Una critica a
Jervis : i nostri conti con Basaglia
da Psichiatria oggi del dic.08, di
E.Ventarmi, A. Pirella, D. Casagrande, I . SchiLLn; A. Slavicli, N.
Goldschmidt, B. Norcio.V. Pastore, R. Piccione, P Serra
Gorizia
Nell'ultimo libro di G. Jervis e e G. Corbellini e nelle
interviste su alcuni quotidiani che promuovono l'uscita del libro, si
esprimono giudizi severi sul movimento antistituzionale italiano e
sulla riforma psichiatrica del 1978. Tali critiche da parte di Jervis
non sono nuove, ma la loro ripresa appare in sintonia con l'attuale
revisionismo contro il movimento del '68 e contro l'epoca delle
riforme. D'altra parte Jervis si trova spesso
in compagnia con idee conservatrici - la sua critica al relativismo
scientifico, ad esempio, si allinea in buona parte a quella espressa
dal prof. Pera e dal prof. Ratzinger sul relativismo culturale. Non
è il caso di entrare nel merito di tali analisi, se non facendo
presente come questo orientamento abbia un preciso riferimento al
presente, in quanto cerca di attribuire a quel periodo, certamente
contraddittorio e parziale, ma indubbiamente promotore di forti istanze
di libertà e di emancipazione, la responsabilità di un
influsso nefasto sulla cultura e sui comportamenti delle persone. In un
clima sociale di insicurezza, l'attribuzione del disordine e del
disagio a istanze di libertà e di giustizia, presenti e passate,
è congeniale a un progetto repressivo della società.
Non ci sembra nemmeno il caso di contrastare le pesanti critiche
personali rivolte a Franco Basaglia da Jervis. Tali critiche vogliono
comprovare la povertà morale del personaggio e affermare di
conseguenza il discredito del suo operato. Ognuno ha naturalmente
diritto a sostenere le proprie idee e noi non pretendiamo di
"santificare" il personaggio-Basaglia, né di reclamarne
l'agiografia. Ma poiché Jervis, da quarant'anni ormai, si pone
in modo ostile verso Hasaglia, polemizzando pubblicamente con le sue
scelte, è difficilmente credibile ogni suo tentativo di
collocarsi in una sorta di distaccala neutralità, specie se
narra episodi privi di oggcllivi riscontri. Jervis usa la tecnica
consumata del gossip: dichiara preliminarmente rispetto per la
controparte in modo che le successive velenose critiche, formulate
quasi controvoglia, siano avvalorate proprio dalla buona disposizione
dell'autore. In ogni caso ogni giudizio sulla vita privata di una
persona costituisce sempre una grave caduta di tono e diventa
inqualificabile se l'interessato è scomparso e non può
più controbattere. A un certo punto sorge anche il legittimo
dubbio che le interviste sui giornali o alla radio, i dibattiti su
Basaglia, come quello tenuto a Lodi da Jervis sul tema dell"Invidia",
vogliano dar lustro all'autore contrapponendolo a un personaggio
celebre e facciano parte di una tecnica pubblicitaria. Dare vita alle
polemiche rischia pertanto di fare il gioco di questa strategia... E tuttavia non possiamo non
intervenire contestando come falsa l'etichetta di "antipsichiatra", che
Jervis attribuisce a Basaglia. Probabilmente Basaglia non avrebbe speso
nemmeno una parola per difendere la sua identità, considerandolo
un ozioso dibattito. Ma la questione, per noi, merita una riflessione,
perché non è forse del tutto accademica e si inscrive nel
tentativo più complesso di liquidare la riforma psichiatrica,
attribuendo ogni sua difficoltà non al modo con cui è
stata ed è governata, quanto piuttosto a una sorta di peccato
originale - l'antipsichiatria - che finalmente potrà essere
corretta ed eliminata. Naturalmente per noi essere definiti
antipsichiatri non costituisce un'offesa!
I'antipsichiatria nel panorama degli anni '60 ha costituito un pensiero
positivo, ricco di aspirazioni emancipatrici, ed è servito per
squarciare il mondo oppressivo della psichiatria Iradi/ionale. Ma le
differenze tra il pensiero anlipsichialrico e il pensiero-azione
antistituzionale di Basaglia, la diflerenza fra la deospedalizzazione e
la deistituzionalizzazione sono state evidenti fin dall'inizio. Il
rifiuto di Basaglia di essere considerato un antipsichiatra è
sempre stato categorico e inequivocabile. Gorizia era nata nel '61,
molto prima del successo dell'antipsichiatria, e i punti di riferimento
scientifico-culturali dei due pensieri erano profondamente diversi e
soprattutto diversi sarebbero stati i loro sviluppi. Jervis non nega
tutto ciò, riconosce il valore di Gorizia (naturalmente nel
periodo in cui lui era presente) e afferma che l'involuzione
antipsichiatrica di Basaglia avviene successivamente, negli anni '70,
quando Basaglia si appiattisce sul pensiero di un cattivo maestro -
Michel Foucault - e quando considera la malattia mentale solo come una
devianza sociale. Per Jervis ,
Basaglia è sostanzialmente autoritario, dominato dal
massimalismo e dalla ideologia, anche se si mostra paradossalmente
plagiabile dai suoi collaboratori e asservito alle logiche del partito
comunista. Basaglia in quegli anni insegue giochi di potere, è
sempre più avulso dalla pratica, specie quella dei servizi
territoriali, dove si va affermando invece un sano ritorno alla cllnica
tradizionale. L'emblema del fallimento di Basaglia è per
Jervis la creazione e la storia di Psichiatria Democratica. ..
Leggendo questa ricostruzione degli avvenimenti si è presi da un
senso di sbigottito stupore e viene da chiedersi quale film abbia mai
visto Jervis. Poiché il suo film non è certamente quello
visto da chi faticosamente lavorava in quegli anni all'interno della
psichiatria pubblica.E in efetti Jervis non era più presente,
poiché aveva scello di tiirarsi fuori dal sistema sanitario
pubblico. Nella sua analisi da l'impressione, a voler essere generosi,
di essere rimasto fermo all'inizio degli anni '70, quando fa un
bilancio negativo sulla possibilità di realizzare a Reggio
Emilia una psichiatria alternativa, svuotando il manicomio
dall'esterno. In quell'occasione entra in una crisi politica, personale
e professionale - come lui stesso dichiara - che lo porterà a
scegliere la carriera universitaria. È disorientato dal
velleitarismo dei giovani, dalla rigidità delle istituzioni
politiche e dei loro apparati e considera l'irrazionalità e
l'ideologia dominante profondamente deleterie per il bisogno di cura
del malato mentale.
Senza dubbio in quegli anni esisteva un certo rischio di cadere nel
velleitarismo, nell'ingenuità, nel sociologismo assistenziale.
Ma questo rischio si riduceva significativamente quando l'agire si
misurava nella deistituzionalizzazione, a cui Basaglia dava concretezza
a Trieste e altri in differenti contesti. In questi casi il lavoro
quotidiano rendeva evidente come, smontando l'apparato istituzionale
che gestiva l'artefatto-malattia, emergesse la soggettività del
paziente, la sua sofferenza individuale e quella derivante dal suo
contesto sociale. Questa "scoperta" richiedeva l'aderenza ai bisogni
del paziente, imponeva di rispondere alla sua sofferenza, senza
mistificazione. Basaglia non ha voluto trasformare, delineando solo i
fini e minimizzando i mezzi: per lui era il "come", l'"oggi", il "per
chi", era la concretezza della pratica, che dava senso alle
parole. L'impeto dell'utopia, la tensione critica si sono sempre
misurate in lui responsabilmente con un soggetto, che - come era solito
dire - non era un'astrazione (la malattia) quanto piuttosto una persona
(il malato). Contrariamente a quanto asserisce Jervis, Basaglia ha
applicato il metodo della sospensione del giudizio - l'epoche di Edmund
Husserl - secondo cui il cambiamento diventa possibile solo nella
interruzione del tempo, nella possibilità che il pensiero pensi
con la forza del negativo e dell'impossibile. Basaglia, per liberare la
voce della follia, ha imposto il silenzio alla scienza. La malattia mentale è stata
messa tra parentesi per consentire, a chi era ritenuto incapace, di
poter esprimere i propri bisogni e la propria soggettività.
Basaglia non ha voluto giocare con le parole: ha cercato di dar voce al
"contenuto trasformato", secondo il pensiero di Karl Marx. Ha evitato
di parlare al posto dei pazienti, di ergersi a paladino dei loro
bisogni, interpretandoli, dando loro nuovi contenuti. Mantenendo la
disponibilità all'ascolto ha consentito l'emergere di un nuovo
modo di relazionarsi e ha permesso di capire ciò che prima era
impedito. Erano i pazienti che dovevano esprimersi: loro dovevano
diventare i veri protagonisti della cura! La dimostrazione della
ragionevolezza di quel pensiero è oggi sotto i nostri occhi:
è la straordinaria vitalità dei movimenti degli utenti,
dei familiari, l'auto-mutuo-aiuto, il recovery. Si obietterà che
alcuni di questi movimenti si sono sviluppati nella cultura
anglosassone degli anni '80. È vero, ma bisogna considerare che
un certo ritardo nel riconoscimento delle esperienze italiane dipende
anche dalla egemonia internazionale della letteratura scientifica
inglese. E comunque questo nuovo modo di intendere la cura e la
malattia - anglosassone o italiano che sia - affonda le sue radici nei
movimenti dei diritti civili degli anni '60 e '70 e ha certamente
trovato un riferimento significativo nelle esperienze italiane di
deistituzionalizzazione. L'aver intaccato radicalmente l'idea della
cronicità e della irrecuperabilità del paziente
psichiatrico ha costituito il terreno su cui si è potuta
sviluppare l'idea del recovery. La presenza di questo orientamento
rappresenta la testimonianza tangibile che è stato giusto
mantenere aperte le contraddizioni e non imporre una teoria di
ricambio. Ed era questa la prospettiva in cui si sono mosse, in quegli
anni '70, Trieste e le numerose esperienze che Jervis dimentica di
citare - Arezzo, Città di Castello, Ferrara, Genova, Napoli,
Parma, Perugia, Porde-none, Torino e certamente anche Reggio Emilia.
Dalla loro esperienza e dal ricco apporto delle altre successive
esperienze si è venuto definendo il nuovo paradigma della
malattia mentale e Distruggendo l'istituzione e sospendendo il discorso
scientifico sulla malattia mentale, i nodi del potere e del sapere, in
verità, non sono stati sciolti per sempre: sono solo stati
allentati. "La distruzione
dell'OP, in sé stessa,- diceva infatti Basaglia - non significa
nulla. E tuttavia la condizione che può far emergere,
finalmente, la questione psichiatrica". La psichiatria tradizionale si
è ritrovata spiazzata: una falla si è aperta nella
intersezione tra potere e sapere, tra le pratiche e le teorie. Le
conoscenze, i saperi tradizionali però non sono stati rifiutati
o gettati via. Nel nuovo contesto liberato i saperi hanno assunto una
pregnanza diversa, anch'essi sono stati "liberati", sono diventati
patrimonio di nuovi protagonisti. Le conoscenze tradizionali si
sono arricchite, quando si sono confrontate con quelle che scaturivano
dalle esperienze di deistituzionalizzazione. Caratteristiche fondanti
di tali esperienze sono state, sia la messa in crisi di due
fondamentali paradigmi clinici - quello fondato sugli antagonismi e
quello basato sul principio problema/soluzione - . che il passaggio dal
percepirsi del paziente al suo realizzarsi. Non è stato negato
infatti il valore dell'inconscio, né della presa di coscienza
del soggetto; è stato valorizzato l'esercizio del potere
personale (bene primario della persona), il riconoscimento della
contrattualità sociale, la pratica dei diritti di cittadinanza,
la costruzione e l'invenzione di fattive possibilità di fruire e
di produrre. Prendersi cura del paziente ha significato la progressiva
modifica dello statuto sociale dell'utente - da malato a cittadino
portatore di sofferenza - e ha prospettato un modo altro di fare
terapia. Ha proposto una
metodologia innovativa basata sull'invenzione di strategie indirette,
sulla messa in opera progressiva della rinuncia a ogni soluzione
ottimale, sulla convivenza con contraddizioni logiche e pratiche, sulla
capacità di mettere a frutto la propria competenza del residuo,
producendo un'esperienza cognitiva sulla produttività della
incertezza, delle contraddizioni, del non equilibrio. In sostanza
considerare tutto ciò antipsichiatria e definire Basaglia un
antipsichiatra costituisce una forzatura ingenua e faziosa. Il
pensiero di Basaglia deve essere ricondotto piuttosto all'interno di
una più vasta analisi epistemologia, che interessa le scienze
umane, ed è parte di una più generale rivoluzione
simbolica del pensiero.
Dal successo delle esperienze di rovesciamento istituzionale, dal
successo della esperienza di Trieste, che ha chiuso il manicomio e ha
costruito una rete di servizi sul territorio, è nato quell'ampio
consenso di cittadini e di tecnici che ha reso possibile la
promulgazione della legge di riforma. È logico che le leggi
vengano presentate al parlamento dai politici - in questo caso da Bruno
Orsini - e che siano frutto di mediazioni ed è anche risaputo
che Basaglia avrebbe preferito altre formulazioni. Ma Basaglia ha fatto
propria quella legge e perciò la 180 giustamente è
riferibile a lui: esprime il suo realismo, la sua capacità di
dare concretezza e solidità ai processi, secondo una strategia
di ricerca dell'egemonia nella democrazia. "Non dobbiamo vincere
-diceva Basaglia - dobbiamo solo convincere!"
Jervis sorvola sugli autorevoli riconoscimenti nazionali e
internazionali nei confronti della legge e del movimento
anti-stituzionale, omette di menzionare che l'Organizzazione Mondiale
della Sanità ha scelto le esperienze basagliane come suoi centri
accreditati, omette di ricordare che la maggior parte dei paesi - e
anche quelli di lingua anglosassone - si sono mossi, a partire dagli
anni' 80, nel solco tracciato dall'esperienza italiana. Non cita la
ricca letteratura a favore delle esperienze e imputa a Basaglia il
rifiuto, per partito preso, di promuovere la formazione degli operatori
psichiatrici e di conseguenza gli imputa le difficoltà in cui si
trovano oggi gli operatori. Queste critiche ricordano la storia di
colui che scambia il proprio dito indice con la luna a cui il dito
è invece rivolto. In
realtà è proprio il mondo deputato alla formazione -
l'Università - che è rimasto chiuso ai cambiamenti. Sono
proprio i gestori del potere universitario, anche se con debite
eccezioni, che si sono dimostrati incapaci di cogliere la rilevanza dei
processi occorsi, che sono rimasti subalterni alla psichiatria
americana e che hanno permesso una certa deriva professionale degli
operatori psichiatrici. Basaglia avrà avuto certamente
dei limiti, avrà commesso degli errori, come ciascun essere
umano, ma ha avuto ragione in molte occasioni. L'ha avuta quando ha
ritenuto che l'unica strategia possibile per il cambiamento fosse
decostruire prima di tutto il manicomio, arrivando alla sua effettiva
chiusura, senza fughe in avanti; ha avuto ragione quando con il
successo della deistituzionalizzazione avrebbe potuto proporre nuove
teorie e invece ha rilanciato l'esigenza di oltrepassare la proposta
politica, andando alla socializzazione della questione psichiatrica; ha
avuto ragione non anteponendo la sua voce a quella dei pazienti,
consentendo la presa della parola da parte di chi ne era sempre stato
privato; ha avuto ragione quando nel pieno del successo ha rifiutato di
andare all'Università, preferendo con coerenza di rimanere nella
trincea del sistema sanitario per affrontare le contraddizioni della
pratica. Ma Basaglia ha soprattutto dimostrato che la trasformazione
è possibile, quando il pensiero pensa con la forza del negativo
e dell'impossibile e si accompagna al coraggio della determinazione e
della coerenza. Altri soggetti di fronte alle difficoltà, alle
contraddizioni della pratica si sono arresi al pessimismo della
ragione; lui invece è andato avanti sorretto dall'ottimismo
della volontà.
Nell" intervista a Jervis su Repubblica del 4 settembre si parla de "I
miei conti con Basaglia". Non sappiamo se Jervis abbia finalmente
saldato i suoi conti con Basaglia (per la sua salute e per la nostra
glielo auguriamo!) Ma noi no! Noi non abbiamo saldato i nostri conti
con Basaglia. Franco ci manca e noi continuiamo a pensare a lui, alla
sua lucidità, al suo coraggio. E proprio in questo momento
difficile noi vogliamo continuare a fare i conti proprio con il suo
richiamo ali'ottimismo della volontà, con il suo richiamo
all'etica della responsabilità personale, al dover essere per
sé, per meglio essere e per fare per gli
altri.