ISA MELLI
Conservatorio di Mantova

Le voci dei ragazzi

La prima voce che ho scelto di portarvi, come contributo alla nostra riflessione sull'insegnamento musicale, è quella di Boris Magoni, allievo di clarinetto presso il Conservatorio di Mantova:

E' assurdo che noi Fiati (Legni, flauto escluso) pur avendo a che fare con strumenti relativamente massicci, qualcuno francamente ingombrante e pesante, dobbiamo poi dipendere in tutto e per tutto da una cosa piccolissima: una semplice, insignificante, ridicola, e - se vogliamo - insulsa, linguetta in canna di bambù. E' l'ancia. Un piccolo e fragile pezzetto di canna color nocciola talmente sottile e leggero che si rompe solo a guardarlo. Un'ancia, dopo parecchi giorni di buon funzionamento (e qui si può già parlare di puro miracolo, visto che molte durano anche solo cinque minuti), inizia a vibrare male e, se non si vuol sostituirla, si può allora intervenire con un metodo un po' bizzarro, ma abbastanza efficace. L'avevo sentito dire in giro: si immerge l'ancia stanca in acqua ossigenata per venti minuti ed essa torna in forma. E' un trucco che ho adottato e vedo che in qualche modo funziona. E mi viene da ridere quando guardo la mia ancia friggere nell'acqua ossigenata... L'acqua ossigenata non è niente a confronto di tutti gli esperimenti che ho condotto per tentare di stagionarle e renderle migliori. Ho provato, per esempio, a scaldarle nel forno a fuoco lento per un quarto d'ora, ma si seccavano troppo; ho provato a metterle al sole, in frigorifero, sul termosifone. Ho provato a lasciarle per qualche tempo in cantina, a scaldarle col fon, a lasciarle in ammollo per qualche giorno. Ma era tutto inutile. Arrivato all'esasperazione, ho provato a cuocerle in acqua bollente mentre il pensiero di suonare ad un concerto, magari importante, con un'ancia lessa mi sembrava grottesco. E sempre penso: ma guarda cosa mi tocca fare per essere un musicista ...

Ho, per questa comunicazione, ricavato alcuni temi ricorrenti da una serie di racconti autobiografici, tutti della misura di sette cartelle, che dall'89 vado raccogliendo. Dapprima in occasione dell'ora alternativa alla religione poi, soprattutto, durante un corso libero di lettura e scrittura che ogni anno apro presso il Conservatorio di Mantova. Ma anche, quando riconoscevo la voglia di scrivere, tra gli stessi allievi del corso di Letteratura perché non c'è miglior modo, per creare lettori attenti, che mettersi, almeno per un po', dalla parte di chi è disposto a farsi leggere. Ciò che vi ho letto sull'ancia riguarda la riflessione forse più frequente, la cosità del far musica: conoscere, domare, accudire lo strumento; adeguarsi ad esso. Un oggetto estraneo, una cosa fuori dal sé. Ascoltiamo adesso una pianista: Elide Bergamaschi, vent'anni, che è stata enfant prodige a Belforte, il suo paese.

Ma in fondo tra me e il mio pianoforte è cambiato ben poco con gli anni: lo considero ancora come allora un grandioso monolite in un angolo della stanza. A guardarlo è silenzioso, inanimato, calmo come l'acqua di notte che sembra tranquilla, ma non conosci le sue profondità. Quando mi metto davanti a lui, seduta, decisa a ricavare a tutti i costi qualcosa da quel mutismo, sparisce il senso di sudditanza che provo e quell'invisibile diaframma che si era insinuato tra noi. Il monolite diventa donna. E non una donna qualunque.
Staccate le mani, ritorniamo ad essere due entità separate. E dovrò faticare, litigarci, soffrire per sentirlo di nuovo mio. Anche se nulla è più precario del fare pace con se stessi, e forse sta proprio qui il bello: nel non sapere come andrà a finire. Credo che niente meglio della musica esprima questo senso dell'immediato, del presente come unica certezza.
Se deciderò di passare la mia vita suonando, questa fatica finirà con me. Altrimenti continuerà la sua perenne gestazione ed io, andando ad un concerto o ascoltando un disco, continuerò a cercare nelle mani degli altri quello che avrei voluto facessero le mie.

C'è anche, come caso estremo, il sentire se stessi una cosa che è un tutt'uno con l'oggetto sonoro. Ne parla Paolo Gattolin, iscritto a Composizione, che per mantenersi fa il pianista di pianobar. La solitudine del pianista di pianobar: un topos nella rara letteratura, anche cinematografica, che guarda la musica dalla parte di chi la fa.
In un Conservatorio s'incontrano persone molto diverse fra loro. Per esempio abbiamo da misurarci con gli stranieri. Così ho adesso anche i racconti, davvero interessanti, di Kim Ci Gon, cantante coreano, e di Eugjen Gargjola, piccolo ma promettente violinista albanese, dei quali purtroppo non ho qui il tempo di parlarvi: i dieci minuti concessi per questa comunicazione sono pochi di fronte ad un materiale tanto vasto.
Ecco Paolo Gattolin, sulla cosità:

Si sa il pianoforte è un ottimo arredo, fine ed elegante, e se c'è il pianista è anche meglio. Così a pochi entrando in un pianobar viene in mente di salutare il pianista. Una parte dell'arredo, peraltro superflua, tant'è vero che in tempi di magra è il primo a scomparire, insieme ai vasi di fiori freschi. Chissà forse le mie mani potrebbero arrivare a scegliere da sole i brani (in parte già questo accade) o forse addirittura potrebbero essere educate a fiutare i tempi, i ritmi, i temi giusti per i clienti dell'hotel. Nel frattempo io potrei occuparmi di pratiche taoiste o recitare il rosario o cercare di affinare la tecnica per praticare l'ubiquità. Non parlo della liberazione dal ciclo delle nascite e delle morti: parlo semplicemente della liberazione dall'attuale mia incarnazione in soprammobile sonoro dell'hotel in cui lavoro.
Accadrà alle ventidue e trenta precise. Allora potrò riappendere la giacca nera nello sgabuzzino e, se il mio collega del turno delle ventidue e trenta non mi giocherà brutti scherzi, sarò di nuovo un uomo. Si può dire che il pianobar è uno dei mestieri che ti porta più di ogni altro alla ricerca spirituale di alta levatura che può anche esserti riconosciuta e può capitarti che, a fine serata presentandoti in direzione per essere liquidato, ti facciano complimenti del tipo: "Bravo, è così che deve essere: lei deve esserci, nello stesso tempo, non esserci".

I ragazzi e le ragazze, insomma, facevano intravedere, insegnavano e insegnano, prima di tutto a me non musicista, che cosa significhi ogni giorno dover badare a viti, tasti, feltrini, corde, zeppe, pistoni, manici e pedali imparando a controllare, con gesti minimi, membrane eccitate e soffi d'aria invisibili. E nell'occasione io sempre ricambiavo, e ricambio, descrivendo a mia volta come io, invece, in fondo più alla buona, mi muovo sui libri e sulla tastiera della macchina da scrivere.
Poter contare su un corpus di quindici racconti autobiografici scritti da giovani musicisti credo appaia abbastanza sorprendente in un ambiente come il nostro dove non si hanno, all'apparenza, consolidate abitudini critiche e tanto meno narrative; dove per tradizione non si educa alla riflessione perché in un Conservatorio s'impara guardando e facendo, e s'insegna facendo. Ma è indiscutibile che esista un insieme di regole in qualche misura, se passibili di apprendimento, codificate. Esse sono implicite, incorporate nel Fare. Perché, come già scriveva Gramsci, non esiste attività manuale, per quanto semplice, (e quella del fare musica inoltre è complessa), scissa da una qualche attività intellettuale. Fra l'altro, come io ho verificato, se i nostri allievi quando scrivono parole si trovano abbastanza a casa loro, è anche, tutto sommato, perché la scrittura è un altra maniera del Fare.
Ma la tradizionale mancanza di loquacità dei musicisti (qualora non incontrino buone lenze) diventa subito comprensibile se non dimentichiamo che, hoi hoi, "quando c'entra il corpo, inizia sempre il mistero". Scriveva Edward Forster per quelli di Bloomsbury, ma ascoltiamolo da Stefania Spaggiari, vent'anni, cantante di Santa Vittoria di Gualtieri:

Dovevo impararmi dentro. Per il funzionamento del diaframma, lei cominciò a farmi eseguire strani esercizi: mi fece, per esempio, alzare un tavolo e disse che, cantando, dovevo fare lo stesso sforzo fisico che sentivo in quel gesto. Ma, davanti ad un pubblico, avrei dovuto diventare padrona, trasmettere sicurezza senza arrossire di fatica. Dovevo stare dritta con la schiena, senza aiutarmi più con tutto il corpo lasciandomi andare a strani inchini incontrollati.
Per cantare si deve imparare, sensazione dopo sensazione, quel che succede dentro. Si deve studiare in profondità. L'acuto è all'altezza della punta del naso. Il naso è il punto di riferimento. Tutte le note che porto su devono avere questa altezza e, mentre il fiato va verso quel punto, la schiena deve essere elastica, se no, quasi si spezza. Cercare un punto di riferimento che non c'è nella realtà che gli altri vedono. Un punto di riferimento che scopri soltanto tu e quando riesci a vederlo, anche se non c'è, devi afferrarlo e catturarlo. Ed è qualcosa che ti scappa come se lo portasse via il vento.

Agli allievi e alle allieve, si sa, è richiesta un'attenzione esclusiva per il proprio strumento. E c'è chi questa specie d'amore non riesce a provarlo facilmente, e c'è chi non ci riuscirà mai, e c'è chi - addirittura - non ha potuto neanche iscriversi allo strumento desiderato. Alessandro Franciosi, 16 anni:

Mi sono iscritto a contrabbasso ma, ad esser sincero, avevo in testa il sassofono, uno strumento più sportivo. Dopo aver agganciato un sassofono alla sua cinghia, messa a mò di cravatta, volendo, si può partire. Si può partire e andare a fare un po' di footing ai giardini.
Ma mi sono iscritto a contrabbasso che è uno strumento sedentario: per le sue dimensioni è proprio difficile portarlo a spasso. Persino la sua voce è pesante (sembra quasi che il contrabbassista sia sempre triste) e viene spesso usato nelle colonne sonore dei film dell'orrore. Il sassofono, invece, ha una voce brillante e piena d'energia: dà un'impressione di libertà e, magari, anche di ribellione. Si vuol far sentire e si vuol distinguere risaltando, appena può, come solista.
Il contrabbasso mi sembrò al primo incontro uno strumento scomodo, impossibile, troppo grande per essere fine. Un po' grossolano, diciamolo.

Raccontano volentieri dei loro inizi con la musica, della rivelazione, del primo impatto, del primo insegnante. E riflettono costantemente sui tempi lunghi dell'apprendimento musicale: l'attesa, i piccoli passi avanti, la conquista della concentrazione, la conquista della precisione; il diventar padroni dello strumento; la naturalezza dell'esecuzione come grande traguardo. Tutti valori in controtendenza rispetto a quelli correnti. E arrivano sempre a parlare della loro difficoltà ad adeguarsi ai modelli di comportamento colto, diciamo, (loro dicono "serio"), impliciti nell'assumere quel repertorio classico generalmente imposto in un Conservatorio. Soprattutto questo è in controtendenza rispetto ai modelli giovanili contemporanei che, come è ovvio, anche loro incontrano tutti i giorni. E così ogni ragazzo e ogni ragazza deve darsi una spiegazione, deve sistemare la faticosa diversità che piace tanto agli adulti, ma che risulta incomprensibile ai coetanei. Ancora Stefania Spaggiari:

Ai primi vocalizzi mi sentii in imbarazzo. Da piccola prendevo in giro la voce grossa, innaturale, dei cantanti lirici sentiti alla radio e all'improvviso me lo ricordai. Imparai a cantare in maschera, portando il fiato in alto mentre la bocca tiene una specie di sorriso, un sorriso di leone che mostra le fauci.
e ancora
Per i miei abiti, scelgo tessuti dalle tonalità classiche perché, secondo me, si sposano bene con i teatri e la serietà delle arie che eseguo.
Quando canto in paese le mie amiche non capiscono l'aria seria che devo prendere: dicono che quelle mie acconciature e quei miei vestiti mi invecchiano e che non sembro più una ragazza e che, più che una loro amica, sembro adesso un'amica delle loro mamme.

"Non aver tempo" è lo stato d'animo più diffuso in un Conservatorio. E viene generalmente trasmesso subito: tutto, a cominciare dalle materie complementari, disturba la concentrazione sullo strumento. In molti casi i nostri allievi arrivano ad essere proprio molto occupati. Quella di chi frequenta la doppia scuola è, per esempio, davvero una vitaccia. Ce la racconta Giulio Chiribella, 16 anni, pianista, con quel tipico fervore spiritoso della scrittura dei liceali.

Come un animale costretto a vivere in condizioni difficili, io, dovendomi barcamenare fra gli impegni del Liceo e del Conservatorio, sono arrivato all'attuazione di varie strategie per risparmiare tempo. Piuttosto divertenti da leggere, eccone alcune:
1) Un enorme problema è la merenda: troppo tempo per far bollire l'acqua, mettere la bustina del té in infusione e berlo. In tutto venti e passa minuti. Troppo. Non disperdersi, quando si suona, andando troppo spesso a fare spuntini in cucina. Mangiare, al massimo, ogni ora.
2) Non ascoltare musica mentre si studia per il Liceo. Si perde solo tempo.
3) Quando ci si allena, ripetendo tante volte certi passaggi che impegnano una mano sola, si può intanto leggere qualcosa tenendo il libro con l'altra mano libera. Sconsigliati i trattati di filosofia, le poesie, i saggi con le note alla fine e le lettere d'amore. Ottimi i Vangeli, le commedie e i fumetti.
4) Stare lontani dal telefono e rispondere solo se ha già trillato per tre volte. Il telefono è una grande causa di perdita di tempo in forma di pettegolezzo.
[ecc...]

Non essendo io né musicista né musicologa, ma l'insegnante di Letteratura Poetica e Drammatica, mi sono trovata così a sentirmi un po' turista e a diventare un po' l'etnografa del Conservatorio di Mantova.
Se dovessi scrivere a mia volta un racconto di sette cartelle, e lo farò, descriverei soprattutto l'impazienza per la parola e la fretta che si respirano in un Conservatorio, un'istituzione dove si sente sempre dire "la mia classe" ma raramente "la nostra scuola". Coi colleghi poche occasioni d'incontro e di scambio. I fuori sede, i treni in partenza certo, ma soprattutto, secondo me, anche qui, uno stato d'animo quasi dovuto. C'è da dimostrare che si è impegnati altrove. C'è, prima di tutto, un dover essere artisti, concertisti, saggisti e conferenzieri. E così la disponibilità allargata, politica diciamo, per la scuola è vista quasi con diffidenza, essendo essa la prova evidente che non si è riusciti ad essere qualcosa di più che semplici insegnanti.
Ma insegnare rimane un bel mestiere, soprattutto quando, e nel Conservatorio è previsto, sia possibile viverlo, di volta in volta, all'interno della relazione diretta tra un solo allievo, o allieva, e un solo insegnante. Lusso e responsabilità incredibili che anch'io, che non c'entravo niente, ho ereditato.