Il 13 maggio 1774 giunge al Re di Napoli Ferdinando
IV una singolare supplica. I Governatori del Conservatorio
di Sant'Onofrio lo implorano di intervenire presso
la direzione del Teatro San Carlo. Questa pretende
che gli alunni dell'istituto offrano le loro prestazioni
musicali agli spettacoli serali del teatro. Ma i ragazzi
hanno tanto da studiare, fino a sera tarda. I migliori
(quelli più richiesti dal teatro) servono anche da
mastricelli ai principianti. Oltre a far perdere preziose
ore di sonno, le "notti iemali" rischiano
di procurare fatali incidenti alla loro delicata salute...
Quindici anni prima erano stati i Governatori del Conservatorio
della Pietà dei Turchini a compiere un analogo passo:
stavolta al freddo invernale si aggiungeva un ben altro
rischio: "li figlioli contraono delle amicizie
nel Teatro con quelle donne che colà cantano e ballano"...
Lo studente di oggi ha di che stralunare. Cosa non farebbe
è partecipare a uno spettacolo del San Carlo, o del
Carlo Felice, o dell'Arena: di giorno, di notte, d'estate,
d'inverno, con o senza ballerine o primedonne. Oggi
non lo studente ma neppure il diplomato col massimo
dei voti ha grosse speranze di essere ingaggiato in
una qualche attività teatrale, o concertistica.
Che dire delle preoccupazioni di quei Governatori? Un
alto senso di responsabilità li spinge forse a difendere
la serietà degli studi dalle intrusioni del mercato,
diremmo oggi? Macché. Tutto il contrario: la
verità è che gli alunni, i figlioli, sono già
oberati da superlavoro. Orfani, convittori, esterni
paganti, primi fra tutti la folta e irrequieta coorte
dei bambini fatti evirare con il beneplacito dei genitori:
appena possibile vengono impegnati tutti a cantare
e suonare nelle chiese e nei monasteri, per le funzioni,
per le processioni, per rappresentarvi drammi sacri;
e poi nelle case private e nei teatri di provincia,
dove è esplosa la frenesia dell'opera buffa. Tutte
queste attività arrecano introiti non indifferenti
al conservatorio. Il San Carlo, invece, è troppo
avaro: "la mercede è tenuissima ed a segno
tale che i figlioli vanno quasi del pari con le comparse"...
Poi le cose s'aggiustano: il 3 marzo 1789 il conservatorio
della Pietà intasca ben 94 ducati per il lavoro dei
24 alunni che hanno partecipato, al San Carlo, alla
rappresentazione del Catone in Utica.
Passano pochi anni, sopraggiunge la bufera napoleonica
a chiudere tanti conventi. E coi conventi la pratica
delle paranze (le prestazioni dei giovani convittori
del conservatorio, per processioni, funzioni religiose,
feste), delle assistenze (per il Viatico), delle musiche
fuori Napoli. Il mantenimento dell'istituto è
ora garantito, a Napoli come a Milano, da una "dotazione
reale", ossia da un assegno sul bilancio dello
Stato. E' l'atto di nascita dei nostri moderni conservatori,
come ce l'ha documentato Salvatore Di Giacomo, nella
sua meritoria opera sui conservatori napoletani. Ma
se cessano certe pratiche, non cambia la ragione d'esistenza
dei conservatori, e in generale delle scuole di musica:
continuano ad essere mantenuti, e creati ex novo, per
servire a precise funzioni sociali. Anche se in misura
minore rispetto ai secoli precedenti, l'attività musicale
resta essenziale nel rito religioso: nel 1809, solo
un anno dopo l'apertura del conservatorio di Milano,
gli alunni partecipano come cantori, nell'attigua chiesa
della Passione, allo Stabat Mater di Pergolesi. La
musica è ancora un lustro necessario delle famiglie
aristocratiche: la Reale Scuola di Musica Parmense,
che settant'anni dopo diventerà conservatorio, inizia
nel 1818 come scuola di canto corale "per il servizio
della Cappella di Corte". E ancora la musica è
ingrediente insostituibile nelle frequenti cerimonie
civili e militari: quando Napoleone e sovrana consorte
giungono in visita a Bologna nel 1805, l'orchestra
che si esibisce nei festeggiamenti è costituita
principalmente da elementi del neonato Liceo musicale.
Per non parlare delle bande. Nel 1872 arriveranno ad
essere in Italia ben 1494, con 40.478 suonatori. Molte
scuole sono create proprio per formare i musicisti
per i concerti municipali. Così avviene nel 1876
per quello che diventerà il conservatorio di Venezia,
così nel 1862 per la Civica scuola di musica di
Milano.
Il mercato del melodramma
Su tutto e su tutti, impera ormai il melodramma. La
scena lirica è nell'Ottocento il più ampio e generoso
mercato musicale, quindi la maggiore occasione professionale
per il musicista. A fine secolo Casa Ricordi ha in
catalogo ben 1350 opere teatrali (in stragrande maggioranza
di autori italiani). Nel 1871 sono aperti 940 teatri
in 699 città. Nel 1907 saliranno a 3000. "Ogni
principale teatro d'Italia, scrive un musicografo nel
1861, provvede il pane a ben 500 famiglie".
I conservatori sono sempre più sensibili alle lusinghe
degli impresari teatrali. Nel 1823 la collaborazione
è ben più stretta che cinquant'anni prima a Napoli.
Un banale documento amministrativo di quell'anno (una
delle Norme per la definitiva sistemazione del Conservatorio
di Milano) basterebbe a darci il polso della situazione
scolastica: "Gli allievi e le allieve a posto
gratuito, che ultimata la rispettiva educazione musicale
intendano dedicarsi alla carriera teatrale, saranno
tenuti a prestarsi pel primo anno in servizio degli
Imperial Regi Teatri di Milano con quella rimunerazione
che sarà giudicata equa e proporzionata all'abilità
rispettiva". Cantanti e strumentisti, soprattutto
di violino. Tutti ricercatissimi. A Torino si crea
nel 1832 un "Ginnasio musicale per i giovani di
civile condizione", a pagamento. Per fare che?
A scelta, una delle seguenti tre cose, in altrettante
distinte classi; dalla più alla meno prestigiosa: "cantare
arie, duetti e terzetti - cantare le seconde parti
nei pezzi concertati - cantare nei cori": il tutto
per l'opera lirica, s'intende. Un direttore di conservatorio,
lui pure operista (Michele Ruta, direttore a Napoli)
ha le idee chiare sulla funzione di un conservatorio;
scrive nel 1877: "La musica moderna si determina
sempre più nel genere teatrale, sicché l'obbiettiva
dell'educazione musicale deve essere quella di formare
a preferenza gli artisti per lo teatro".
Scuola e società: divorziati in casa
La storia dunque ci mostra come i conservatori antichi,
di Napoli, di Venezia, d'altre città ancora, e i conservatori
ottocenteschi, fossero nati e alimentati come scuole
dichiaratamente professionali, per rispondere ai concreti
bisogni di musica via via insorgenti nella società:
chiesa e monastero, corte e casa privata, rito civile
e militare, festa e poi soprattutto teatro. Oggi invece,
ma anche ieri e ieri l'altro, da più parti si lamenta
una frattura grave, non più sostenibile, tra la scuola
musicale e le esigenze musicali della città. Come
mai la realtà appare tanto diversa? Cosa è cambiato
nei conservatori?
Si è tentati di rispondere con una boutade: quel
che è cambiato nei conservatori è che ...
nulla è cambiato. La frattura inizia proprio quando
la scuola si ferma a reiterare il proprio passato e
si dimentica di tenere il passo con i cambiamenti della
società. Tentiamo un'ipotesi di spiegazione riferita
agli studi strumentali e vocali (un discorso simile,
ma su presupposti diversi, andrebbe fatto per esempio
per gli studi di composizione).
Il dominio del melodramma lascia in netto secondo piano
la musica strumentale (ancora in quel catalogo Ricordi
che ospitava 1350 opere, troviamo solo solo 85 quartetti,
per metà di autori stranieri). Ma pian piano la musica
strumentale rimonta. Il repertorio si fa tecnicamente
complesso, e pretende esecutori sempre meglio preparati.
E gli studi, la scuola, devono adeguarsi. Nel 1742
al Sant'Onofrio un solo musico, Giovanni Comes, poteva
insegnare ogni sorta di strumenti a fiato: cornetta,
trombone, oboe, flauto, fagotto. Ora di ogni singolo
strumento si esplorano tecniche esecutive sempre più
avanzate, favorite dal parallelo perfezionamento della
meccanica. Sono soprattutto il pianoforte e il violino
a scatenare la fantasia acrobatica dei compositori
(pensiamo solo allo Schumann del nostro CD, o al Paganini
del CD di marzo). E' l'età, ancora, dei Rode e dei
Kreutzer, dei Thalberg e dei Liszt. Il mito romantico
del virtuoso aleggia sulle platee dei concerti strumentali
come sui palcoscenici del belcanto. E dà la stura
a un altro ricco mercato: il mercato del concertismo
solistico.
Le ripercussioni sui conservatori sono inevitabili.
La scuola musicale non può sottrarsi alla nuova
sirena. In fondo continua a mostrarsi sensibile, come
in passato, al rinnovato bisogno di musica della società.
Si moltiplicano le classi di pianoforte. Lo studio
stesso del pianoforte, come quello del violino, si
orienta, in modo via via più esclusivo, al traguardo
mitico: la forgiatura del virtuoso. Gli strumenti dell'orchestra
(clarinetto, violoncello, arpa...) non godono di un
analogo mercato, e per questo sono solo lambiti dalla
passione che contagia i loro più "fortunati"
confratelli.
Il conservatorio è un'istituzione molto composita,
e quel che vale per una sua scuola non vale necessariamente
per le altre. Ma anche qui tutto interagisce, e fatalmente
si vengono ad allestire gerarchie. Solo alcune classi
(pianoforte, violino, canto...) vivono in modo particolarmente
pressante l'ambizione virtuosistica. Ma sono quelle
che finiscono col funzionare da channel leader, con
l'imporre il proprio sistema di valori alla scuola
musicale nel suo insieme.
La riuscita virtuosistica diventa dal secondo Ottocento
il metro di valutazione della qualità stessa della
scuola. Tanto maggiore è il titolo di nobiltà
che le si riconosce quanto meglio riesce ad alimentare
il mercato del virtuosismo, a licenziare esecutori
in grado di assumere il ruolo di "divo",
in grado di riproporre all'ammirazione del pubblico
il più spericolato repertorio.
Nella vita del conservatorio il resto passa in secondo
piano. Festa pubblica e privata, rito civile e militare,
pratica amatoriale e chiesa - la ragion d'essere di
sempre delle scuole musicali - scivolano a poco a poco
sullo sfondo dei loro interessi.
I programmi di studio si riordinano di conseguenza.
All'allievo, a ogni allievo, si pone come unico traguardo
finale la produzione del pezzo di bravura. Tutto ciò
che non vi appare strettamente e direttamente finalizzato
diventa un "complemento" appena tollerato,
o è addirittura soppresso. L'orientamento trabocca
al di fuori delle classi di pianoforte o di violino.
Nel 1871 le scuole di musica, tra grandi e piccole,
sono salite in Italia al numero di 267. Eppure dieci
anni dopo un musicista attento, Vincenzo Bongiovanni
può lamentare che "nelle principali città
si fa penuria sempre di esecutori vocali e strumentali:
se sono aperti due teatri, non se ne può aprire
un terzo, perché mancano gli strumentisti o
coristi". Un lamento che non cesserà mai. Il
violoncellista Luigi Forino, nel 1930: "dai nostri
conservatori non escono neppure gli elementi necessari
ad alimentare le nostre orchestre". Oggi non sono
solo gli Accardo o le Pegreffi, intervistate su Amadeus,
a ripetere il ritornello.
All'allievo strumentista non si chiede più, né
gli si offre, di cimentarsi nell'attività compositiva,
o di saper analizzare i materiali musicali su cui stanno
esercitandosi le sue mani. Meno che mai gli si chiede
e insegna l'uso della voce. La lettura cantata declina
inesorabilmente, e verrà sostituita dall'astuto escamotage
del solfeggio parlato. Persino trovare buoni coristi
diventa per i teatri un'impresa sempre più drammatica.
Nel secolo precedente il musicista era completo: suonava
diversi strumenti, cantava, componeva... Non poteva
non esserlo, viste le concrete necessità sociali a
cui doveva rispondere. Ora la specializzazione regala
esecutori di livello impensabile un secolo prima. Ma
in compenso frantuma e congela l'esperienza musicale
in altrettanti comparti separati. Il canto è affare
di cantanti, e naturalmente di cantanti di bravura,
non di semplici musicisti che professionalmente cantanti
non siano. La composizione è affare di soli compositori.
E così via. La corsa verso l'innalzamento didattico
del livello esecutivo si conclude nel 1930, quando
la legge assegna come prova terminale, agli insegnamenti,
il più avanzato repertorio solistico disponibile all'esecutore.
Dalla pluricoltura alla monocoltura
Ora, che cosa succederà mai, se quella particolare
offerta della scuola, la fornitura di artisti-tecnici
altamente specializzati, si fa sproporzionata rispetto
alla domanda, o, peggio ancora, se è resa anacronistica
dal tramontare di certi bisogni, e dal nascere di bisogni
diversi?
La risposta è troppo facile, e sta sotto i nostri
stessi occhi.
Se possiamo usare un'immagine agricola, la strategia
ottocentesca ha finito con l'attivare una monocoltura
dove in passato fioriva una pluricoltura. Solo che
il mercato di questa monocoltura, ossia le occasioni
del concertismo, si presentava per forza di cose estremamente
ridotto. Il pubblico era sì in continua crescita,
ma quanti pianisti o violinisti avrebbero potuto spremerne
i mezzi per la propria sussistenza? Un acuto critico
del sistema conservatoriale cristallizzato nel 1930,
il violinista Gino Ubertone, non aveva dubbi: "ti
collocherai in un bar a spacciar tabacchi - scrive
nel 1939 - e ti domanderai se metteva il conto di spendere
dieci anni della tua vita..."! Ben prima, il già
citato direttore del conservatorio di Napoli, Michele
Ruta, metteva in guardia dal miraggio della monocoltura:
"Pochi sono quelli che possono divenire concertisti,
ma tutti debbono essere professori esecutori: questa
scuola deve svolgersi a preferenza".
La storia che è seguita, da allora ai nostri giorni,
non ha tenuto conto di questi segnali.
La legge del 1930 è ancora oggi la base su cui
operano i nostri conservatori. I quali non sono più
tre, come nel 1862, o sei, come nel 1930. Dall'Unità
la loro crescita è stata esponenziale. Oggi sono
cinquantasette. Ma ben poco è cambiato al loro
interno (anche se questo poco, è bene dirlo, è
solo un poco statistico, che allinea in realtà esperienze
coraggiose, spesso radicalmente innovative; ma nella
storia delle istituzioni, diceva il filosofo, sono
i numeri a fissare i caratteri decisivi).
Non solo i programmi, ancora in funzione da allora,
ma la stessa "logica curricolare", l'organizzazione
degli studi, resta quella ottocentesca. Con una serie
di aggravanti. Abbiamo lasciato un momento in disparte
il teatro lirico. Era ancora in piena fioritura quando
i critici del sistema conservatoriale lamentavano la
scarsità di sbocchi professionali. Sappiamo che da
tempo non lo è più. Il più formidabile sbocco
professionale del musicista di un secolo fa si è
inaridito. Non solo per l'esecutore. Il pubblico napoletano
evocato all'inizio, un pubblico relativamente "di
massa", pretendeva opere sempre nuove; non avrebbe
sopportato in cartellone opere dell'anno prima; proprio
come oggi fa con la canzone o con il film... Invece
il repertorio operistico attuale è quasi esclusivamente
quello del passato: un patrimonio storico - prezioso,
da salvaguardare con tutte le nostre energie; ma pur
sempre "inattuale". Anche i compositori ne
sono tagliati fuori.
Un'altra aggravante è l'innalzamento dei modelli
di riferimento. Da decenni disponiamo di incisioni
"perfette", di norma "aggiustate"
tecnicamente, anche delle musiche più difficili. La
concorrenza si fa sempre più feroce, la selezione durissima.
Quanti pianisti possono sottoporre la propria versione
della Sonata op. 111 a un pubblico assuefatto alle magie
di Maurizio Pollini?
Il concertismo offre occasioni limitate. Il posto dell'opera
lirica è stato preso da ben altre forme di musica
di massa. Ma la maggioranza dei nostri studenti continua
a venir preparata come se il loro indubitabile destino
fosse di calcare le scene della Sala Verdi o del Teatro
Massimo, il giorno dopo il diploma; o magari il giorno
prima, come i loro antenati del Sant'Onofrio o della
Pietà dei Turchini. La specializzazione raggiunta
da molti nostri studenti è alta. Ma quanto servirà
loro questa specializzazione?
La musica ha una straordinaria presenza, nella nostra
vita quotidiana. Una presenza impensabile quando l'Italia
si formava come nazione unita. Il corso degli studi
resta quello di allora (sempre per ragioni statistiche,
sorvoliamo sul prezioso ma sparuto numero di corsi
alternativi, sperimentali, pur attivati). E' questo
il paradosso che il legislatore dovrà sfidare nell'impostare
la riforma dei conservatori. Il mondo musicale attuale
non è solo cresciuto vertiginosamente, è
abissalmente mutato. La tecnologia ha sconvolto abitudini
ancestrali. Televisione, radio, disco, computer, cd
rom, cinema e quant'altro hanno radicalmente rimodellato
il paesaggio musicale in cui viviamo. Il 95 % della
musica che si pratica nei nostri conservatori appartiene
ai generi classici. Ma quanti generi nuovi si sono
aggiunti, musica da film, leggera, rock e derivati,
etnica, jingle pubblicitario... E naturalmente la musica
contemporanea "colta" da concerto. Una multifonica
colonna sonora accompagna i momenti della nostra giornata.
Quando la legge del 1930 fu varata, l'epoca d'oro del
jazz era già tramontata. Il conservatorio ha aperto
cattedre di jazz nel 1992. Ci è entrato forse
perché era già un "inattuale" patrimonio
storico? Nel 1916 il musicologo Guido Alberto Fano
lamentava che il ministero non prendesse in considerazione
"insegnamenti di istruzione importanti nell'arte
moderna come il saxofono, le tube, gli strumenti a
percossa...". E' stato accontentato settant'anni
anni dopo, nell'età dei dischi laser.
Inventare il futuro
Il fervore musicale dell'ultimo mezzo secolo ha
aperto inedite aree di attività, di sbocchi professionali.
Sostenitori e oppositori del progetto di riforma di
cui si parlava nel numero di marzo, su questo si ritrovano
unanimi: sulla necessità di differenziare i percorsi
di studio, di aggiungere ai profili professionali tradizionali
una rete di profili nuovi, in funzione dei nuovi bisogni
della vita musicale. Questa reclama a gran voce un
ventaglio di professionalità: accanto alle pratiche
esecutive più disparate, codificate e non, animazione,
giornalismo, critica musicale, musicologia, tecnologia,
editoria, assistenza al cinema, allo spettacolo, alla
multimedialità, imprenditoria, economia della cultura...
Un discorso a parte, su cui torneremo con calma,
riguarda l'insegnamento: un nodo nevralgico dell'intero
sistema, perché l'insegnante "aggiornato"
non sarà solo uno degli sbocchi della scuola musicale
rinnovata, sarà la condizione perché questa
possa esistere.
E reclama linfa nuova per i profili antichi. Consideriamo
per un istante il compositore. Questa figura è
sempre stata presente nei curricoli conservatoriali.
Ma tenacemente ha resistito, sotteso alla sua formazione,
l'ideale aristocratico, di ascendenza romantica, che
non rinuncia facilmente al mito fascinoso del genio,
del superuomo, dell'artista che fa propria la scintilla
divina. Nessuno bandirà il potenziale Prometeo dai
nostri conservatori. Ma oggi gli si potrebbe affiancare
un'allegra compagnia di eroi meno blasonati: compositori
di ogni sorta di musiche d'occasione, dal cinema al
jingle; creativi, come si dice nel gergo dei pubblicitari,
capaci non solo d'inventare musica, ma anche di inventare
alla musica occasioni diverse, presenze inedite. La
sfida è addestrare i giovani non solo in vista
delle professioni attualmente esistenti, ma anche di
quelle possibili. La sfida, che si pone oggi al conservatorio,
come a ogni scuola superiore, è quella di inventare
il futuro. Il passato è sacro, ma non chiede un
culto farisaico. Le opere e le pratiche ereditate non
ridiventano vive quando giacciono imbalsamate in un
museo, ma quando si offrono a servire il presente,
a incoraggiare nuove pratiche e nuove opere.
Il concetto di qualità non va confuso col concetto
di genere. L'aristocrazia di un'opera non è un
diritto di sangue. Va conquistata sul campo. Chi sostiene
che la musica degli ultimi rockettari sia di classe
plebea ha forse tante frecce da esibire al proprio
arco. Ma se questa fosse anche una verità inconcussa
(chi è d'opinione contraria esibisce una faretra
non meno folta e minacciosa), a cosa attribuire la
responsabilità del declassamento? Non è il genere
"leggero" in sé a fissare il grado
nobiliare. Nè il concetto di "consumo":
si può "consumare" Beethoven come
si consumano i Take That; come nelle passate società
si consumavano Banchieri o Vivaldi o Rossini. E' la
maturità intrinseca del singolo prodotto. Ma come
sarà possibile raccogliere frutti generosi nel latifondo
della musica leggera se il musicista "serio"
abbandona al musicista "non serio" la sua
coltivazione? Una scuola musicale che rinuncia a porre
le proprie risorse al servizio dei generi non consacrati,
potrà poi protestare contro la loro presunta dozzinalità?
Si dice che è la massa, il pubblico "plebeo",
a pretendere prodotti dozzinali. Ammesso anche questo:
sarà un muro fra le due culture, la superiore e l'inferiore,
sarà il bastione che protegge il conservatorio dalle
intrusioni della seconda, il mezzo migliore è sollevare
questa dal suo stato?
Come ai generi non consacrati, così è alle
nuove tecnologie che molti guardano con angoscia, o
sospetto, o disprezzo. Ma la storia è irreversibile.
E allora, anche qui, non spetterà proprio ai creativi
della vita musicale reagire, piegando le nuove tecnologie
a servire i bisogni più profondi, i valori più elevati,
della nostra cultura?
Per ottenere soggetti creativi occorre che la creatività
sia coltivata. E non solo nei compositori. La creatività
è alla base di qualsiasi figura professionale:
sarà proprio il nostro campo, un campo dove la creatività
dovrebbe regnare sovrana, ad averne timore? Ciò
comporta che si riprogrammi radicalmente il piano degli
studi musicali, in modo da dare il necessario spazio
all'esercizio della creatività, quale che sia il traguardo
finale del curricolo imboccato dallo studente. Anche
in musica, abbiamo oggi soprattutto bisogno di professionisti
versatili. Tutta una serie di altre abilità, accanto
a quella creativa, dovrebbero essere possedute come
base su cui s'impianta la specializzazione. La quale
naturalmente esige poi percorsi propri, distinti a
seconda della sua particolarità: proprie discipline,
propri programmi, proprie metodologie, proprie scansioni
temporali. E' probabilmente questo il nocciolo di un
progetto di riforma che non si limiti a cambiare le
cornici, come sembra fare il progetto parlamentare
del 1995, ma voglia trasformare in profondità il quadro.
In fondo, si tratta di ripristinare una pluricoltura
dove l'Ottocento ha insediato una pur brillante monocoltura.
La promessa di una vita musicale più ricca, gratificante,
capace di offrire occasioni alle nuove generazioni
viene da un sistema didattico composito, nel quale
le diverse prospettive della professione musicale si
confrontano e interagiscono. Che era la strategia dei
piccoli conservatori delle origini.
(2. continua)
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