Quale Conservatorio?

Riflessioni sulla riforma dell'istruzione musicale

Leonardo Taschera

L'editoriale comparso sul numero 19 - settembre 1995 - di Analisi stilato da Marco de Natale col titolo "Chiudere i Conservatori?", commentava un'intervista concessa da Salvatore Accardo al quotidiano "La Repubblica" circa il disastroso stato dei nostri Conservatori e la conseguente opportunità o di chiuderli o di ridurne drasticamente il numero. Non intendo riassumere le riflessioni ivi contenute, rimandandone la conoscenza alla diretta lettura, notando peraltro che Analisi, dalla sua fondazione, ha ospitato numerosi interventi che affrontavano direttamente o indirettamente il problema della inadeguatezza dell'istituzione conservatoriale quanto a capacità di proposta di nuovi e validi contenuti e obiettivi, alla efficacia metodologico-didattica nel perseguirli, infine riguardo all'impalcatura giuridico-amministrativa su cui l'istituzione si regge.

L'intervista di Accardo e il commento che ne conseguiva cadevano però in un momento particolare: l'intervista (aprile '95) durante la gestazione di numerose proposte di legge di riforma dei Conservatori e degli studi musicali, di cui andava occupandosi la Commissione Cultura della Camera; il citato commento appena dopo (settembre '95) l'elaborazione da parte della Commissione del testo di legge unificato riguardante appunto la riforma del settore artistico-musicale, risultato di faticosa mediazione tra quattordici proposte di legge presentate da varie forze politiche.

A questo punto pare che i tempi siano maturi perché, direttamente interessati al problema come siamo, ci si cominci ad occupare frontalmente e direttamente della riforma degli studi musicali , soprattutto per quel che attiene i relativi aspetti contenutistici quasi sempre elusi o dati per sottintesi. La legge infatti, che dopo le eventuali modifiche conseguenti alla discussione di 433 emendamenti proposti in Commissione seguirà il solito iter nei due rami del Parlamento per la necessaria ratifica, si presenta come un contenitore giuridico-amministrativo, ma prescinde da qualsiasi considerazione di contenuto e da orientamenti culturali: né, d'altronde, poteva essere altrimenti, data la mancanza, in sede di proposta legislativa, di serie conoscenze specifiche o di preventive ricerche all'interno della realtà culturale nella quale il provvedimento legislativo va a incidere. Vale comunque la pena di richiamarne qui i tratti salienti sia in positivo che in negativo: l'attribuzione al Ministero dell'Università e della Ricerca scientifica, attraverso l'istituzione di un Consiglio Nazionale dell'Arte presieduto dal Ministro dell'Università stesso, di una fascia superiore di studi musicali da realizzare in Istituti Superiori delle Arti, col conseguente ingabbiamento dei classici studi musicali nel rigido schema dell'istruzione secondaria inferiore e superiore con sbocco in uno stadio finale di livello universitario. L'aspetto positivo della legge starebbe nella riconosciuta necessità dell'istituzione di un livello superiore di studi musicali: nondimeno lascia, a parer nostro, alquanto perplessi che ciò si prefiguri all'interno dell'istituzione universitaria. Vogliamo spiegarci.

L'ordinamento universitario italiano, negli organi di gestione, controllo e progettazione delle proprie strutture, appare sbilanciato a favore della rappresentanza delle aree disciplinari tecnico-scientifiche. Enti esterni all'Università, come il Consiglio nazionale geofisico, il Consiglio per le ricerche astronomiche, il Centro nazionale ricerche con i suoi comitati consultivi, entrano a vario titolo nella gestione e nella progettazione della ricerca e dello sviluppo universitari. In particolare il Consiglio nazionale della scienza e della tecnologia esercita una funzione propositiva e di controllo nell'ambito della ricerca tecnico-scientifica avvalendosi di un articolato servizio di segreteria. All'interno dell'ordinamento universitario poi, il CUN è prevalentemente costituito dalla componente medico-scientifica. Mancano analoghi organi di diversificata rappresentanza, con analoghe funzioni, nell'area delle discipline umanistiche cui è ovvio assimilare l'area delle discipline artistiche. È comunque estranea alla formazione universitaria italiana, che ha sempre ritenuto esser le cose specificamente professionali della musica delegabili a un ambito prevalentemente pratico-artigianale piuttosto che a quello speculativo-teorico, una attenta riflessione sui fondamenti delle discipline musicali in generale: avviene così che l'improvviso inserimento in tale realtà di quelle discipline potrebbe ridursi alla ghettizzazione degli studi musicali ai margini della ricerca universitaria. D'altronde la Musicologia, appena da qualche decennio coltivata nelle Università italiane, si caratterizza essenzialmente come Storia della musica, al modo di corso complementare annesso alle facoltà umanistiche; né il DAMS di Bologna può essere considerato un modello di facoltà universitaria compiutamente in grado di assolvere ai compiti di coronamento degli studi conservatoriali.

Indubbiamente negativo è poi il progetto di ingabbiare rigidamente il curriculum degli studi musicali in un qualsivoglia numero di fasce, eludendo peraltro la questione di una pervasiva omogeneità lineare degli studi strumentali (taluni dei quali sono da iniziare a livello di scuola primaria) per un verso, per altro verso l'oggettiva necessità di scaglionarne gli inizi, relativamente alla varietà delle discipline strumentali (e vocali) in momenti diversi dello sviluppo psico-fisico degli allievi.

Il testo unico ha comunque scatenato, sia nell'ambiente artistico-musicale sia in quello conservatoriale oltre che nello stesso ambiente universitario, reazioni negative, peraltro non ingiustificate, reazioni manifestatisi anche in concrete prese di posizione: dal "manifesto" elaborato dall'A.R.Co. (Associazione per la Riforma dei Conservatori) e sottoscritto dai maggiori esponenti del mondo musicale italiano - Muti tra gli altri -, agli interventi in Commissione Cultura - da Mannino a Scimone -, all' articolo di Francesco Degrada comparso sul numero di ottobre di "Brescia musica" che lucidamente analizza i problemi connessi a una riforma dei Conservatori.

Ma perché una riforma dell'istituzione Conservatorio in quanto tale? La domanda non sembri retorica: a gran parte degli esponenti del mondo musicale, a cominciare dai docenti interessati, la storica istituzione va bene così com'è; tutt'al più abbisogna di un aggiornamento dei programmi, di una oculata ristrutturazione degli indirizzi professionali alla luce degli odierni rivolgimenti socio-culturali, e di una appropriata delimitazione dei diversi iter di studio. Anni di studi e di convegni hanno già abbondantemente messo in luce le carenze dell'istituzione conservatoriale; credo perciò utile, ai fini di una discussione propositiva sui destini del Conservatorio, trattarne gli aspetti più notevoli. Le aree disciplinari, i relativi programmi di studio, i congruenti sbocchi professionali, sono a tutt'oggi quelli pensati e definiti nel '30 a seguito della Riforma Gentile del '23. All'epoca, la commissione che elaborò il percorso degli studi musicali di Conservatorio, formata comunque dai maggiori musicisti italiani del momento, da Casella a Pizzetti, lasciò sostanzialmente intatto il modello della vecchia scuola musicale professionale sette- ottocentesca, nella quale il percorso d'apprendimento si sviluppava sotto la guida del "maestro" unico, ricco di esperienza artistica e professionale, ritenuto quindi in grado, e probabilmente non a torto, di guidare l'allievo all'apprendimento di tutti ,anche i più reconditi, "segreti" dell'arte. Non a caso le discipline strumentali, compositive e, in genere, esecutivo-interpretative, vennero chiamate "Scuole", a indicare la completezza, presunta o reale, della formazione professionale che erano chiamate a fornire; ed è probabile che all'epoca il modello storico assunto a cardine dell'istituzione conservatoriale fosse ancora valido, dato l'esiguo numero dei Conservatori presenti sul territorio nazionale, la presenza in essi di "mitiche" figure di riferimento, il basso numero di allievi rigidamente selezionati. La commissione si preoccupò quindi di definire obiettivi e sotto-obiettivi - esami di diploma ed esami intermedi - congruenti con i contingenti sbocchi professionali relativi alle pratiche strumentali, compositive e interpretative; ma non si preoccupò né dei problemi pedagogico-didattici sottostanti - lasciando che i percorsi d'apprendimento si sviluppassero appunto secondo il metodo addestrativo della bottega artigianale -, né di radicare l'apprendimento musicale-strumentale in un terreno ricco e fecondo attinente l'area comune delle discipline musicali: la teoria, la storia della musica e i rudimenti della pratica compositiva rimasero relegati nell'ambito di una complementarità solo nominale, perché di fatto caratterizzata da un nozionismo imparaticcio senza connessioni strutturali con le Scuole principali; non venne peraltro prevista nessuna connessione con discipline extra-musicali, tranne il caso della "Letteratura italiana per compositori" e la "Letteratura poetica e drammatica", sempre per compositori. Tutto ciò a testimonianza di una visione dell'arte intesa come "fare" ma non come "poiesis", e che considerava la competenza artistica come "dono" già dato, tutt'al più da sviluppare ma non da formare, coltivato in un mondo a parte; proprio una tale visione dell'arte, comunque generalmente condivisa e particolarmente accentuata riguardo alle cose della musica, palesemente escludeva che quest'ultima potesse avere una valenza formativa nello sviluppo intellettuale e culturale della persona in generale. (Si era a quel tempo ben lontani dai recenti, alquanto tumultuosi sviluppi di una cultura o educazione musicale nella stessa scuola generale).

È ovvio che dal '30 ad oggi molte cose siano cambiate. La riflessione analitica, gli studi sull'intelligenza e sul pensiero musicale, infine la ricerca pedagogico-didattica sia a livello dell'educazione musicale di base che a livello dell'istruzione musicale con finalità professionali, hanno mutato l'orizzonte conoscitivo riguardante la musica, e consentono di individuare metodologie e prassi didattiche più efficaci oltre che obiettivi congruenti; l'allargamento della ricerca musicologica in direzione del recupero di repertori storici e la ricerca compositiva degli ultimi sessant'anni, pongono problemi non mai prima affrontati nell'ambito delle prassi esecutive; l'apporto dell'elettronica e dell'informatica, oltre che porre nuovi problemi cognitivi in ambito musicale, richiedono nuove professionalità. D'altra parte è mutato - come s'è già accennato - l'orizzonte socio-culturale in cui l'esperienza musicale è oggigiorno collocata. Orbene, è proprio a questo quasi terremotato paesaggio della cultura e della formazione musicale ciò a cui il Conservatorio, come istituzione, non ha saputo rispondere: i programmi di studio sono sempre finalizzati alla pratica del sonare e comporre, ma inadeguati nei metodi alla disponibilità di conoscenze scientifiche in campo musicale; e parecchio insufficienti, quanto non dirottanti, rispetto ai nuovi, concreti sbocchi professionali.

Una qualche risposta la burocrazia ministeriale ha creduto, in buona o mala fede, di darla, moltiplicando il numero dei Conservatori così da produrre uno sterminato numero di "musici pratici", dunque con competenze esecutivo-interpretative in linea con la tradizione, ma niente affatto in grado di essere assorbiti dallo stesso tradizionale mercato del lavoro. (È quasi superfluo menzionare qui il progressivo abbandono da parte dello Stato delle cose della cultura con conseguente abolizione di orchestre e cori stabili di lunga tradizione). L'elevato numero di "musici pratici" ha trovato, nel migliore dei casi, uno sbocco lavorativo, sebbene con preparazione impropria, col riassorbimento nella stessa istituzione scolastica, riassorbimento che ha finito per identificare la funzione della scuola musicale con quella della propria auto-alimentazione. Ma ora anche questa funzione impropria si è esaurita: l'istituzione pubblica è satura e i diplomati di Conservatorio devono "riciclare" le proprie competenze sulla base della propria capacità di iniziativa e senza poter contare su strutture adeguate a questa sorta di riconversione.

Che fare allora? Chiudere i Conservatori? Accettare qualsiasi riforma provenga dall'ambito politico-amministrativo?

Prima di tutto è necessario prendere atto del fatto che la tradizione conservatoriale, pur con tutti i difetti che qui le abbiamo addebitato, è comunque un patrimonio che non può essere dismesso: ma che soprattutto è una realtà che, con tutti i suoi ritardi, con tutte le sue distorsioni, alimenta la vita musicale del Paese.

È poi da tener presente che negli ultimi vent'anni molte cose si sono mosse, anche se il più delle volte in modo disordinato e soprattutto non coordinato secondo finalità ben delineate: lo strumento della sperimentazione ha consentito di innovare nei programmi di studio delle discipline tradizionali, oltre introdurne di nuove; ha consentito l'istituzione di Licei sperimentali annessi ai Conservatori ponendo se non risolvendo le non facili questioni riguardanti le connessioni interdisciplinari tra studi musicali e area comune; ha permesso l'introduzione di pratiche strumentali nella Scuola media dell'obbligo. È vero che tutto ciò è il più delle volte avvenuto in modo incontrollato: le sperimentazioni non sono mai state sottoposte a verifica per la solita mancanza di competenze ispettive da parte dell'Ispettorato per l'Istruzione artistica del Ministero della P.I., che ha quindi omesso qualsiasi valutazione sui risultati raggiunti; l'innovazione nei programmi di studio tradizionali, se pure può aver dato eccellenti risultati per merito dell'auto-disciplina degli sperimentatori stessi, non coordinata né finalizzata a determinare cambiamenti sostanziali dei percorsi di studio a livello nazionale ha spesso finito per ridursi a una sterile ricerca individuale; l'introduzione di una istruzione musicale para-conservatoriale nella Scuola media a indirizzo musicale ha trovato i docenti, normali diplomati di Conservatorio, e l'istituzione scolastica stessa, impreparati a integrare il momento pedagogico in senso lato e gli insegnamenti strumentali.

Ciononostante le sperimentazioni, laddove sono state condotte con criterio e consapevolezza dei loro obiettivi, hanno dato risultati che sarebbe poco onesto non riconoscere e costituiscono un prezioso patrimonio di esperienze e riflessioni da cui non è possibile prescindere affrontando il problema dei contenuti di una possibile riforma degli studi musicali. Riforma quindi che, applicata attraverso un provvedimento immediato senza preventiva prospezione dello stato di cose sopra enunciato, finirebbe necessariamente per fare tabula rasa della complessa realtà, comunque in costruttivo movimento, dell'istituzione conservatoriale e degli studi musicali in generale. Ciò finirebbe col provocare crisi di difficile soluzione e a livello degli utenti dell'istituzione pubblica e a livello del corpo docente nel suo complesso; eventuali nuovi contenuti programmatici, nuovi eventuali indirizzi professionali così come una eventuale nuova canalizzazione degli studi musicali, non debitamente enucleati nel tempo e nei modi di realizzazione, provocherebbero disagi e disorientamento nelle stesse pur auspicate aspettative di riforma.

Il che fare dunque si presenta di non facile soluzione, ma una soluzione qualsivoglia dipende dalla capacità di intraprendere due vie obbligate e obbligatoriamente tra loro collegate.

Sommarie indicazioni su ciò che di più urgente è opportuno fare sono contenute nel documento inviato a cura del Presidente della SIdAM alla competente commissione parlamentare, documento anteposto a questo scritto. La sollecita formazione di una commissione di esperti, tra cui principalmente quelli che hanno dato vita a riuscite sperimentazioni negli scorsi anni, può costituire un punto di riferimento per una controllata estensione del momento sperimentale, così da trarne nel più breve tempo possibile ipotesi attendibili per un progetto legislativo che non sia di pura ingegneria amministrativa. Questa stessa rivista, insieme ad altre che vi si affianchino, può essere la sede nella quale un flusso di informazioni, relativamente a un concreto confronto in fatto di risultati, sia fatto circolare a cura della preconizzata commissione di esperti. Non sembri questo prevaricazione rispetto all'organo amministrativo attualmente costituito dall'Ispettorato Istruzione Artistica, organo tutt'altro che qualificato in senso culturale.

La ventilata commissione potrebbe essere istituita a cura del Ministero dell'Università e della Ricerca scientifica e del Ministero della Pubblica Istruzione, col compito di costituire responsabilmente una sorta di 'governo ombra' tecnicamente in grado di orientare e controllare l'iter della riforma, secondo linee direttive che individuino programmi di riqualificazione degli studi musicali, in uno con la definizione di nuovi profili professionali, la definizione di aree disciplinari extra-musicali da integrare agli studi musicali in un autentico rapporto di inter-disciplinarità, e infine la prefigurazione del "contenitore" istituzionale a tutto ciò più funzionale.

Chi vedesse in quel che qui si propone un'azione ritardante l'auspicata riforma, forse raffreddante l'improvviso ardore di novità diffuso dal lavoro della predetta VII Commissione parlamentare, si consoli riflettendo sui molti lustri perduti nell'attesa che politici e burocrati dell'amministrazione realizzassero motu proprio l'atteso evento riformatore dell'istruzione musicale.


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