Articolo di
Giovanni Jervis "Cinquant'anni di psichiatria" da Epidemiologia
Psichiatrica
Nel corso degli ultimi decenni e in particolare a partire dagli
anni '60 dello scorso secolo, vari fattori hanno contribuito a
trasformare il panorama della psichiatria. L'avvento degli psicofarmaci
di sintesi è stato l'elemento principale di rottura e di
apertura di nuove e inattese prospettive. Su questo punto esiste un
buon consenso fra i vari autori: senza l'invenzione dei neurolettici
sarebbe stato ben difficile rinnovare la struttura e la concezione
stessa dell'assistenza psichiatrica pubblica e chiudere i grandi
ospedali psichiatrici. Tuttavia, sia come conseguenza sia in modo
concomitante rispetto all'ingresso dei nuovi strumenti terapeutici,
altri fattori hanno contribuito alla trasformazione del panorama
epidemiologico per quanto riguarda gli orientamenti di cura e di tutela
dei pazienti e delle loro famiglie.
Il tema di questa mia esposizione riguarda la presenza di un contrasto,
tuttora non felicemente risolto, fra due di questi fattori di
rinnovamento.
Da un lato, la maggiore attenzione dell'opinione pubblica e
della cultura non specialistica nei confronti di tutte le forme di
disagio psichico si è accompagnata a quella che si potrebbe
chiamare un'esigenza di umanizzazione della disciplina. La
trasformazione dell'assistenza psichiatrica pubblica in senso non
custodialistico e impersonale, e talora oggettivante e inumano, ma al
contrario, secondo un' accresciuta sensibilità alle sofferenze
soggettive dei pazienti, ai loro diritti, alla privacy, alla
qualita della vita di tutti, non sarebbe avvenúta senza
l'immissione di un ventaglio di `tematiche_ propriamente
umanistiche all'interno delle discipline della psiche. Con
difficolta' , ma secondo un mutamento reale , sia la cultura
comune, sia gli strumenti professionali di psicologi, psichiatri,
assistenti sociali, operatori di base, si sono arricchiti di una
maggiore sensibilità morale, di una consapevolezza etica,
che per quanto possa essere giudicata ancora oggi insoddisfacente
è certamente maggiore, e più pensosa e attenta, di
quella che era prevalente in passato per quanto concerne le strutture
di assistenza psichiatrica pubblica. Non solo la psichiatria è
diventata più sensibile ai problemi umani, ma si è resa
anche più avvertita alla tematica generale della
soggettività, della vita interiore, delle emozioni.
Ecco dunque un fattore, o un insieme di fattori, che sono diversi, che si pongono in una dimensione differente, rispetto al clima di oggettività prevalente oggi come ieri ali' interno delle scienze esatte e degli aspetti più tecnico- specialistici di tutte le branche della medicina, psichiatria compresa. In altre parole, e in pratica, le discipline della psiche si sono rese conto del fatto che se non vi è una vera sensibilità umana all'interno di tutti i momenti della valutazione e della cura, allora anche gli strumenti tecnico-scientifici più collaudati rischiano di essere impiegati male, e talora perfino di dare effetti negativi.
Da un altro lato, invece, e con un percorso inverso, la psichiatria di oggi, paragonata a quella dominante mezzo secolo or sono, ossia negli anni '50, ha visto aumentare la propria credibilità come disciplina medica: qui l'avvento degli psicofarmaci di sintesi è solo un aspetto di questa trasformazione, che riguarda, come dirò meglio fra poco, non tanto e non solo le terapie ma soprattutto, e su un piano assai più generale e significativo e profondo, l'imporsi e il successo del metodo scientifico nell'ambito delle scienze umane.
Queste due diverse e – per certi lati – opposte tendenze tendono peraltro ad esplicarsi in due momenti, o aspetti, differenti della vasta problematica psichiatrica.
La maggiore sensibilità al vissuto soggettivo dei pazienti, alle loro attese, sofferenze, illusioni e speranze si lega a un' attenzione parimenti più acuta alle problematiche psicologiche dei curanti stessi, configurandosi in tutta la sua importanza quando siano in gioco le prospettive di cura del singolo paziente, di qualsiasi singolo paziente. Qui la disponibilità a cogliere, anche empaticamente, tematiche psicologiche complesse, e l'attenzione alla sofferenza, e il mettersi personalmente in gioco nell'incontro con l'altro, valgono soprattutto nella dimensione del prendersi cura; marginalmente nella valutazione, ma più centralmente nel cercare di venire incontro ai bisogni reali delle persone sofferenti e delle loro famiglia. Qui non contano tanto le conoscenze e le acquisizioni generali quanto le irripetibilità dei casi particolari; qui non progredisce tanto la scienza quanto l'utilizzazione ottimale delle risorse umane, dove il sentire morale può avere altrettanta importanza quanto il conoscere.
Sull' altro versante, invece, ecco che il metodo scientifico, nei suoi aspetti generalizzanti e talora impersonali, non ci aiuta tanto a ottimizzare le possibilità di rapporto e di cura, quanto a stabilire canoni di diagnosi e di valutazione, e schemi generali d'intervento. Esso ci fa acquisire non tanto sensibilità nuove quanto conoscenze nuove. Qui ciò che progredisce non è tanto l'utilizzazione ottimale delle risorse umane quanto la nostra conoscenza della realtà psichica di tutti.
Non vorrei tuttavia che questa dicotomia, o contrapposizione, venisse intesa come il contrasto fra una tradizione romantica, al limite irrazionalista, nebulosamente sentimentale nel suo insistere sui diritti della soggettività,
sull'altro versante una tradizione classicamente razionalista e oggettivista. Le cose non sono così semplici. È caso mai importante il contrasto, peraltro non facilmente risolvibile, fra una problematica conoscitiva generalizzante ed estensiva, quella della scienza, e una problematica, invece, intensiva, idiografica, irrepetibilmente attenta alle esigenze vitali del caso singolo.
Né, del resto, si tratta del contrasto fra un atteggiamento moralisticamente inteso come garitativo, di coinvolgimento, o di buona volontà, e un atteggiamento invece più oggettivo, più freddo, più imparziale. A chiarire quest'ultimo punto ci viene in soccorso quello che è forse il lascito più prezioso di una corrente clinica ormai storica, quella della psicoanalisi freudiana. La clinica psicoanalitica ci ha fornito strumenti preziosi per comprendere quali sono le valenze emozionali, affettive, di speranza ma anche di illusione, che entrano in gioco in qualsiasi rapporto d'aiuto, ma in modo assai più particolare quando l'aiuto sia rivolto a una persona che sia preda di difficoltà psicologiche e di forme qualsiasi di deragliamento delle sue attività mentali. La duplice tematica del contro-transfert e del transfert ci ha insegnato . molte cose. Ogni persona portatrice di problemi psicologici e di sofferenze di tipo psichiatrico tende a sviluppare, nei confronti della figura del curante (o dei curanti) aspettative, anche illusioni assai complesse, spesso internamente conflittuali, non di rado ambivalenti, coinvolgenti l'inconscio sempre molto intense sul piano emozionale; questo potrebbe essere considerato marginale se non ne dipendesse l'esito stesso di qualsiasi processo terapeutico, anche se basato su cure chimiche, a cominciare dalle tematiche più banali della compliance, fino a quelle forme profonde di fiducia, di affetto e di cooperazione che possono coinvolgere la struttura stessa del processo di guarigione.
Qui non si può che considerare con rammarico quanto spesso gli psicologi, ma soprattutto gli psichiatri, siano tuttora poco consapevoli dell'intensità emozionale delle attese consce e inconsce – dei pazienti nei loro confronti, e di quanto intensamente il decorso della terapia possa dipendere da fattori di questo genere. Parallelamente, manca diffusamente un'adeguata consapevolezza dei problemi di controtransfert, cioè del fatto che i moti consci e inconsci , di simpatia o di antipatia, di ostilità o di connivenza, di collusione o di repulsione, di seduzione e di affiliazione, da parte di qualsiasi terapeuta nei confronti di un suo (o di una sua) paziente, possano indirizzare, a seconda dei casi, il trattamento a un esito felice o, all' opposto, condurlo a stalli e a incidenti anche gravi.
La tematica della soggettività dunque, qualora sia depurata dei suoi aspetti più facili e intuitivi, è di importanza capitale in qualsiasi situazione psichiatrica; ma non è una tematica facilmente riferibile a parametri scientifici.
Viceversa, la tematica scientifica è anch'essa meno banale di quello che può sembrare perché riguarda il problema generale delle verifiche. Si tratta di un mutamento di prospettive che ha avuto, luogo soprattutto a partire dalla fine degli anni '70 del Novecento, e si lega al tramonto del metodo clinico classico, che era basato sulla valutazione personale e soggettiva del medico nei confronti delle condizioni del paziente.
Questo mutamento si situa però all'interno di una problematica più vasta, che concerne il rinnovamento della tematica propria delle discipline psicologiche e, più in generale, di quelle che sono oggi denominate sia scienze del comportamento sia in altri casi,scienze cognitive.
Persone di grande cultura tuttora si riferiscono a concezioni psicologiche della fine dell'Ottocento, come quelle di Nietzsche, o dei primi decenni del Novecento, come quelle di Freud e Jung, Husserl o Bergson; a volte arrivano fino a Piaget e a Winnicott, o a Konrad Lorenz, tutti personaggi venerabili e che spesso merita rileggere ma che si fidavano moltissimo del loro intuito e a volte –non è colpa loro - prendevano qualche cantonata.
Nello
spazio di venticinque anni,'fra. il 1975 e il 2000; un accelerata conoscenza del cervello umano e lo
studio dei processi cognitivi – per non parlare degli
studi darwiniani – hanno imposto
revisioni radicali alle ipotesi
tradizionali. Le classiche problematiche della coscienza e dell'inconscio, dell'altruismo e delle
aggressioni, delle emozioni e dei
ragionamenti, sono state largamente sottratte alle speculazioni dei filosofi.
Perfino lo studio della
costruzione dei sentimenti morali ha trovato nuovi terreni di verifica sperimentale, e
portato a scoperte inattese.
Un vasto movimento di revisione ha criticato il candore delle
convinzioni soggettive degli uomini di cultura, sottolineandone il
carattere frequentemente illusorio. E francamente, si dimostrano spesso
assai fragili i modi tradizionali di esprimere autorità e
sicurezza sui temi sociali ed etici. Qui il panorama è discontinuo: ma nell'insieme bisogna dire
che malgrado ritardi e provincialismi nell'ambito delle scienze i vezzi culturali
tradizionali sono andati incontro
a un netto declino. Soprattutto nei Paesi nordici e anglosassoni, il
narcisismo delle Grandi Menti trova sempre meno ascolto. Almeno
nell'ambito degli scambi culturali internazionali stanno scomparendo
dalle conferenze tante affermazioni venate di soggettivismo che
erano usate fino a tempi recenti: "sono fermamente convinto
che..."; "la mia esperienza mi dimostra che..."; "personalmente, sono
arrivato alla conclusione che...":
"questo caso dimostra che..." (un caso singolo, per esempio un caso clinico, forse illustra una tesi, ma non ne dimostra
mai la fondatezza), e altre
simili.
La Evidente Based Medicine è l'esempio centrale di una più vasta rivoluzione del costume epistemologico. L'efficacia di taluni farmaci, che a lungo era stata data per scontata sulla base della concorde esperienza personale – empirica ma, appunto, soggettiva – di migliaia di medici si è rivelata inesistente una volta instaurati controlli statistici col metodo del "doppio cieco". Oggi, a diffferenza di alcuni anni fa, un clinico serio non dice: "prescrivo questo farmaco perché credo nella sua efficacia". Dice invece: "adesso le prescrivo con una certa tranquillità questo farmaco perché vedo qui – e magari guarda il suo computer – che anche le statistiche più recenti confermano che la sua tossicità è trascurabile e che dà significativi vantaggi nell' 80% dei pazienti con il suo profilo clinico".
(Questo
atteggiamento, meno centrato sulle certezze tradizionali dell'arte
medica e più centrato sull'analisi dei bisogni del singolo paziente, potrebbe
facilitare un migliore
dialogo fra i due se il medico avesse meno fretta e non si compiacesse
di un eccesso di misure e statistiche).
Nell'insieme, la revisione è stata positiva e ha rappresentato una buona lezione di modestia; almeno
per i medici. In alcuni casi
è stato relativamente facile accorgersi degli errori terapeutici
passati, per esempio quando si scoprì che faceva più male
che bene il dare vasodilatatori agli anziani con difetti di
circolazione cerebrale; in altri casi più difficile, come per
l'effetto della somministrazione
di cortisonici nei gravi traumatizzati cranici, una pratica che non era stata mai verificata
con metodi oggettivi – i clinici credevano troppo fermamente nella sua
efficacia – salvo poi scoprire che uccideva il paziente più
spesso di quanto gli salvasse la vita. La scoperta, nel 1982,
dell'eziologia batterica dell'ulcera gastroduodenale, ad opera di due
ricercatori di una marginale università australiana,
è stata l'esito di un tipico caso di scetticismo
sperimentale o, se si vuole, di una ostinata pas-sione per le
verifiche. Per decenni l'ulcera era stata considerata di origine
psicosomatica senza che, peraltro, esistesse alcuna prova in tal
senso; una volta ribaltata quella convinzione per merito di due
medici che credevano più nella ricerca che nelle idee ricevute,
una lesione cronica che prima
costituiva il tormento di una vita ora viene curata in pochi giorni con un antibiotico. In
nessun campo, però, la revisione critica delle sicurezze soggettive è stata maggiore che
in quello delle scienze della
mente e del comportamento. Purtroppo però, e a proposito di spiegazioni
anti-intuitive, accade come per l'astronomia o per la fisica: se non si
possiede qualche consuetudine alla lettura di testi di argomento
scientifico le nuove ricerche appaiono di difficile assimilazione.
Questo fatto mantiene una divaricazione fra due culture, che sono poi
sempre quelle di Charles Snow: da un lato la cultura degli umanisti,
inclini a ritenere che i problemi
della psicologia siano affrontabili semplicemente meditando,
oppure con la rilettura di filosofi e poeti; dal lato opposto quella degli
scienziati. Questi ultimi non
sempre disdegnano la lettura dei classici e però si occupano anche di altre cose, per cui, a
differenza degli umanisti, hanno dimestichezza anche con statistiche e laboratori e sanno cosa significa cercare
verifiche e ragionare in
termini probabilistici. E peraltro è contestabile quanto talora
viene ripetuto, e cioè che i filosofi e i poeti da un lato, e
gli scienziati dall'altro, si occupano di cose diverse: questo non è più vero oggi. Filosofi, letterati e poeti da un lato, scienziati dall'altro, si
interessano alle stesse cose, ma in modi diversi.
E anche con linguaggi diversi.
In parte la psichiatria ne è stata spiazzata, e il motivo è evidente. La psichiatria ha infatti,
come abbiamo visto, due parti, o se vogliamo due anime: una scientifica
e l'altra umanistica. La parte scientifica è quella che si
trova più a suo agio con i farmaci, e riporta la psichiatria
alla sua matrice medica. La parte umanistica è quella che si
trova più a suo agio con la psicoterapia. Vorrei però a
quest'ultimo proposito esprimere un parere, che peraltro non ritengo
che sia originale: il problema della psicoterapia non riguarda
soltanto le sedute psicoterapiche (o psicoanalitiche, o di gruppo,
e così via); riguarda invece soprattutto l'attenzione agli
aspetti soggettivi della relazione fra curante e paziente, fra chi
porge aiuto e chi chiede aiuto; riguarda gli aspetti umani di
questa relazione, riguarda le aspettative, le speranze, i malintesi,
gli impegni, i temi taciuti e quelli strumentalizzati, la compliance, le motivazioni a curare e le motivazioni a
resistere alle cure, e i contesti sociali e culturali in cui tutto
questo ha luogo; riguarda, in una parola, gli aspetti psicologici complessi della relazione d'aiuto e, come
dicevo più sopra, le complesse e spesso inconsce
dinamiche del transfert e del contro-transfert. Ora, questa parte della psichiatria, la parte
psicologica, umana, e anche
sociale, di soggettività, di rapporto e di contesto, è
certamente diventata nel corso degli ultimi decenni meno
impressionistica, più realistica, più credibile: ma
non è certamente diventata qualcosa di scientifico in senso
stretto.
Se è vero che la medicina (in generale) è sia un'arte sia una scienza (o forse sarebbe meglio dire: sia un artigianato sia una scienza) noi abbiamo certamente assistito negli ultimi decenni a un prevalere della scienza sull'arte: almeno in questo campo, il campo medico. Questo mutamento, nell'insieme, non è stato un male. Nel campo della psichiatria però le cose sono più complesse per cui non sono privi di buone ragioni coloro che segnalano con allarme un rischio,in cui forse siamo già caduti, e cioè il rischio di un certo grado di disumanizzazione della disciplina.
Personalmente, devo dire da un lato che questo rischio effettivamente c'è (e forse è più di un rischio, è un danno effettivo); ma da un altro lato devo anche dire che sarebbe sbagliato pensare che un tempo le cose andassero molto meglio. Siccome ricordo bene la psichiatria di mezzo secolo fa, di cui fui testimone nei miei anni giovanili, mi sembra che gli psichiatri di allora fossero decisamente più impersonali, autoritarie distratti di quelli di oggi. Probabilmente entravano in gioco altre variabili, a carattere sia scientifico sia culturale, nel determinare quella scarsa sensibilità umana. Uno dai fattori che entravano in gioco cinquant' anni or sono, all'epoca della mia laurea, nel determinare un atteggiamento cinico degli psichiatri, era la mancanza di risorse, sia organizzative, sia anche tecniche. A quell'epoca stava appena iniziando la rivoluzione psicofarmacologica e io ricordo di aver visto, quando ero ancora uno studente di medicina, che cosa erano i reparti psichiatrici per "agitati" prima che arrivassero la Reserpina e la Cloropromazina.
Eppure il problema della disumanità dello psichiatra ancora oggi esiste, e si presenta sotto l'aspetto di una spaccatura, di una separazione fra gli aspetti medici e tecnicizzanti della psichiatria, e i suoi aspetti psicologici. I suoi aspetti psicologici (e sociali) per la loro stessa natura sono legati a una tematica soggettivamente esperienziale e sfuggono in larga misura – anche se non totalmente – a una tecnicizzazione codificante. Con questo non intendo dire, naturalmente, che esista una qualche metafisica dimensione spirituale di cui tenere conto: vorrei soltanto sottolineare che, nell'ambito della psicologia e dei rapporti interpersonali vissuti, esiste un mondo di complessità e di tematiche etiche enormemente più delicato e importante di quanto avvenga a livello degli atti ,medico-chirurgici più tecnicamente impersonali, e largamente autonomo rispetto a questi ultimi. Una sintesi è forse auspicabile, ma non è facilmente attuabile, e forse neppure teorizzabile con chiarezza.
Ma un ulteriore fattore entra in gioco a complicare le cose. Se noi consideriamo che cosa è cambiato nel corso degli ultimi decenni dobbiamo tenere conto anche di un'altra variabile importante oltre all'avvento della evidence based medicine (e dei mutamenti epistemologici generali che essa comporta); dobbiamo tenere conto dell'imporsi e dell'evolvere della cultura di massa. In pratica è accaduto questo. Vale ancora qui, io credo, uno schematico confronto con la realtà di mezzo secolo fa. Cinquant'anni or sono, in Italia, la bassa cultura generica e l'alta cultura specialistica erano nettamente separate fra loro, anzi assai distanti: per esempio, c'era chi si occupava di psichiatria e di psicologia, avendo acquisito più o meno faticosamente le competenze necessarie, e poi c'era il pubblico degli utenti, i quali salvo pochissime eccezioni non sapevano nulla né di psichiatria, né di psicologia né di medicina né di neurologia.
Gli specialisti erano pochi, i libri che si pubblicavano su questi argomenti erano pochissimi. Nel periodo fra gli anni '60 e gli anni '70, viceversa, in Italia le discipline psicologiche (psichiatria compresa) sono diventate preda della cultura di massa. Questo ha avuto conseguenze sia positive sia negative.
Gli aspetti positivi sono consistiti essenzialmente nel fatto che nel corso degli anni '60 e '70 si è sviluppata una nuova sensibilità alle problematiche umani e sociali relative alle istituzioni di ricovero e ai processi di discriminazione e di esclusione sia nell'ambito scolastico sia nell'ambito delle struttura di assistenza. Questo ha facilitato, nel corso di quei due decenni, un positivo processo di rinnovamento per quanto concerne l'assistenza psichiatrica pubblica. Gli aspetti negativi sono consistiti nel diffondersi di idee semplificate e talora demagogiche sia a livello della medio-bassa cultura di massa, sia spesso fra amministratori e politici. Questo processo si è poi legato al tardivo successo delle idee psicoanalitiche in Italia (anni '80 e `90) e alla moltiplicazione abnorme dei corsi di laurea in psicologia, e quindi del numero dei laureati in psicologia, negli anni intorno alla fine del secolo e fino al momento attuale.
È stato, nell'insieme, un progresso? Il nostro giudizio non può che essere cauto. Se noi vogliamo oggi esaminare il contesto di idee e di prospettive all'interno del quale si muovono le tematiche di cui si occupa questo nostro convegno, dobbiamo essere consapevoli che esiste una differenza cospicua fra complessità e confusione.
Da un
lato, il panorama culturale generale in cui si muove oggi la
psichiatria italiana è diventato più confuso,
soprattutto per la pressione di una miriade di scuole e correnti
ideologiche non sempre di buon livello né scientifico
né culturale. Queste scuole e correnti non si demarcano sempre sufficientemente da forme di
cultura di massa dominate da una
cattiva volgariz-zazione della psicologia (e della psicoanalisi e della
psicosomatica), forme di cultura
dove non di rado finiscono per prevalere istanze irrazionalistiche
e antiscientifiche. Occorre sottolineare che a livello di questo
tipo di cultura ciò che tende a prevalere è la tendenza
alle indebite semplificazioni, e non già il rispetto per le
complessità
Da un altro lato, gli studiosi e i clinici, più serie e competenti si trovano
oggi a dover gestire una complessità crescente di temi
scientifici, e quindi a'dover operare sintesi difficili, sintesi
di alto livello e che siano capaci di combattere i rischi di eccessive
parcellizzazioni specialistiche.
Come rispondere? Non è il caso di chiedere che gli specialisti di buon livello, e in particolare gli psichiatri, si chiudano in una torre d'avorio per difendersi dalle semplificazioni che vediamo dilagare sugli schermi televisivi e nelle pubblicazioni di psicologia "fai da te": non è questa la soluzione. Dovremmo caso mai essere consapevoli del fatto che, per poter dialogare in modo sano e sensato con il pubblico, con gli assistiti e con i loro famigliari, noi siamo chiamati a compiere, probabilmente, uno sforzo supplementare di ascolto e di pazienza. È l'op-posto, dunque, della torre d'avorio: occorre rilanciare il tentativo di far capire alla gente, e agli amministratori e ai politici, che la sfida della complessità richiede pazienza, cultura, rifiuto di formule facili, consapevolezza degli aspetti incerti e perfino ambigui di una disciplina, la psichiatria, che richiede molteplicità di strumenti ma anche precisione di idee, concetti chiari, poche concessioni alle semplificazioni e nessuna concessione agli irrazionalismi.