; d) migliorare la
formazione; e) incoraggiare la ricerca in psicoterapia; f) vasto
consenso; g) valore euristico (Barber, Crits-Christoph, Luborsky, 1996;
Barlow, 1996; Fonagy e Target, 1996; Roth e Fonagy, 1996; Chambless e
Hollon, 1998).
Tali ricerche hanno l'obiettivo di trasformare l'efficacia dei setting
sperimentali (efficacy) in efficacia clinica nei setting reali
(effectiveness). Anche quando un trattamento ha trovato riscontro
empirico, il suo trasferimento da un setting (la ricerca clinica) ad un
altro (i servizi clinici) rappresenta un problema autonomo e rilevante,
oggetto di un ulteriore ambito di interesse.
Comunque sia, quando si comparano gli effetti dei trattamenti condotti
in contesti di ricerca con i trattamenti condotti in contesti clinici,
si trovano differenze significative.
RICERCHE SUL PAZIENTE
I dati prodotti da questo tipo di pratica di ricerca non solo hanno
effetti in tempo reale sul miglioramento degli esiti dei trattamenti
(Lambert, Whipple et al., 2003), ma possono anche essere cumulati per
fornire stime del numero di sessioni necessarie per la guarigione del
paziente (Anderson e Lambert, 2001), così come per permettere ai
clinici e agli operatori di realizzare operazioni di benchmarking
relative agli esiti dei trattamenti. Confrontare gli esiti ottenuti dai
pazienti può portare all'identificazione di terapeuti con
livelli di efficacia fuori norma; ciò con il duplice fine di
promuovere la continuità dei servizi di cura e lo sviluppo di
metodi di miglioramento della qualità, quali ad esempio quelli
basati sulla diffusione delle strategie che caratterizzano i terapeuti
altamente efficaci. L'assunto su cui si basa questo tipo di ricerca
è che la relativa trasparenza degli esiti è di beneficio
per il paziente in quanto permette a questi di selezionare l'erogatore
di servizi sulla base di un criterio di efficacia piuttosto che delle
sollecitazioni del contesto culturale, dei testimoni o simili.
STUDI DI PROCESSO
Gli studi d'efficacia, in particolare i protocolli EST tipicamente
disegnati per disturbi in Asse I, si sono dimostrati appropriati per
valutare il trattamento di problemi focali (Goldfried e Eubanks-Carter,
2004; Westen e Morrison 2001). Tale metodologia non permette di
identificare quali fattori siano associati al miglioramento e quali
invece siano dei fattori limitativi del cambiamento, ovvero a ritrovare
all'interno della ricerca sia i mediatori che i modulatori
dell'efficacia della psicoterapia. Per identificare mediatori e
modulatori è necessario lo studio del processo terapeutico.
Negli studi di processo viene analizzato tutto ciò che avviene
nell'interazione tra terapeuta e paziente all'interno del setting
terapeutico, dagli aspetti della relazione terapeutica ai singoli
comportamenti del paziente, dalla comunicazione verbale agli scambi non
verbali; vengono valutati gli aspetti tecnici del trattamento, il
modificarsi nel tempo di aspetti sinto-matologici, di funzionamento o
relazionali. Il fine è quello di cogliere i microcambiamenti che
producono l'esito finale del trattamento, per poter dedurre delle
regole sottostanti a tali fenomeni psicologici e verificare ipotesi sul
trattamento formulate inizialmente in riferimento alla tecnica
utilizzata. Il disegno di ricerca maggiormente utilizzato negli studi
di processo è quello naturalistico, che prevede la valutazione
di indicatori prestabiliti. Tali singole unità possono essere
identificate nell'ambito del complessivo dialogo terapeutico,
così come nella verbalizzazione del paziente oppure negli
interventi del terapeuta.
Possiamo dire che gli studi di processo rappresentano, vista la loro
organizzazione, l'ambito di ricerca preferenziale per poter
identificare i mediatori e i moderatori di un trattamento
psicoterapeutico; l'identificazione di questi elementi risponde infatti
alla necessità di comprendere su cosa il trattamento agisce e
perché funziona.
IL SINGLE CASE
La ricerca single case è una modalità di studio nella
quale "l'unità di osservazione non può essere
ulteriormente scomposta" (Yin, 1994); vengono effettuate valutazioni
ripetute per verificare variabili dipendenti e variabili indipendenti.
Per esempio, se si vuole studiare se un intervento terapeutico migliori
o meno le capacità metacognitive allora si definirà
rigorosamente l'intervento come variabile indipendente e si
misurerà attraverso scale predefinite all'interno della singola
seduta quale sia la risposta ad un determinato fattore. La ricerca su
caso singolo prevede la valutazione di numerosi eventi che si
verificano durante le sessioni di trattamento, raccogliendo in tal modo
molti e diversi dati ma su un solo caso.
Come affermano Lingiardi e Fontana (2003): "II disegno sigle-case e il
disegno RCT sono strategie che fanno parte entrambe del bagaglio
metodologico del ricercatore dal quale vengono utilizzate, a seconda
delle caratteristiche della situazione oggetto di studio". Il concetto
del caso singolo è molto simile a quello delle osservazioni
ripetute di un fenomeno, infatti la variabilità e l'andamento di
una singola caratteristica (Roth e Fonagy, 1996) vengono osservati
durante il trattamento, nel tentativo di correlarle all'esito. Gli
studi single case possono avere differenti strategie di ricerca: di
tipo descrittivo - basata su resoconti di casi clinici - o di tipo
quantitativo - metodologia utilizzata in studi esplorativi o
esplicativi di particolari principi, tipica delle ricerche di processo
(Lingiardi e Fontana, 2003). In tal modo, lo studio single case
consente di mettere in discussione in maniera critica le basi sulle
quali sono state costruite teorie generali, per stimolare successive
ricerche dove verificare ed applicare nuovi principi e conoscenze
(Kàchele, 2002); permette inoltre di formulare ipotesi sui
diversi fattori responsabili del cambiamento che possono poi essere
verificati anche attraverso un disegno di ricerca con gruppo di
controllo (Arnold e Grawe, 1989; Grawe, 1988; Grawe e Braun, 1994).
Negli studi single case vi è impossibilità a
generalizzare le osservazioni effettuate sul caso su una popolazione
clinica più ampia, se non attraverso un lento accumulo di casi
clinici; in ogni caso, e come nei modelli EST,anche qui i pazienti che
si sottopongono ad analisi single case saranno sele-zionatissimi e
quindi non rappresentativi della realtà; proviamo, per esempio,
ad immaginare la ricerca su un caso singolo di disturbo paranoide. Il
paranoide che si lascerà registrare sarà certamente
diverso da quello (la gran parte) che non lo permetterà proprio
a causa della sua patologia, e quindi i dati in nostro possesso non
saranno generalizzabili.
CONCLUSIONI
Ogni ricerca sull'efficacia deve preliminarmente aver definito con
chiarezza cosa sia efficace e in base a quale ipotesi teorica. Per
esempio, il trattamento basato sulla mentalizzazione ipotizza che una
buona relazione madre-bambino migliori la funzione riflessiva del
bambino e che questo fattore sia protettivo dalla psicopatologia. Le
ricerche sono iniziate con la misurazione della scala della funzione
riflessiva e poi sulla modellizzazione degli interventi che in terapia
sembravano migliorare tale funzione (caso singolo); a questo punto il
modello di psicoterapia è stato applicato ad un certo numero di
pazienti manualizzando gli interventi e verificando se il miglioramento
della funzione riflessiva fosse o meno correlato al miglioramento
sintomatico. Quindi dopo tali step è stato confrontato il
trattamento con altri trattamenti di cui era stata dimostrata
l'efficacia.
Un esempio in questa dirczione è quello di Marsha Linehan
(Linehan et al., 2006). Tale Autrice riesce non solo a fornire
un'ipotesi etiopatogenetica forte (teoria dell'ambiente invalidante)
per spiegare la psicopatologia e formulare ipotesi di intervento
(intervento di validazione), ma anche a dimostrarne l'efficacia clinica
sia in ambito sperimentale che in ambito di realtà clinica su
comportamenti specifici (suicidio e parasuicidio). Gli sforzi
effettuati da Clarkin e Levy (2006) sui meccanismi di cambiamento in
psicoterapia incrementano ancora di più il bagaglio di
conoscenze a nostra disposizione.
Da tali argomentazioni si devono trarre anche delle riflessioni di
carattere operativo, come quella della verifica delle ipotesi
patogenetiche. Per esempio, in Italia, esistono molte correnti di
pensiero e ipotesi teoriche che non solo non hanno il conforto della
ricerca ma che ormai non riescono a spiegare i fenomeni clinici per cui
erano state pensate. Nel nostro mestiere non possiamo affermare di
certo che solo le psicoterapie che hanno avuto il benefìcio
delle prove di efficacia sono efficaci, perché non è
così. Dobbiamo comunque avere l'umiltà di sottoporre a
prove sperimentali sia le affermazioni di base su cui si poggia la
nostra impostazione teorica che, di conseguenza, il trattamento che
stiamo proponendo al nostro paziente. In realtà dovremmo
verificare se i cambiamenti che osserviamo nel nostro paziente siano
descrivibili partendo dai presupposti di base su cui si fonda il nostro
trattamento.
Su questo punto, purtroppo, molti approcci terapeutici presenti nel
nostro paese, non troverebbero ragione di esistere e non sarebbero
ammessi in una comunità scientifica.
Le ricerche hanno dimostrato che la psicoterapia, indipendentemente
dall'approccio utilizzato, è sicuramente efficace. E stato
osservato come, alla fine di un percorso psicoterapeutico, risulta
stare meglio l'80% dei pazienti rispetto ai gruppi di controllo non
trattati (Lambert e Bergin, 1994). La ricerca empirica ha così
permesso di affermare la psicoterapia come disciplina scientifica
(Orlinsky, Grawe e Parks, 1994).
Un professionista al giorno d'oggi non può permettersi di
ignorare le ricerche effettuate sul trattamento del disturbo da
attacchi di panico, ripetute in centinaia di contesti, tanto da
convincere l'Organizzazione Mondiale della Sanità che il
trattamento cognitivo comportamentale è il più efficace
trattamento per questo tipo di pazienti. Si badi bene: viene validato
solo il trattamento cognitivo comportamentale standard o di gruppo
(Andrews et al., 2005).
Le critiche che possono essere mosse a questo tipo di intervento
saranno certamente moltissime ma, di fatto, sul problema specifico
(attacchi di panico) su una determinata popolazione di pazienti, si
può certamente concludere che uno specifico trattamento (CBT)
riduca sensibilmente l'ansia e il panico. Un clinico che non consideri
questa evidenza dovrebbe almeno addurre delle spiegazioni.
La ricerca single case si dimostra insostituibile nel confutare,
piuttosto che nel confermare, ipotesi di funzionamento mentale, ma
presenta dei significativi problemi di generalizzazione. La ricerca
single case è cruciale in quelle patologie in cui il meccanismo
patologico è molto chiaro. Ad esempio, nelle patologie
neurologiche descritte da Oliver Sacks e da Antonio Damasio in cui il
sistema e i circuiti alla base della patologia sono ben conosciuti
(vedasi per esempio la patologia a carico dei gangli della base), per
cui la descrizione del caso singolo può rafforzare l'ipotesi
patogenetica o permettere di acquisire nuovi elementi per il suo
completamento. Nell'ambito del trattamento dei disturbi mentali non
siamo ancora a questo punto: come funziona la mente e quali sono le
variabili che possono determinare una malattia mentale non è
noto e ciò non ci permette di avere dei modelli perfetti. Anche
i criteri diagnostici spesso sono sfumati e non netti tra una patologia
ed un'altra. Ma se questa obiezione è vera per i RCT, in cui le
caratteristiche dei pazienti sono troppo selezionate per poter
consentire una generalizzazione, non si può certo pretendere che
un singolo caso possa essere esaustivo nella comprensione di una
patologia di una forma di trattamento.
Nel futuro, la ricerca in psicoterapia sarà chiamata a dare
maggiori indicazioni per la pratica cllnica; dovrà proporre
acquisizioni controllate empiricamente, che possano così
migliorare l'efficacia dell'intervento clinico. In tal modo i clinici,
così come gli amministratori dei servizi di salute mentale, non
potranno ignorare la psicoterapia nel ventaglio di offerte
terapeu-tiche al pubblico. Ogni scuola di formazione in psicoterapia
dovrebbe dedicare parte delle proprie risorse alla ricerca sulla
efficacia della metodologia di intervento insegnata.
Il che evidentemente rimanda ad un grosso problema, che qui ci
limitiamo a richiamare: le implicazioni economiche e di potere legate
alle direzioni della ricerca. È infatti evidente che la
validazione di una determinata metodologia di intervento non è
solo una questione scientifica, ma anche economica, sia a livello di
mercato delle prestazioni professionali che dei processi di
distribuzione delle risorse pubbliche e istituzionali.
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