MAURO UBERTI
Conservatorio di Parma

Le materie complementari nella formazione del musicista.

Mi scuso di parlare a braccio, ma, preso dall'organizzazione del convegno, ho finito col lasciare incompiuta nel computer la stesura della mia relazione; una volta di più, "ognun dell'arte sua campa scontento".

Ricordo un certo giallo in cui l'assassino, travestito con una vistosa divisa rossa e blu da postino, passava inosservato sotto gli occhi di tutti perché alla vistosa divisa rossa e blu del postino nessuno faceva caso. Ogni tanto io mi ritrovo ad osservare postini in divisa rossa e blu, a fermare l'attenzione, cioè, su cose apparentemente ovvie e a verificare poi che ne era valsa la pena; cose, infatti, che sono sotto gli occhi di tutti e che proprio per questo passano inosservate, ad un'osservazione più attenta dimostrano di avere valore ampiamente superiore a quello che comunemente è loro attribuito. Pare a me che quello delle materie complementari sia uno di questi casi.

Nel Conservatorio attuale le materie complementari sono tanto poco importanti da non essere nemmeno computate nel voto di diploma. Ad uno dei nostri colleghi di Musica da camera è accaduto di sentirsi dire da un funzionario dell'Ispettorato, che scopriva improvvisamente il fatto: "Ma lei insegna una materia che non esiste"; di scontrarsi, cioè, una volta di più con l'equivoco didattico per il quale una materia esiste in quanto comporta un voto e non per il fatto di contribuire alla formazione dell'individuo. Poco male sarebbe se le materie complementari fossero secondarie soltanto nella valutazione dei funzionari ministeriali; il male è che lo sono anche nella valutazione dei colleghi di materie principali; io, che insegno Teoria e solfeggio, mi sono ormai rassegnato ad avere allievi che, nella latitanza della direzione, frequentano o non frequentano le mie lezioni a parer loro o di quello dell'insegnante di strumento, per il quale ciò che importa è soltanto soffiare nel tubo.

Nella situazione del Conservatorio attuale, salve le conseguenze sulla formazione complessiva dell'allievo, ognuno è libero di attribuire alle materie complementari l'importanza che gli pare. Quello che è certo, invece, è che, quando il periodo superiore dei corsi di Conservatorio conseguirà il livello universitario, con buona pace di tutti le materie complementari acquisteranno tutto il peso che l'Università da sempre riconosce loro. Se è vero che nei corsi di laurea esistono materie principali, è altrettanto vero che l'indirizzo del corso è determinato in gran parte dalla scelta di quelle complementari e che comunque, anche volendo rimanere all'aspetto fiscale della questione, nel computo del voto di laurea le materie complementari fanno media esattamente come quelle cosiddette "principali".

E a questo punto torniamo alla metafora del postino in divisa rossa e blu. Come dicevo ieri, quando pensiamo al futuro Conservatorio di livello universitario abbiamo tutti in mente come professione di riferimento il concertismo. La realtà - il postino in divisa rossa e blu - è che il maggior numero di posti di lavoro musicali non si trova nel concertismo o nelle orchestre, che si stanno chiudendo una dopo l'altra, ma nell'insegnamento di Educazione musicale nella scuola media e nell'insieme di quelle che potremmo chiamare "nicchie professionali musicali"; di quelle professioni, cioè, difficilmente catalogabili perché costituite da un insieme di competenze professionali non specificamente musicali, che tuttavia richiederebbero una preparazione da musicisti e che vengono invece occupate da personale senza preparazione musicale per mancanza di musicisti preparati a quella specifica bisogna. Sfugge all'osservazione, cioè, che quelle competenze professionali non specificamente musicali, in mancanza delle quali i nostri diplomati sono costretti a cedere ad altri i loro posti di lavoro, potrebbero essere conseguite soltanto con lo studio di altrettante materie complementari. Altro "postino" pericoloso è costituito dal fatto che, nel considerare le materie complementari non ci si chiede mai se esse siano veramente ciò che dovrebbero essere e che invece le si prende per buone così come i programmi ce le impongono oggi. A me pare il caso che cerchiamo di chiarirci la loro effettiva natura.

I nostri programmi risalgono al 1930, a sessantacinque anni fa; e mai sessantacinque anni hanno contato tanto nella storia dell'umanità. Se prendiamo in esame quegli anni '30 constatiamo che si tratta di quelli in cui si sta attuando la riforma Gentile. Mi riesce difficile non vedere nella gerarchia delle "dignità" culturali, che certamente nella nostra scuola esiste e che comprende anche la musica, un aspetto della sua filosofia. Siccome nel pensiero di Gentile l'arte è il primo momento - cioè il più basso - della vita spirituale, è difficile non sospettare che anche all'interno dell'arte egli abbia visto una gerarchia di valori per la quale, per esempio, la Storia dell'arte è degna di esser insegnata nei licei e quella della musica - arte da giullari e saltimbanchi - invece no. Con più tempo a disposizione sarebbe facile mettere in evidenza come tutta l'organizzazione dei nostri studi musicali - e quindi la collocazione delle materie complementari all'interno di questa - sia condizionata da presupposti idealistici gentiliani, che ben poco hanno a che fare con le esigenze musicali.

Tanto premesso, cerchiamo di mettere a fuoco la situazione della musica in Italia in quel 1930. Intanto da cinque anni è morto Puccini. L'Italia è forse l'unico paese in cui in quel periodo sia ancora attiva la produzione di una forma d'arte colta a diffusione popolare: il melodramma. In tutto il resto d'Europa l'evoluzione del linguaggio musicale è più avanzata che da noi, ma da noi, insisto, questo linguaggio musicale dotto - che, se piace, può anche essere considerato arretrato rispetto ai tempi - è a diffusione popolare e questo, almeno nel mercato del lavoro, è determinante: si pensi alla diffusione e alla vitalità della miriade di teatri sociali che in quegli anni pullulano ancora nella nostra penisola.

Le professioni musicali di quell'epoca sono essenzialmente quelle dello spettacolo e del servizio liturgico: non si parla di insegnamento di Educazione musicale nella scuola media, non esistono le trasmissioni radiofoniche, non esiste la produzione dei CD e non si è ancora svolto il Concilio Vaticano II, in forza del quale la professione dell'organista liturgico di fatto scompare mentre le chitarre elettriche entrano in chiesa. Esistono i teatri e le chiese - magari anche i cori e le bande - e, di conseguenza, i musicisti che il Conservatorio di allora è tenuto a formare sono essenzialmente lavoratori dello spettacolo ed organisti liturgici.

Ma, si badi, in quegli anni si è anche compiuta l'evoluzione della figura professionale del musicista. E' noto che, certamente fino a tutto il '700 - in realtà fino alla fine dell'800 e ai primi del '900 - la figura dell'esecutore e del compositore, che oggi sono distinte, non erano così nettamente separate. Sappiamo che nei secoli precedenti il lavoro del compositore era fondamentalmente quello di scrivere un canovaccio musicale, che l'esecutore aveva poi l'obbligo di abbellire. La condizione professionale dell'esecutore dei secoli passati era simile, in qualche modo, a quella del jazzista d'oggi, cui nessuno perdonerebbe di presentarsi in pubblico a leggere uno spartito e al quale è invece richiesta la capacità di variare e improvvisare. Per parte mia posso dire di avere trovato ancora un'edizione del 1880 del trattato di canto del Lablache - che era morto prima della metà del secolo, ma il cui trattato era ancora stampato appunto nel 1880 - nel quale egli propone una certa melodia e, mi par di ricordare, dodici modi di variarla a seconda delle passioni da esprimere: tristezza, allegria, amore, ira, ecc. Si tratta di un procedimento chiaramente identificabile già nelle ripetizioni all'interno delle arie di Caccini ed il fatto è importante perché le "Nuove musiche" sono forse il primo documento musicale di un compositore-esecutore - un cantautore, diremmo oggi - che fissa in partitura non tanto il testo delle sue musiche, quanto il suo personale modo di cantarle e che, pur fornendo istruzioni tecniche affinché ogni cantante le possa variare a suo piacere, le scrive abbellite secondo il gusto suo. Fa capolino, cioè, il compositore che vorrebbe un modo determinato di esecuzione per le sue musiche. Quando arriviamo al 1723 il numero degli autori che indicano con precisione il modo di eseguire le loro musiche pare essere aumentato di molto, dato che il Tosi, nelle sue "Opinioni dei cantori antichi e moderni", al capitolo sull'appoggiatura appare profondamente offeso perché i compositori del suo tempo hanno preso a notare le appoggiature benché i buoni cantanti sappiano da soli dove le appoggiature si debban fare. D'altra parte Vivaldi, suo contemporaneo, la volta in cui è costretto a numerare un basso annota: "Con li numeri per li coglioni". Sono tempi, cioè, in cui si richiede all'esecutore anche una certa preparazione da compositore, in mancanza della quale esso viene giudicato "coglione" dai compositori stessi. Per farla corta osserviamo che la mancanza di confini fra la professionalità del compositore e quella dell'esecutore, vigente nei secoli passati va progressivamente perdendosi e che - se si vuole anche con l'invenzione del recital da parte di Liszt - i due tipi di carriera vanno divaricandosi sempre di più. Quando arriviamo al 1930 la divaricazione è ormai compiuta.

Che cosa comporta tutto questo nell'insegnamento? Che nella formazione del musicista la componente virtuosistica ha ormai preso il sopravvento e che le materie di cultura musicale generale, cioè le materie complementari, che una volta erano essenziali, adesso sembrano non esserlo più. Ho citato il Tosi. Basta leggere ciò che egli prescrive nella formazione del cantante: quando vuole che l'allievo studi il cembalo è perché questo deve essere in grado di accompagnarsi da solo; il che a quei tempi significa saper realizzare all'impronta un basso continuo. Gli chiede di sapere di contrappunto - e non soltanto un po' di armonia complementare - perché senza questa sapienza compositiva non è possibile diminuire correttamente le arie. E via di questo passo. Arrivati al 1930, delle materie complementari necessarie al tipo di formazione musicale che si è detto, noi troviamo soltanto più la forma cristallizzata. Se mi è consentita l'analogia un po' lontana, è toccata loro la stessa sorte di lingue come il francese o l'inglese la cui scrittura si è cristallizzata nella pronuncia di secoli addietro; motivo per cui oggi quelle lingue si scrivono in un modo e si leggono in un altro.

Frugando fra le pieghe dei programmi delle materie complementari è possibile riconoscere il processo di cristallizzazione cui esse sono andate incontro; è possibile distinguere, cioè, quanto si è costretti a fare oggi per decreto di legge da quanto invece in qualche tempo passato si faceva per esigenze musicali. Quando, per esempio, mi trovo ad insegnare solfeggio parlato non ho dubbi sul fatto che una buona conoscenza del parlato sia indispensabile per una buona lettura strumentale a prima vista, ma lo scioglilingua che sono costretto ad insegnare io è una corsa ad ostacoli, che ha ben poco a che fare col tipo di scrittura musicale che si incontra poi nella pratica. Le cose inutili di solito non si fanno e, se è stato inventato, una qualche utilità il solfeggio parlato deve pur averla avuta. E' certo che il possesso sicuro del solfeggio parlato è determinante per la lettura a prima vista, ma tanto è valido quando l'allievo è ormai in possesso di una certa maturità strumentale. Concludere lo studio del solfeggio al terz'anno con uno scioglilingua è ben povera cosa perché a questo punto la tecnica strumentale è ancora povera mentre, quando sarà giunto il momento in cui una lettura rapida sarebbe effettivamente necessaria, egli se lo sarà ormai dimenticato e avrà dovuto ristudiarlo per conto suo. Una delle cause plausibili dell'involuzione di questo insegnamento è che la voga del recital a memoria abbia progressivamente ridotto l'importanza della lettura a prima vista e che una pratica di lettura che dovrebbe accompagnare l'allievo lungo tutti gli studi, perso il collegamento con il suo fine originario, si sia progressivamente ridotta all'attuale forma di sillabazione musicale. Detta così non è più che un'ipotesi di ricerca, che, se non fosse per il fatto che si tratta di una disciplina che all'Università non esiste, potrebbe essere anche un buon argomento per una tesi in didattica musicale; comunque di esempi dello stesso genere se ne potrebbe fare almeno uno per ogni materia complementare.

Il numero degli anni di insegnamento delle materie complementari è problema che non riguarda soltanto i corsi inferiori. Arte scenica, per esempio, materia del corso superiore di Canto, incomincia certamente troppo tardi e dura troppo poco; nessun attore, quale anche dovrebbe essere un cantante, può essere formato in due anni. Non solo, ma se anche qui cerchiamo le cristallizzazioni, scopriamo che, prima della riforma del 1930, Arte scenica era una materia pensata innanzitutto agli allievi di composizione in quanto un compositore, almeno in Italia, allora produceva soprattutto melodrammi e doveva quindi avere una preparazione conveniente in questo campo; con che si capisce perché questa materia, che richiederebbe cure individuali quanto il canto - cure individuali richieste poi implicitamente dal programma di studio - sia invece, dal punto di vista normativo un corso collettivo con classi fino a trenta - diconsi trenta - allievi.

La portata di questi problemi si renderà evidente al momento in cui, giunto il Conservatorio al livello universitario, le materie complementari acquisteranno pari dignità con le altre. Allora queste materie dovranno essere completamente ripensate, ma se il ripensamento riguarderà soltanto il livello superiore difficilmente otterremo risultati musicali validi; dovremo invece ripensare tutte le materie complementari incominciando dal livello iniziale. Non solo. Ricordiamo che questa progettazione compete agli addetti ai lavori e deve essere fatta il più presto possibile affinché, qualunque siano gli sviluppi politici della riforma, i musicisti siano in grado di proporre agli organi istituzionali progetti seri e compiuti. In caso contrario i politici ci batteranno sul tempo e ci accadrà di veder confermato, per esempio, quanto si legge nel Testo unificato attualmente allo studio della Commissione Cultura della Camera, testo in cui, con tutta serietà, si parla di funzione propedeutica della fascia inferiore degli studi musicali: il violino, cioè, lo si incomincerà a studiare seriamente a quattordici anni.

Quanto sarebbero fondamentali le materie complementari nella formazione del musicista appare ancor più evidente se teniamo conto del repertorio che siamo chiamati ad eseguire oggi e che, stante l'evoluzione culturale in corso, saremo chiamati ad eseguire in futuro; un repertorio profondamente diverso da quello dell'anno di grazia 1930, in cui vengono fissati i nostri attuali programmi di studio. Sono tempi, quelli, in cui la concezione della musica come strumento di conoscenza storica è ancora in formazione. Sono tempi in cui, se non fosse per la crisi del linguaggio musicale in atto, il repertorio tenderebbe ancora ad essere, se non quello del trentennio in corso come in epoca barocca, almeno quello dell'epoca più recente.

In Italia, dove, come già detto, è ancora diffusa a livello popolare la forma musicale colta del melodramma, la morte di Puccini nel 1925 segna emblematicamente e traumaticamente la fine di un ciclo di produzione. Da questo momento - che, almeno in Italia, possiamo assumere come svolta della storia della musica e che è così prossimo a quel 1930 dei nostri programmi - si apre la divaricazione fra produzione musicale e gusto del grande pubblico. Gli esecutori e gli ascoltatori incominciano a respingere le composizioni dei loro contemporanei, il repertorio incomincia a cristallizzarsi e a farsi progressivamente antico. Un mobile della fine del '700 è certamente antico, ma alla fine del '700 Beethoven aveva 30 anni e aveva già scritto la "Patetica"; di conseguenza, anche se fatichiamo ad accettare l'idea, la "Patetica" è incontestabilmente antica.

Non soltanto. Il divorzio fra compositori ed esecutori fa sì che, mentre prima il linguaggio compositivo e le convenzioni esecutive si evolvevano influenzandosi reciprocamente, ora il repertorio incominci a cristallizzarsi e le convenzioni esecutive prendano a svilupparsi lungo una traiettoria tangenziale, senza riferimenti né col repertorio in uso - sottolineo: di giorno in giorno sempre più antico - né con quello contemporaneo, rimasto estraneo all'interesse del pubblico.

Il fatto - e torniamo alle materie complementari - ha gravi conseguenze anche didattiche. Io, che mi ritrovo ad insegnare Teoria e solfeggio, come posso non dire ai miei allievi che la sigla dell'Eurovisione, così come viene suonata alla TV, è sbagliata proprio nel solfeggio perché le convenzioni di scrittura in Francia ai tempi di Charpentier erano diverse dalle nostre? Ma se devo spiegarne le ragioni non ho più il tempo per fare solfeggio parlato, non ho più il tempo per preparare lo scioglilingua che il programma d'esame mi richiede. Che scelte devo fare? Posso anche lasciare irrisolto il problema lasciando credere che la sigla dell'Eurovisione sia suonata in modo giusto, ma non posso non sperare almeno che prima o poi questo nostro Conservatorio raggiunga effettivamente e indipendentemente dalla riforma il livello universitario; che giunga a sapere, cioè, che solfeggiare allo stesso modo Ravel e Charpentier è un errore marchiano.

Ieri osservava giustamente Salvetti che c'è in Conservatorio tutta una categoria di insegnanti che si sono costruiti la loro personale formazione professionale con un faticoso bricolage; io, che ho una certa esperienza di organizzazione di corsi internazionali, posso dire che la situazione non è molto diversa nemmeno all'estero. Ho avuto modo di avvalermi delle prestazioni didattiche di musicisti stranieri in possesso di tutti i titoli che vediamo negli schemi esposti nell'atrio da Fiorella Cappelli, ma in realtà i docenti che valesse effettivamente la pena di chiamare ad insegnare erano quelli che, al di là del titolo di studio, avevano praticato quel certo bricolage personale, nel corso del quale avevano prodotto qualcosa di nuovo. Le professionalità musicali moderne richiederanno soprattutto nuovi insegnamenti - cioè nuove materie complementari - per dare agli allievi quelle competenze che le nostre generazioni hanno dovuto costruirsi a fatica con un lavoro personale; di conseguenza una delle urgenze è quella di individuare i musicisti che questo bricolage l'hanno praticato, sia per censire il capitale di competenze del Conservatorio italiano, sia per s abilire quali siano le effettive esigenze delle professionalità musicali moderne. Soltanto chi si è posto dei problemi e ha voluto risolverli può dire con cognizione di causa quali sono le materie complementari necessarie, quali debbano essere i loro programmi e come debbano essere insegnate.

Potremmo fare tanti altri esempi di problematiche che dovrebbero affrontate da altrettante, opportune cattedre di materie complementari; io, per esempio, ho a casa un certo disco di duetti italiani per liuto registrato da due americani con tanto di laurea e di "master"; liutisti che, fra l'altro, conosco bene, che, anzi, sono cari amici... ma quei duetti italiani per liuto sono suonati in inglese: anzi, in americano. Che cosa intendo dire? Che, suonando, ogni strumentista non avvisato trasferisce inconsapevolmente nell'esecuzione le strutture prosodiche della propria lingua materna. Ciò che disturba nella dizione di uno straniero non è tanto la cattiva pronuncia dei fonemi quanto la prosodia che altera i significati del discorso. Veniamo dunque a quei duetti per liuto. Per chi è di lingua madre italiana e ha pratica di musica del Cinquecento essi dovrebbero suonare all'orecchio come "madrigali senza parole", ma chi è di lingua madre diversa tende invece ad organizzare il fraseggio musicale secondo la prosodia della propria lingua, in quel caso specifico, di quella americana; ed è appunto ciò che accade in quel disco. Non sto parlando della piacevolezza del risultato finale - che, nonostante tutto, in questo caso particolare è innegabile - ma del fatto che quell'esecuzione è qualcosa di intrinsecamente diverso da ciò che dovrebbe essere.

Mi si dirà che quella è musica antica e che costituisce soltanto una parte marginale del repertorio corrente. Certo, ma il problema dell'interpretazione musicale in prospettiva antropologico-culturale è problema che va ben oltre la musica antica e non è minore se dobbiamo eseguire musiche espressioniste o dell'Avanguardia degli anni Cinquanta; senza contare poi che quando noi italiani ci azzardiamo ad affrontare la musica americana senza aver preso coscienza delle strutture culturali che le stanno a monte, il problema si ripresenta negli stessi identici termini dei duetti italiani per liuto.

Non tenterò qui di fare il progetto delle materie complementari che dovrebbero essere insegnate in Conservatorio, ma dai pochi esempi fatti è facile concludere che esse dovrebbero essere ben più numerose e che comunque quelle che vengono insegnate oggi dovrebbero avere ben altra impostazione.

Riassumendo: le materie complementari sono in realtà fondamentali nella formazione del musicista; nessun insegnamento principale, infatti, è sufficiente da solo a formare un musicista allo stesso modo in cui le grandi categorie alimentari - proteine, zuccheri e grassi - non bastano alla formazione di un organismo ma devono essere integrate da quantità magari piccole di sostanze come vitamine ed oligoelementi, senza le quali l'organismo non riesce a crescere e sopravvivere.

Dobbiamo chiederci piuttosto se le materie complementari, così come sono insegnate oggi, sono veramente ciò che dovrebbero essere o non siano piuttosto l'arida sclerotizzazione di insegnamenti che sono stati vitali nell'ambito di un contesto culturale diverso. Giudicare della funzione musicale delle materie complementari in base alla loro impostazione attuale sarebbe grave errore e la cosa più urgente è invece quella di interrogarci sulla loro funzione, vera o mancata, nella realtà moderna; è quindi inutile che stiamo a piangere sui relativi, attuali programmi mentre si sta lavorando ad una riforma ben più profonda degli studi musicali.

Ho fatto esempi che soltanto apparentemente riguardano la fascia superiore degli studi. Fermandoci per semplicità a quello della variabilità del fraseggio delle musiche a seconda delle strutture linguistiche della cultura di appartenenza, è chiaro che si tratta di un discorso che non può aspettare ad essere introdotto a quattro anni dalla fine degli studi; lo studio di una lingua incomincia con quello della pronuncia e siccome all'interprete musicale é richiesta la massima professionalità, dovremo dargli fin dai primi anni di scuola la massima consapevolezza dei suoi compiti. Per quanto giovane egli sia dovremo cioè fargli capire la diversità dei "linguaggi" che egli dovrà "parlare"; né potremo accontentarci di un apprendimento ad orecchio, per imitazione; se vorremo che egli consegua la capacità di muoversi autonomamente nella molteplicità delle "lingue" musicali egli dovrà conoscerne a fondo anche grammatica e sintassi. Ribadisco quindi il mio intervento di stamattina, quando dicevo che non possiamo aspettare gli ultimi quattro anni di studio - il periodo universitario - per dare come docente, all'allievo musicista, un artista di alto livello: glielo dobbiamo dare fin dall'inizio. Un pediatra non può essere meno medico del medico sportivo soltanto perché il primo si occupa di bambini e l'altro porta atleti alle olimpiadi. Qualcuno ha detto che "i giovani vanno nutriti con midollo di leone". Se non si capisce che i giovani musicisti non fanno eccezione forse è perché non si è musicisti abbastanza.

Si potrà dire infine che per costruire un Conservatorio con un tessuto connettivo di materie complementari come quello che ho prospettato occorrerebbe un corpo docente quale non esiste. Rispondo dicendo che non avrei fatto questo discorso se non sapessi per cognizione di causa che nel corpo docente del Conservatorio vive ed opera, magari nascosto e misconosciuto, un tessuto connettivo di insegnanti le cui competenze personali non attendono altro che di essere sfruttate anche nell'insegnamento ufficiale.

Dato dunque che, come appena detto, pur nella latitanza della scuola ufficiale i musicisti italiani si sono attrezzati autonomamente per far fronte alle esigenze culturali della musica d'oggi, è ragionevole pensare che, senza bisogno di protettorati universitari, con un censimento delle competenze degli attuali docenti di Conservatorio sia possibile individuare tanto gli insegnamenti necessari al Conservatorio riformato quanto i docenti delle relative cattedre. Piuttosto sarebbe compito urgente di chi regge le sorti dei conservatori individuare tali competenze e valorizzarle nei modi opportuni.

Penso di avere abusato abbastanza della pazienza dei miei uditori e concludo ribadendo il concetto iniziale: anche se le materie complementari portano la scontata divisa rossa e blu, fermiamoci ad osservarle con l'attenzione che meritano: è una fatica che vale la pena.