Carlo Delfrati

LA RIFORMA DEI CONSERVATORI (2)

"C'era una volta..."

da Amadeus, maggio 1996.

Il 13 maggio 1774 giunge al Re di Napoli Ferdinando IV una singolare supplica. I Governatori del Conservatorio di Sant'Onofrio lo implorano di intervenire presso la direzione del Teatro San Carlo. Questa pretende che gli alunni dell'istituto offrano le loro prestazioni musicali agli spettacoli serali del teatro. Ma i ragazzi hanno tanto da studiare, fino a sera tarda. I migliori (quelli più richiesti dal teatro) servono anche da mastricelli ai principianti. Oltre a far perdere preziose ore di sonno, le "notti iemali" rischiano di procurare fatali incidenti alla loro delicata salute...
Quindici anni prima erano stati i Governatori del Conservatorio della Pietà dei Turchini a compiere un analogo passo: stavolta al freddo invernale si aggiungeva un ben altro rischio: "li figlioli contraono delle amicizie nel Teatro con quelle donne che colà cantano e ballano"...
Lo studente di oggi ha di che stralunare. Cosa non farebbe è partecipare a uno spettacolo del San Carlo, o del Carlo Felice, o dell'Arena: di giorno, di notte, d'estate, d'inverno, con o senza ballerine o primedonne. Oggi non lo studente ma neppure il diplomato col massimo dei voti ha grosse speranze di essere ingaggiato in una qualche attività teatrale, o concertistica.
Che dire delle preoccupazioni di quei Governatori? Un alto senso di responsabilità li spinge forse a difendere la serietà degli studi dalle intrusioni del mercato, diremmo oggi? Macché. Tutto il contrario: la verità è che gli alunni, i figlioli, sono già oberati da superlavoro. Orfani, convittori, esterni paganti, primi fra tutti la folta e irrequieta coorte dei bambini fatti evirare con il beneplacito dei genitori: appena possibile vengono impegnati tutti a cantare e suonare nelle chiese e nei monasteri, per le funzioni, per le processioni, per rappresentarvi drammi sacri; e poi nelle case private e nei teatri di provincia, dove è esplosa la frenesia dell'opera buffa. Tutte queste attività arrecano introiti non indifferenti al conservatorio. Il San Carlo, invece, è troppo avaro: "la mercede è tenuissima ed a segno tale che i figlioli vanno quasi del pari con le comparse"... Poi le cose s'aggiustano: il 3 marzo 1789 il conservatorio della Pietà intasca ben 94 ducati per il lavoro dei 24 alunni che hanno partecipato, al San Carlo, alla rappresentazione del Catone in Utica.
Passano pochi anni, sopraggiunge la bufera napoleonica a chiudere tanti conventi. E coi conventi la pratica delle paranze (le prestazioni dei giovani convittori del conservatorio, per processioni, funzioni religiose, feste), delle assistenze (per il Viatico), delle musiche fuori Napoli. Il mantenimento dell'istituto è ora garantito, a Napoli come a Milano, da una "dotazione reale", ossia da un assegno sul bilancio dello Stato. E' l'atto di nascita dei nostri moderni conservatori, come ce l'ha documentato Salvatore Di Giacomo, nella sua meritoria opera sui conservatori napoletani. Ma se cessano certe pratiche, non cambia la ragione d'esistenza dei conservatori, e in generale delle scuole di musica: continuano ad essere mantenuti, e creati ex novo, per servire a precise funzioni sociali. Anche se in misura minore rispetto ai secoli precedenti, l'attività musicale resta essenziale nel rito religioso: nel 1809, solo un anno dopo l'apertura del conservatorio di Milano, gli alunni partecipano come cantori, nell'attigua chiesa della Passione, allo Stabat Mater di Pergolesi. La musica è ancora un lustro necessario delle famiglie aristocratiche: la Reale Scuola di Musica Parmense, che settant'anni dopo diventerà conservatorio, inizia nel 1818 come scuola di canto corale "per il servizio della Cappella di Corte". E ancora la musica è ingrediente insostituibile nelle frequenti cerimonie civili e militari: quando Napoleone e sovrana consorte giungono in visita a Bologna nel 1805, l'orchestra che si esibisce nei festeggiamenti è costituita principalmente da elementi del neonato Liceo musicale. Per non parlare delle bande. Nel 1872 arriveranno ad essere in Italia ben 1494, con 40.478 suonatori. Molte scuole sono create proprio per formare i musicisti per i concerti municipali. Così avviene nel 1876 per quello che diventerà il conservatorio di Venezia, così nel 1862 per la Civica scuola di musica di Milano.

Il mercato del melodramma
Su tutto e su tutti, impera ormai il melodramma. La scena lirica è nell'Ottocento il più ampio e generoso mercato musicale, quindi la maggiore occasione professionale per il musicista. A fine secolo Casa Ricordi ha in catalogo ben 1350 opere teatrali (in stragrande maggioranza di autori italiani). Nel 1871 sono aperti 940 teatri in 699 città. Nel 1907 saliranno a 3000. "Ogni principale teatro d'Italia, scrive un musicografo nel 1861, provvede il pane a ben 500 famiglie".
I conservatori sono sempre più sensibili alle lusinghe degli impresari teatrali. Nel 1823 la collaborazione è ben più stretta che cinquant'anni prima a Napoli. Un banale documento amministrativo di quell'anno (una delle Norme per la definitiva sistemazione del Conservatorio di Milano) basterebbe a darci il polso della situazione scolastica: "Gli allievi e le allieve a posto gratuito, che ultimata la rispettiva educazione musicale intendano dedicarsi alla carriera teatrale, saranno tenuti a prestarsi pel primo anno in servizio degli Imperial Regi Teatri di Milano con quella rimunerazione che sarà giudicata equa e proporzionata all'abilità rispettiva". Cantanti e strumentisti, soprattutto di violino. Tutti ricercatissimi. A Torino si crea nel 1832 un "Ginnasio musicale per i giovani di civile condizione", a pagamento. Per fare che? A scelta, una delle seguenti tre cose, in altrettante distinte classi; dalla più alla meno prestigiosa: "cantare arie, duetti e terzetti - cantare le seconde parti nei pezzi concertati - cantare nei cori": il tutto per l'opera lirica, s'intende. Un direttore di conservatorio, lui pure operista (Michele Ruta, direttore a Napoli) ha le idee chiare sulla funzione di un conservatorio; scrive nel 1877: "La musica moderna si determina sempre più nel genere teatrale, sicché l'obbiettiva dell'educazione musicale deve essere quella di formare a preferenza gli artisti per lo teatro".

Scuola e società: divorziati in casa
La storia dunque ci mostra come i conservatori antichi, di Napoli, di Venezia, d'altre città ancora, e i conservatori ottocenteschi, fossero nati e alimentati come scuole dichiaratamente professionali, per rispondere ai concreti bisogni di musica via via insorgenti nella società: chiesa e monastero, corte e casa privata, rito civile e militare, festa e poi soprattutto teatro. Oggi invece, ma anche ieri e ieri l'altro, da più parti si lamenta una frattura grave, non più sostenibile, tra la scuola musicale e le esigenze musicali della città. Come mai la realtà appare tanto diversa? Cosa è cambiato nei conservatori?
Si è tentati di rispondere con una boutade: quel che è cambiato nei conservatori è che ... nulla è cambiato. La frattura inizia proprio quando la scuola si ferma a reiterare il proprio passato e si dimentica di tenere il passo con i cambiamenti della società. Tentiamo un'ipotesi di spiegazione riferita agli studi strumentali e vocali (un discorso simile, ma su presupposti diversi, andrebbe fatto per esempio per gli studi di composizione).
Il dominio del melodramma lascia in netto secondo piano la musica strumentale (ancora in quel catalogo Ricordi che ospitava 1350 opere, troviamo solo solo 85 quartetti, per metà di autori stranieri). Ma pian piano la musica strumentale rimonta. Il repertorio si fa tecnicamente complesso, e pretende esecutori sempre meglio preparati. E gli studi, la scuola, devono adeguarsi. Nel 1742 al Sant'Onofrio un solo musico, Giovanni Comes, poteva insegnare ogni sorta di strumenti a fiato: cornetta, trombone, oboe, flauto, fagotto. Ora di ogni singolo strumento si esplorano tecniche esecutive sempre più avanzate, favorite dal parallelo perfezionamento della meccanica. Sono soprattutto il pianoforte e il violino a scatenare la fantasia acrobatica dei compositori (pensiamo solo allo Schumann del nostro CD, o al Paganini del CD di marzo). E' l'età, ancora, dei Rode e dei Kreutzer, dei Thalberg e dei Liszt. Il mito romantico del virtuoso aleggia sulle platee dei concerti strumentali come sui palcoscenici del belcanto. E dà la stura a un altro ricco mercato: il mercato del concertismo solistico.
Le ripercussioni sui conservatori sono inevitabili. La scuola musicale non può sottrarsi alla nuova sirena. In fondo continua a mostrarsi sensibile, come in passato, al rinnovato bisogno di musica della società. Si moltiplicano le classi di pianoforte. Lo studio stesso del pianoforte, come quello del violino, si orienta, in modo via via più esclusivo, al traguardo mitico: la forgiatura del virtuoso. Gli strumenti dell'orchestra (clarinetto, violoncello, arpa...) non godono di un analogo mercato, e per questo sono solo lambiti dalla passione che contagia i loro più "fortunati" confratelli.
Il conservatorio è un'istituzione molto composita, e quel che vale per una sua scuola non vale necessariamente per le altre. Ma anche qui tutto interagisce, e fatalmente si vengono ad allestire gerarchie. Solo alcune classi (pianoforte, violino, canto...) vivono in modo particolarmente pressante l'ambizione virtuosistica. Ma sono quelle che finiscono col funzionare da channel leader, con l'imporre il proprio sistema di valori alla scuola musicale nel suo insieme.
La riuscita virtuosistica diventa dal secondo Ottocento il metro di valutazione della qualità stessa della scuola. Tanto maggiore è il titolo di nobiltà che le si riconosce quanto meglio riesce ad alimentare il mercato del virtuosismo, a licenziare esecutori in grado di assumere il ruolo di "divo", in grado di riproporre all'ammirazione del pubblico il più spericolato repertorio.
Nella vita del conservatorio il resto passa in secondo piano. Festa pubblica e privata, rito civile e militare, pratica amatoriale e chiesa - la ragion d'essere di sempre delle scuole musicali - scivolano a poco a poco sullo sfondo dei loro interessi.
I programmi di studio si riordinano di conseguenza. All'allievo, a ogni allievo, si pone come unico traguardo finale la produzione del pezzo di bravura. Tutto ciò che non vi appare strettamente e direttamente finalizzato diventa un "complemento" appena tollerato, o è addirittura soppresso. L'orientamento trabocca al di fuori delle classi di pianoforte o di violino. Nel 1871 le scuole di musica, tra grandi e piccole, sono salite in Italia al numero di 267. Eppure dieci anni dopo un musicista attento, Vincenzo Bongiovanni può lamentare che "nelle principali città si fa penuria sempre di esecutori vocali e strumentali: se sono aperti due teatri, non se ne può aprire un terzo, perché mancano gli strumentisti o coristi". Un lamento che non cesserà mai. Il violoncellista Luigi Forino, nel 1930: "dai nostri conservatori non escono neppure gli elementi necessari ad alimentare le nostre orchestre". Oggi non sono solo gli Accardo o le Pegreffi, intervistate su Amadeus, a ripetere il ritornello.
All'allievo strumentista non si chiede più, né gli si offre, di cimentarsi nell'attività compositiva, o di saper analizzare i materiali musicali su cui stanno esercitandosi le sue mani. Meno che mai gli si chiede e insegna l'uso della voce. La lettura cantata declina inesorabilmente, e verrà sostituita dall'astuto escamotage del solfeggio parlato. Persino trovare buoni coristi diventa per i teatri un'impresa sempre più drammatica.
Nel secolo precedente il musicista era completo: suonava diversi strumenti, cantava, componeva... Non poteva non esserlo, viste le concrete necessità sociali a cui doveva rispondere. Ora la specializzazione regala esecutori di livello impensabile un secolo prima. Ma in compenso frantuma e congela l'esperienza musicale in altrettanti comparti separati. Il canto è affare di cantanti, e naturalmente di cantanti di bravura, non di semplici musicisti che professionalmente cantanti non siano. La composizione è affare di soli compositori. E così via. La corsa verso l'innalzamento didattico del livello esecutivo si conclude nel 1930, quando la legge assegna come prova terminale, agli insegnamenti, il più avanzato repertorio solistico disponibile all'esecutore.

Dalla pluricoltura alla monocoltura
Ora, che cosa succederà mai, se quella particolare offerta della scuola, la fornitura di artisti-tecnici altamente specializzati, si fa sproporzionata rispetto alla domanda, o, peggio ancora, se è resa anacronistica dal tramontare di certi bisogni, e dal nascere di bisogni diversi?
La risposta è troppo facile, e sta sotto i nostri stessi occhi.
Se possiamo usare un'immagine agricola, la strategia ottocentesca ha finito con l'attivare una monocoltura dove in passato fioriva una pluricoltura. Solo che il mercato di questa monocoltura, ossia le occasioni del concertismo, si presentava per forza di cose estremamente ridotto. Il pubblico era sì in continua crescita, ma quanti pianisti o violinisti avrebbero potuto spremerne i mezzi per la propria sussistenza? Un acuto critico del sistema conservatoriale cristallizzato nel 1930, il violinista Gino Ubertone, non aveva dubbi: "ti collocherai in un bar a spacciar tabacchi - scrive nel 1939 - e ti domanderai se metteva il conto di spendere dieci anni della tua vita..."! Ben prima, il già citato direttore del conservatorio di Napoli, Michele Ruta, metteva in guardia dal miraggio della monocoltura: "Pochi sono quelli che possono divenire concertisti, ma tutti debbono essere professori esecutori: questa scuola deve svolgersi a preferenza".
La storia che è seguita, da allora ai nostri giorni, non ha tenuto conto di questi segnali.
La legge del 1930 è ancora oggi la base su cui operano i nostri conservatori. I quali non sono più tre, come nel 1862, o sei, come nel 1930. Dall'Unità la loro crescita è stata esponenziale. Oggi sono cinquantasette. Ma ben poco è cambiato al loro interno (anche se questo poco, è bene dirlo, è solo un poco statistico, che allinea in realtà esperienze coraggiose, spesso radicalmente innovative; ma nella storia delle istituzioni, diceva il filosofo, sono i numeri a fissare i caratteri decisivi).
Non solo i programmi, ancora in funzione da allora, ma la stessa "logica curricolare", l'organizzazione degli studi, resta quella ottocentesca. Con una serie di aggravanti. Abbiamo lasciato un momento in disparte il teatro lirico. Era ancora in piena fioritura quando i critici del sistema conservatoriale lamentavano la scarsità di sbocchi professionali. Sappiamo che da tempo non lo è più. Il più formidabile sbocco professionale del musicista di un secolo fa si è inaridito. Non solo per l'esecutore. Il pubblico napoletano evocato all'inizio, un pubblico relativamente "di massa", pretendeva opere sempre nuove; non avrebbe sopportato in cartellone opere dell'anno prima; proprio come oggi fa con la canzone o con il film... Invece il repertorio operistico attuale è quasi esclusivamente quello del passato: un patrimonio storico - prezioso, da salvaguardare con tutte le nostre energie; ma pur sempre "inattuale". Anche i compositori ne sono tagliati fuori.
Un'altra aggravante è l'innalzamento dei modelli di riferimento. Da decenni disponiamo di incisioni "perfette", di norma "aggiustate" tecnicamente, anche delle musiche più difficili. La concorrenza si fa sempre più feroce, la selezione durissima. Quanti pianisti possono sottoporre la propria versione della Sonata op. 111 a un pubblico assuefatto alle magie di Maurizio Pollini?
Il concertismo offre occasioni limitate. Il posto dell'opera lirica è stato preso da ben altre forme di musica di massa. Ma la maggioranza dei nostri studenti continua a venir preparata come se il loro indubitabile destino fosse di calcare le scene della Sala Verdi o del Teatro Massimo, il giorno dopo il diploma; o magari il giorno prima, come i loro antenati del Sant'Onofrio o della Pietà dei Turchini. La specializzazione raggiunta da molti nostri studenti è alta. Ma quanto servirà loro questa specializzazione?
La musica ha una straordinaria presenza, nella nostra vita quotidiana. Una presenza impensabile quando l'Italia si formava come nazione unita. Il corso degli studi resta quello di allora (sempre per ragioni statistiche, sorvoliamo sul prezioso ma sparuto numero di corsi alternativi, sperimentali, pur attivati). E' questo il paradosso che il legislatore dovrà sfidare nell'impostare la riforma dei conservatori. Il mondo musicale attuale non è solo cresciuto vertiginosamente, è abissalmente mutato. La tecnologia ha sconvolto abitudini ancestrali. Televisione, radio, disco, computer, cd rom, cinema e quant'altro hanno radicalmente rimodellato il paesaggio musicale in cui viviamo. Il 95 % della musica che si pratica nei nostri conservatori appartiene ai generi classici. Ma quanti generi nuovi si sono aggiunti, musica da film, leggera, rock e derivati, etnica, jingle pubblicitario... E naturalmente la musica contemporanea "colta" da concerto. Una multifonica colonna sonora accompagna i momenti della nostra giornata. Quando la legge del 1930 fu varata, l'epoca d'oro del jazz era già tramontata. Il conservatorio ha aperto cattedre di jazz nel 1992. Ci è entrato forse perché era già un "inattuale" patrimonio storico? Nel 1916 il musicologo Guido Alberto Fano lamentava che il ministero non prendesse in considerazione "insegnamenti di istruzione importanti nell'arte moderna come il saxofono, le tube, gli strumenti a percossa...". E' stato accontentato settant'anni anni dopo, nell'età dei dischi laser.

Inventare il futuro
Il fervore musicale dell'ultimo mezzo secolo ha aperto inedite aree di attività, di sbocchi professionali. Sostenitori e oppositori del progetto di riforma di cui si parlava nel numero di marzo, su questo si ritrovano unanimi: sulla necessità di differenziare i percorsi di studio, di aggiungere ai profili professionali tradizionali una rete di profili nuovi, in funzione dei nuovi bisogni della vita musicale. Questa reclama a gran voce un ventaglio di professionalità: accanto alle pratiche esecutive più disparate, codificate e non, animazione, giornalismo, critica musicale, musicologia, tecnologia, editoria, assistenza al cinema, allo spettacolo, alla multimedialità, imprenditoria, economia della cultura... Un discorso a parte, su cui torneremo con calma, riguarda l'insegnamento: un nodo nevralgico dell'intero sistema, perché l'insegnante "aggiornato" non sarà solo uno degli sbocchi della scuola musicale rinnovata, sarà la condizione perché questa possa esistere.
E reclama linfa nuova per i profili antichi. Consideriamo per un istante il compositore. Questa figura è sempre stata presente nei curricoli conservatoriali. Ma tenacemente ha resistito, sotteso alla sua formazione, l'ideale aristocratico, di ascendenza romantica, che non rinuncia facilmente al mito fascinoso del genio, del superuomo, dell'artista che fa propria la scintilla divina. Nessuno bandirà il potenziale Prometeo dai nostri conservatori. Ma oggi gli si potrebbe affiancare un'allegra compagnia di eroi meno blasonati: compositori di ogni sorta di musiche d'occasione, dal cinema al jingle; creativi, come si dice nel gergo dei pubblicitari, capaci non solo d'inventare musica, ma anche di inventare alla musica occasioni diverse, presenze inedite. La sfida è addestrare i giovani non solo in vista delle professioni attualmente esistenti, ma anche di quelle possibili. La sfida, che si pone oggi al conservatorio, come a ogni scuola superiore, è quella di inventare il futuro. Il passato è sacro, ma non chiede un culto farisaico. Le opere e le pratiche ereditate non ridiventano vive quando giacciono imbalsamate in un museo, ma quando si offrono a servire il presente, a incoraggiare nuove pratiche e nuove opere.
Il concetto di qualità non va confuso col concetto di genere. L'aristocrazia di un'opera non è un diritto di sangue. Va conquistata sul campo. Chi sostiene che la musica degli ultimi rockettari sia di classe plebea ha forse tante frecce da esibire al proprio arco. Ma se questa fosse anche una verità inconcussa (chi è d'opinione contraria esibisce una faretra non meno folta e minacciosa), a cosa attribuire la responsabilità del declassamento? Non è il genere "leggero" in sé a fissare il grado nobiliare. Nè il concetto di "consumo": si può "consumare" Beethoven come si consumano i Take That; come nelle passate società si consumavano Banchieri o Vivaldi o Rossini. E' la maturità intrinseca del singolo prodotto. Ma come sarà possibile raccogliere frutti generosi nel latifondo della musica leggera se il musicista "serio" abbandona al musicista "non serio" la sua coltivazione? Una scuola musicale che rinuncia a porre le proprie risorse al servizio dei generi non consacrati, potrà poi protestare contro la loro presunta dozzinalità? Si dice che è la massa, il pubblico "plebeo", a pretendere prodotti dozzinali. Ammesso anche questo: sarà un muro fra le due culture, la superiore e l'inferiore, sarà il bastione che protegge il conservatorio dalle intrusioni della seconda, il mezzo migliore è sollevare questa dal suo stato?
Come ai generi non consacrati, così è alle nuove tecnologie che molti guardano con angoscia, o sospetto, o disprezzo. Ma la storia è irreversibile. E allora, anche qui, non spetterà proprio ai creativi della vita musicale reagire, piegando le nuove tecnologie a servire i bisogni più profondi, i valori più elevati, della nostra cultura?
Per ottenere soggetti creativi occorre che la creatività sia coltivata. E non solo nei compositori. La creatività è alla base di qualsiasi figura professionale: sarà proprio il nostro campo, un campo dove la creatività dovrebbe regnare sovrana, ad averne timore? Ciò comporta che si riprogrammi radicalmente il piano degli studi musicali, in modo da dare il necessario spazio all'esercizio della creatività, quale che sia il traguardo finale del curricolo imboccato dallo studente. Anche in musica, abbiamo oggi soprattutto bisogno di professionisti versatili. Tutta una serie di altre abilità, accanto a quella creativa, dovrebbero essere possedute come base su cui s'impianta la specializzazione. La quale naturalmente esige poi percorsi propri, distinti a seconda della sua particolarità: proprie discipline, propri programmi, proprie metodologie, proprie scansioni temporali. E' probabilmente questo il nocciolo di un progetto di riforma che non si limiti a cambiare le cornici, come sembra fare il progetto parlamentare del 1995, ma voglia trasformare in profondità il quadro.
In fondo, si tratta di ripristinare una pluricoltura dove l'Ottocento ha insediato una pur brillante monocoltura. La promessa di una vita musicale più ricca, gratificante, capace di offrire occasioni alle nuove generazioni viene da un sistema didattico composito, nel quale le diverse prospettive della professione musicale si confrontano e interagiscono. Che era la strategia dei piccoli conservatori delle origini.
(2. continua)


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