CONGRESSO NAZIONALE DELL' E.P.T.A.
Siena 9/11 febbraio 1996

L'INSEGNAMENTO DEL PIANOFORTE E LA RIFORMA

ENRICO ANSELMI
Rinnovamento e riforma nella formazione pianistica.



Autore: Enrico Anselmi. Parole chiave: insegnamento, pianoforte, riforma, solfeggio, analisi.

Ringrazio Marcella Crudeli e l' E.P.T.A. per l'eccellente iniziativa e le autorità dell'Università di Siena per l'ottima ospitalità.
Innanzi tutto una precisazione: il mio intervento riguarda alcune vie percorribili per migliorare la formazione dei pianisti, ma non intendo necessariamente considerarle in funzione della riforma. Su "questa" riforma ho infatti molte perplessità e preferisco oggi sospendere il giudizio. D'altra parte non sono affatto sicuro che una vera riforma si possa fare: almeno mezzo secolo di tentativi mai riusciti confermano questa mia insicurezza.
Ma un grande sforzo di rinnovamento molti di noi l'hanno fatto e lo stanno facendo giorno per giorno. Un esempio: il conservatorio di Vicenza, che dirigo da cinque anni, costituisce, sia pure con le sue caratteristiche di conservatorio di media grandezza inserito in un ambiente di provincia (ma una provincia che ha saputo arrivare all'avanguardia nell'ambito economico e produttivo del nord-est), una delle realizzazioni più complete di un modello, di un archetipo di conservatorio: quello tradizionale, atipico e sganciato dalle fasce obbligate della struttura generale della scuola, ma aperto ad ogni rinnovamento culturale ed artistico. Tutte le possibilità offerte dalla legislazione vigente sono state sfruttate: abbiamo esteso le iscrizioni ai bambini dagli otto anni in poi, applicando l'art. 204 del D.L.Lgt.05.05.1918, n.1852, abbiamo potenziato la media annessa sulla base della legge istitutiva del 31.12.1962, n.1859 e, soprattutto, grazie al D.P.R. 419/1974 abbiamo istituito e continuamente migliorato il liceo sperimentale. Nuovi corsi sperimentali di specializzazione sono stati proposti al ministero: Etnomusicologia (primo in Italia) e Musica antica che costituiranno, se approvati, la fascia degli studi superiori, accanto ai corsi di Didattica della musica e di tutte le altre discipline già esistenti. L'Istituto è, riguardo al numero degli allievi, in espansione, sia pure controllata. Nessun docente è in soprannumero.
Ho sempre creduto in questo modello di conservatorio: il modello italiano, da troppo tempo trascurato, in nome di una riforma che fino ad oggi non è mai arrivata. Oggi c'è il rischio che si continui a lasciare degradare, paralizzandone il funzionamento, il vecchio modello, tentando in tutti i modi di avvicinarsi con piccoli provvedimenti successivi a questo o a quel modello di riforma, secondo la politica di questo o quel sindacato, di questo o quel partito. Così si destabilizza e si mina alle fondamenta l'edificio esistente, con il risultato che non può più funzionare il vecchio e non funziona ancora il nuovo, che non esiste.
Tornando all'argomento della mia relazione, credo sia necessario chiarire un punto di partenza: il problema della formazione del pianista può essere posto in senso strettamente specialistico, come metodologia della didattica dello strumento, oppure, con una visione più ampia, come individuazione di tutti i percorsi educativi pratici, teorici, specialistici e culturali generali che concorrono in modo diverso a quell'obbiettivo pedagogico che è il pianista completo.
La mia opinione è che bisogna puntare assolutamente sulla seconda ipotesi. Ne consegue una scelta precisa: nella fase iniziale dello studio è necessario orientare i giovani pianisti verso le strutture organizzate con più insegnamenti, e non verso il solo insegnante di pianoforte che fornisce una formazione troppo settoriale e limitata. La limitazione al solo insegnamento del pianoforte, all'inizio dello studio, è stata ed è una delle cause più forti della povertà musicale e culturale del pianista. E' appena il caso di ricordare che la figura dell'insegnante che limita la sua formazione al solo strumento è un fenomeno relativamente recente: nei secoli passati l'insegnante si occupava anche della composizione, dell'improvvisazione e di tutte le abilità richieste dall'esercizio dell'arte.
Nella fase iniziale, che coincide almeno con il secondo periodo della scuola elementare, ma che dovrebbe estendersi anche all'età precedente, è essenziale l'importanza della formazione dell'orecchio musicale. Ho ricordato che il conservatorio di Vicenza ammette i bambini a partire dagli otto anni.Il testo unificato sulla riforma delle accademie e dei conservatori presentato dalla relatrice della VIIa commissione parlamentare, on.le Sbarbati, all'art.9 che tratta del "Riordinamento degli studi musicali non universitari" non fa alcun riferimento alla fascia elementare. Dei 42 emendamenti proposti all'art.9, solo tre interventi del deputato Strik Lievers (lista Pannella-Riformatori) la prendono in considerazione. Il progetto di riforma, quindi, sotto questo aspetto, rappresenta un passo indietro rispetto all'attuale conservatorio.

Il compito di formare l'orecchio musicale oggi è affidato a una materia che conserva un'impostazione del tutto inadeguata alla sua funzione: teoria e solfeggio e dettato musicale. Tale impostazione vede la prevalenza di un elemento di derivazione ottocentesca secondo il modello francese: il solfeggio parlato.

A parte qualche utilità per l'aspetto ritmico, che andrebbe però approfondito in altro modo, la materia ha il grave difetto di non avere alcun rapporto con l'altezza dei suoni, e quindi con la musica.

Solo il solfeggio cantato, unito a una pratica lunga e costante del dettato, può determinare l'acquisizione del senso dell'intonazione esatta, l'assimilazione, l'interiorizzazione e quindi il dominio degli intervalli e della stessa struttura tonale. La percezione del senso dell'esatta intonazione è particolarmente importante per il pianista, che soffre di due limitazioni legate alla natura del suo strumento: da un lato non è costretto, come, per esempio, lo strumentista ad arco, a controllare continuamente l'esatta altezza di ogni suono, e dell'altro rischia di abituarsi all'intonazione approssimativa dello strumento, quando questo viene accordato male o raramente.

E' opportuno poi ricordare che solo per mezzo del solfeggio cantato è possibile studiare il fraseggio, l'articolazione della frase, l'espressione.

Vorrei segnalare a questo proposito che da quando dirigevo il conservatorio di Udine, presento ogni hanno al ministero un progetto di sperimentazione di solfeggio che, tra l'altro, elimina il parlato. Il ministero non l'ha mai preso in considerazione.

Tra le materie formative sarebbe necessario dare il giusto rilievo a quella che la legislazione vigente chiama cultura musicale generale e che ha la durata di uno o due anni. Questa materia importantissima, che attualmente coincide con lo studio dell'armonia, dovrebbe riguardare un ambito più ampio e accompagnare l'alunno per tutto il corso di studi. Anche per l'armonia, come per il solfeggio, l'impianto didattico tradizionale è del tutto insufficiente, oltre che per l'eccessiva brevità del corso, perché persegue un falso scopo. Questa disciplina infatti dovrebbe mirare a far comprendere ed assimilare i procedimenti armonici, mentre oggi l'alunno viene a mala pena posto in grado di scrivere l'armonizzazione di un basso o una modulazione, o di riconoscere una successione armonica "scritta". E' l'esatto corrispettivo del solfeggio parlato e, come questo, può essere studiato per anni senza avere mai ascoltato un solo suono, e cioè senza la musica e contro la musica. Per chiarire meglio questo errore di impostazione sarà utile un esempio. Credo che il punto di partenza di un corso di armonia debba essere l'ascolto di una cadenza perfetta: l'estrema evidenza, il carattere di necessità, la luminosità e il significato paradigmatico della cadenza sono elementi di conoscenza che rimarranno per sempre nel patrimonio musicale dell'alunno. Ben altra cosa è una fredda spiegazione sulla carta che ci dà con esattezza i gradi, il movimento delle parti, la classificazione degli accordi usati. Certo anche queste sono nozioni che l'alunno deve acquisire, ma solo in un momento successivo all'assimilazione del fenomeno musicale. L'ascolto ed il riconoscimento dei procedimenti armonici dovrebbe costituire la base anche dell'esame finale del corso, prima della prova scritta, cosìcome il dettato melodico ed il cantato debbono costituire la base della prova di teoria e solfeggio.

Un discorso a parte deve essere fatto per l'analisi, ma anche a questo proposito va precisato che un'analisi concepita solo come riconoscimento e catalogazione di accordi o di strutture formali è pericolosamente distante dalla musica. L'abitudine all'analisi è preziosa solo se congiunta con la realtà musicale. Va ricordata comunque la scandalosa assenza dell'analisi dei piani di studio dei conservatori, mentre costituisce addirittura la prima prova eliminatoria nei concorsi a cattedra.

In questa ottica è evidente l'importanza di una materia formativa essenziale per tutti i musicisti e in particolare per i pianisti: l'improvvisazione. Una volta improvvisare faceva parte della normale pratica dello strumentista: oggi questa preziosa abilità è limitata a tre sole categorie: gli organisti, i jazzisti e gli specialisti di musica antica. E' merito soprattutto dei jazzisti aver contribuito ad attirare l'attenzione su questo straordinario elemento vivificante, che la musica occidentale ha quasi completamente perduto. La musica occidentale, dicevo, perché tutta la musica colta non occidentale ha conservato la pratica dell'improvvisazione: basti pensare alla grande musica indiana, nella quale l'improvvisazione melodica e ritmica nel raga e nel tala è alla base di ogni evento musicale.
Non voglio individuare, come Alain Danielou, nell' abbandono dell'improvvisazione il segno e la causa della decadenza della musica occidentale, ma concordo nel ritenerlo una grave limitazione.

La pratica dell' improvvisazione sarebbe un ottimo mezzo per dar sfogo a quella creatività che, negli alunni più dotati, cercando una via per esprimersi, si manifesta in modo sbagliato, cioè alterando il testo e non rispettando le indicazioni degli autori. I criteri per un insegnamento corretto e completo dovranno quindi essere improntati a rigore nella lettura dei testi consegnati alla storia e a libertà nella creatività dell'improvvisazione.

Il problema della lettura rigorosa e l'accenno alla musica antica mi danno lo spunto per considerare un altro aspetto della formazione del pianista, che deve essere codificato e potenziato. La rinascita della musica antica ci ha messo di fronte a due prospettive molto importanti: quella del taglio filologico nella lettura del testo, e quella dello studio della prassi esecutiva.

Critica del testo e prassi esecutiva hanno un importantissimo valore formativo in quanto appunto creano una forma mentis: quella dell'approccio "storico" alla pagina musicale, un atteggiamento metodologico che sarà indispensabile non solo per Bach o Scarlatti, ma anche per Beethoven, per Chopin, per Skriabin o per Boulez.

Come l'improvvisazione, anche questa disciplina non può essere lasciata all'insegnante di strumento, ma deve essere affidata ad un altro docente e costituire un insegnamento complementare a se.

Un'altra materia che deve essere approfondita è quella che è attualmente oggetto della cosiddetta prova di cultura: chi, come me , è abituato a stare nelle commissioni di tutti gli strumenti, sa quanto sia inadeguata, come venga trascurata dai docenti e dagli allievi e, soprattutto, quanto sia difficile mantenere un giusto rigore nella valutazione dell'esame, in quanto la prova non ha voto. Anche questa materia dovrebbe essere insegnata da uno specialista, essere valutata agli esami con voto e comprendere l'aspetto organologico, la letteratura dello strumento e la storia dell'interpretazione, sulla base sia dei testi, sia della discografia. Oggi un alunno che affronta la prova di cultura può sapere quante sonate per pianoforte ha scritto Beethoven, Chopin, Mendelssohn, Brahms o Prokofiev, ricordarne le tonalità e l'anno di composizione, senza averne mai ascoltato una. Una prova d'esame seria dovrà accertare invece che l'alunno sia in grado almeno di riconoscere i temi di quelle sonate e solo in via subordinata verificare se possiede altri tipi di informazione.

Ma il problema dei problemi è quello della formazione culturale del musicista.

La ragione per cui, già alcuni decenni or sono, si riteneva che fosse indispensabile la riforma è proprio questa: quando ancora non esisteva la scuola media dell'obbligo, il musicista poteva concludere i suoi studi anche con la sola licenza della scuola elementare, alla quale si aggiungevano in conservatorio pochi anni di studio molto approssimativo riguardante la cultura generale. Si ritenne giustamente che questo limite culturale fosse in contrasto con la dignità stessa del musicista.

L'esigenza di rinnovare i programmi d'esame, fermi alla legge del 1930 è un altro dei motivi che rendono apportuna la riforma, ma è un motivo secondario

Oggi un'altra ragione della indifferibilità del rinnovamento è individuata nella necessità di una laurea, che adegui l'iter scolastico del musicista in Italia a quello dei musicisti di altri paesi. Ma troppo spesso si dimentica che questo è solo un aspetto burocratico e formale, mentre il vero problema è l'organizzazione seria degli studi "che portano" alla laurea. Si ritorna quindi al motivo originario e sostanziale della riforma. In vista di questo scopo è stata di grande importanza la normativa sulla sperimentazione. Sfortunatamente, dopo la spinta iniziale, impressa dal compianto Bruno Boccia e da pochi altri illuminati, il ministero ha mostrato una insufficiente attenzione per la sperimentazione, preoccupandosi troppo di porre limiti e vincoli che hanno finito per determinarne la quasi totale scomparsa. Credo invece che il valore della sperimentazione, come elemento di stimolo per la ricerca e per il rinnovamento, vada previsto e salvaguardato anche per il futuro nella riforma o senza di essa.

Sfruttando quindi il D.P.R. 419/1974 sulla sperimentazione, allo scopo di fornire una adeguata preparazione culturale al giovane musicista, nacque l'idea dei licei sperimentali nei conservatori, una tra le iniziative più coraggiose e più sfortunate della storia dell'istruzione musicale italiana.

Fino ad oggi ogni rinnovamento dei conservatori è passato dai licei sperimentali. Essi hanno una funzione importantissima ed insostituibile: senza la loro istituzione non avremmo mai avuto né i programmi sperimentali di strumento né tante discipline nuove. Per esempio a Vicenza corsi come liuto, viola da gamba, flauto dolce, sassofono, organologia, corso fondamentale, composizione e analisi, pianoforte complementare per fiati e contrabbasso, e secondo strumento per tutti, non sarebbero mai nati senza il liceo sperimentale.

D'altra parte il liceo sperimentale colma un vuoto istituzionale: non esiste infatti in Italia una struttura didattica il cui fine sia la formazione culturale completa del musicista. Non è vero che in alternativa il giovane allievo può frequentare con uguale o migliore esito un liceo classico o scientifico assieme al conservatorio, perché quei licei danno una formazione generale, mentre il liceo musicale dà una formazione mirata: tutte le materie sono strettamente correlate alla musica. In particolare il giovane pianista formatosi al liceo musicale, potrà essere in grado di orientarsi nel campo delle manifestazioni del pensiero, della letteratura e delle arti visive del periodo storico a cui appartiene l'oggetto del suo studio specialistico e cioè la pagina pianistica.

Un aspetto nuovo e di notevole importanza per la formazione del musicista di domani è lo sfruttamento ai fini didattici della tecnologia moderna: basti pensare alla possibilità offerta non solo dallo studio delle registrazioni, ma anche dalla possibilità di sovrapporre la parte suonata dall'allievo alle parti d'orchestra o di musica da camera, o dalle prospettive nuove offerte da strumenti come il Disklavier della Yamaha. Un campo che apre orizzonti ampi per la didattica è l'uso delle reti telematiche: un mondo ancora tutto da scoprire.
Un problema da approfondire e da codificare in modo sistematico è quello della pedagogia pianistica, mai oggetto di studio serio nei programmi tradizionali dei conservatori.

Con questo argomento entriamo anche nel campo della specializzazione: da molti anni è sentito il limite della formazione che oggi il pianista riceve in conservatorio, una formazione essenzialmente concertistica: è necessario differenziare e moltiplicare le possibili specializzazioni del pianista che può essere concertista, ma anche esperto nella didattica dello strumento, nella musica da camera e d'orchestra, nella preparazione degli spartiti per l'opera, nelle varie funzioni del maestro sostituto, nell'accompagnamento di strumentisti e cantanti, nel jazz e anche nella costruzione dei pianoforti o nell'accordatura.

Il problema delle specializzazioni possibili è legato ad un altro aspetto di importanza primaria, quello della creazione di posti di lavoro.

Entrando poi nel campo del rinnovamento dei programmi di studio, certamente sarà necessario appropriarsi tutta la letteratura pianistica dal 1930 ad oggi, rimasta fuori dalle materie d'esame per chi non abbia voluto i soli programmi nuovi concessi, almeno fino a qualche anno fa, cioè quelli dei licei sperimentali, ma si dovrà anche considerare l'opportunità di allargare le possibilità di scelta, in vista degli esami, dei brani del repertorio pianistico antecedente al 1930. Anche lo studio della polifonia, limitata attualmente a Bach, sarà esteso alle opere di autori più strettamente pianistici come Clementi, Mendelssohn, Hindemith, Shostakovic, Scedrin.

Non è qui il caso di entrare nell'argomento della tecnica pianistica, ma la strada segnata dalla grande tradizione della scuola italiana da Clementi a Vitale attraverso Longo, Rossomandi, Mugellini, Brugnoli, fino ai giorni nostri, deve essere seguita, pur con l'arricchimento della fantasia e dell'inventiva dei russi, del rigore stilistico mitteleuropeo, delle prospettive degli americani.

C'è poi un aspetto dell'interpretazione che va stimolato e codificato: quello dell'approfondimento emozionale. La strada è indicata già dai consigli di C. Ph. E. Bach nel suo trattato, consigli che riguardano aspetti secondari ed esteriori dall'espressione, ma che tracciano un percorso per il quale possono essere utili le analogie con le tecniche di approfondimento dell'espressione usata nel campo della recitazione: penso al metodo Stanislawski e alle tecniche dell'Actor's Studio.

Quel complesso sistema che è la pagina pianistica, con il suo significato, la sua aura irripetibile, molto oltre la sua decodificazione "materiale" in termini cioè di note, di durata, di strutture armoniche, contrappuntistiche, formali, dinamiche, timbriche, apparirà sotto una luce diversa se si considererà in funzione del fenomeno della comunicazione artistica, ancora tutto da studiare per quanto riguarda l'interpretazione in generale e quella pianistica in particolare.

Con questi pochi suggerimenti non pretendo certo di fornire una soluzione definitiva al problema della formazione del pianista, ma credo che dare spazio allo sviluppo delle possibilità che ho indicato possa contribuire al potenziamento di quella scuola italiana che vanta una grande tradizione e che ha dato alla storia dell'interpretazione alcuni fra gli astri di prima grandezza del pianismo di tutti i tempi.


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