GILBERTO BOSCO
Conservatorio di Torino

Atipicità dell'istruzione musicale?


Affrontare il tema della (reale o presunta) Atipicità dell'istruzione musicale espone a molti pericoli: i non addetti ai lavori scuoteranno la testa perplessi, ritenendo, forse perfino con qualche ragione, che ogni campo dell'arte e della conoscenza abbia un proprio specifico, ma che tale fatto sia, proprio perché ampio e diffuso, sostanzialmente ininfluente; gli addetti ai lavori paventeranno invece, con un sottile senso di noia mista a timore, l'ennesimo ritorno delle polemiche legate al concetto di 'docente unico', con tutto l'armamentario collegato di argomenti, in parte buoni e in parte cattivi, che spaziano dai problemi psicologici a quelli della cosiddetta "impostazione" (qualunque sia il senso che si vuole dare a questa parola), passando per le tematiche del 'si è sempre fatto così' e non dimenticando una robusta dose di 'mozione degli affetti'. Vorrei deludere gli uni e gli altri -se ci riuscirò- ponendo al centro del mio intervento (che vuole essere più una raccolta di spunti che un intervento finalizzato ad una tesi) la domanda: perché i musicisti parlano, da sempre, di atipicità del loro insegnamento?
Inizierò sgombrando il campo dal sospetto di un qualche 'interesse privato' della categoria. E' pur vero che, in questi ultimi anni, la difesa del 'docente unico' e partendo di lì, con un audace salto concettuale che non ho mai compreso pienamente, la difesa della atipicità didattica è stata spesso sbandierata e usata, soprattutto da un certo sindacalismo autonomo, per difendere l'esistente: bisogna che non cambi nulla perché non cambi nulla, è spesso sembrata la posizione di molti esponenti di tali sindacati. Ma il tema della atipicità è di gran lunga precedente ai dibattiti di questi ultimi anni, e chi ne dubiti potrà consultare le biografie di musicisti famosi del passato più o meno remoto, giungendo fino a quelli oggi in attività: ci si accorgerà della sostanziale disomogeneità del curriculum studiorum di tutti i musicisti attivi, italiani e stranieri: l'unica costante nei loro percorsi didattici e culturali (oltre alla scelta musicale generalmente precoce) sembra essere un precario equilibrio tra capacità e destino, tema certo affascinante e fondamentale ma il cui significato pratico mi pare superare gli orizzonti del dibattito ora vivo in Italia. D'altra parte, il sindacalismo autonomo che ha agitato questo tema, lo ha fatto non per inserire una sostanziale novità nel mondo della musica, ma perché il tema della atipicità era già forte e sentito come ovvio dalla maggior parte dei musicisti: e credo basti questo argomento per dimostrare una non sovrapponibilità del tema 'interesse personale' con quello di cui ci stiamo ora occupando.
Ma perché i musicisti, nel corso della loro storia, hanno pensato che la didattica musicale sia atipica? Cosa c'è nell'imparare a leggere e scrivere che non sia meccanicamente trasferibile e applicabile, poniamo, alla didattica del violino o del pianoforte? Nel corso degli anni trascorsi in Conservatorio, da studente e poi, molto più tardi, da docente, mi sono spesso posto domande di questo tipo, e avanzerò qui alcune ipotesi, in parte anche banali, su cui far procedere il discorso. Se guardiamo un bambino che scrive ci accorgeremo facilmente che, oltre a dover padroneggiare in qualche misura le conoscenze che si riferiscono al "che cosa scrivere", l'atto della scrittura costringe a padroneggiare alcuni movimenti muscolari, più facili oggi in cui -purtroppo- si scrive con le penne a sfera, più complessi per chi voglia usare una penna stilografica, di difficile controllo quando si usavano pennini e calamai. Forse qualcuno tra i presenti ricorderà le macchie d'inchiostro sui quaderni; ma, anche senza passare per racconti di epoche ormai lontane, la semplice osservazione visiva di un quaderno di scuola rivelerà, con i suoi sgorbi, strappi, disordini vari, la complessità di una acquisizione in fondo banale: il controllo di pochi muscoli della mano richiede sforzi non indifferenti, e il problema viene risolto dal singolo bambino spesso con uno sforzo pluriennale. E, ove la soluzione fosse poco soddisfacente, potrà usare nel corso della sua vita tastiere di macchine per scrivere o di computer, e, se volesse imparare l'uso di inchiostri a china e le delizie del disegno tecnico, potrà sempre, anche in età adulta, frequentare corsi appositi. Se trasportiamo queste semplici osservazioni in campo musicale ci accorgeremo di alcune macroscopiche differenze. Intanto, la quantità e la qualità di controlli muscolari necessari anche solo ad un livello elementare di esecuzione musicale è più grande -in un modo quasi incommensurabile- rispetto a quella richiesta per controllare una penna e un calamaio. E poi: ogni eventuale lacuna o imprecisione sarà sanabile solo con estrema difficoltà e comunque entro pochi anni (l'esperienza ha dimostrato come in età adulta non siano possibili sostanziali ricuperi per quanto riguarda il patrimonio individuale di tecnica musicale, almeno per quella fondamentale e di base). E ancora: non è possibile alcuna agevolazione tecnologica, non esistono penne stilografiche o tastiere di computer utili alla bisogna, un pianista che si risolvesse ad utilizzare -ad esempio- un campionatore, cambierebbe categoria musicale di appartenenza invece che migliorare il suo pianismo. E in più: nell'esecuzione musicale è inevi abile una continua e crescente richiesta di miglioramento della "calligrafia"; dopo aver imparato il normale corsivo, il nostro giovane studente dovrà imparare il maiuscolo ed il maiuscoletto, e qualche anno dopo dovrà inserire qualche riga in gotico, e se proseguirà gli studi dovrà cimentarsi in qualche frase scritta in onciale, e così via.
Fin qua, sono nozioni forse ignote ai profani, ma banali. Un problema più complesso riguarda il contenuto. Un fanciullo che impara a scrivere, compiterà semplici parole, per passare a frasi e di lì a temi via via più complessi. Non so se un tema di un ragazzo di 12 anni possa paragonarsi (per complessità di concetti e densità di decifrazione) ad una esecuzione pianistica di un pezzo facile di Bach; ma se anche è paragonabile, il raffronto non è preciso. Sarebbe più preciso se noi pensassimo al caso di un giovane che scrive un tema, e che per scriverlo e nell'atto di scriverlo deve contemporaneamente correre i 100 metri piani in n secondi; due anni dopo, dovendo riscriverlo, dovrà farlo in modo più approfondito e argomentato, contemporaneamente correndo in n-x secondi. Questo punto focalizza la differenza fondamentale tra la didattica musicale e quella per così dire 'generale': soltanto in questo senso, nel senso cioè determinato dall'inter-relazione tra lo sviluppo di capacità muscolari/tecniche e l'acquisizione culturale di mezzi di comprensione/decifrazione/comunicazione a livello esecutivo, si potrà parlare di una atipicità dell'esperienza musicale.
Se ciò è vero (e pur nella sua banalità, so che molti potrebbero tentare di argomentare in modo difforme: ma non so con quale verosimiglianza) ne conseguono alcune considerazioni, forse non così banali come le premesse. Almeno due mi paiono degne di essere citate qui.

1. Lo sviluppo muscolare/tecnico può procedere in modo e a velocità difforme da quello mentale/culturale. Quindi sarà sempre difficile s abilire che a x anni (12, 14, 16, 18: inserire la cifra preferita) uno studente avrà il livello Z di abilità manuale e un livello chissà quale di capacità concettuale; a quell'età, in quella classe di scuola (qualunque essa sia) potrebbe aver risolto uno, o nessuno, dei due livelli. Ma l'interazione tra questi creerà (e nei fatti crea, come sa ogni insegnante) dei problemi. La crescita didattica, ci potrebbe insegnare qualunque esperto, non è sempre e soltanto un processo lineare: segue un processo discreto, a gradini in qualche misura imprevedibili. Se i gradini seguono due scale tra loro in parte indipendenti (tecnico da una parte, mentale dall'altra) sarà sempre difficile s abilire delle corrispondenze: solo un sistema molto elastico e flessibile potrebbe adeguarsi alla realtà. Se -per fare un esempio- 6 persone votano in un senso e 4 in un altro, avremo una maggioranza certa. Ma se 6 studenti sono ad un livello, 1 è molto più avanti e 3 sono, in diversa misura, in difficoltà, non abbiamo una maggioranza: la didattica non può valutare i numeri come se questi non fossero delle persone, reali nei loro problemi. E neppure è una soluzione un appiattimento in basso: si può, forse si deve, elaborare un sistema elastico che permetta sia la selezione che il recupero. E, soprattutto, il necessario - anzi indispensabile - accostamento di un corso di studi musicali ad un normale percorso scolastico (quasi nessuno vuole più, per fortuna, creare una specie di abilissimi saltimbanchi privi di cultura) dovrà prevedere dei meccanismi di elasticità temporale, nel senso appena detto.

2. Anche la figura del docente unico può uscire meglio dimensionata dal quanto appena detto. Se la crescita dello studente non è omogenea e continua, ma a gradini, l'eventuale passaggio da un docente ad un altro potrebbe essere deciso, caso per caso, tenendo conto della reale situazione didattica e psicologica dello studente. Avremmo così, insieme, i vantaggi della tradizionale figura del docente unico (continuità didattica e impostazione uniforme, almeno per sezioni significative di tempo; creazione di quel rapporto psicologico e affettivo che ha spesso caratterizzato, non solo in Italia, lo sviluppo dei giovani musicisti) con i vantaggi derivati da alcuni (pochi e programmati) cambi di docente (tutti sappiamo che un 'cambio di prospettiva' porta spesso ad un improvviso salto didattico dello studente; e lo stesso, piccolo o grande che sia, choc psicologico provocato dal cambio della figura di riferimento costringe ogni studente a una riorganizzazione delle proprie conoscenze, con effetti quasi certamente positivi per la sua crescita personale). Ciò che è importante, a mio parere, è evitare ogni forma di automatismo: non si può, per i motivi detti sopra, supporre che tutti gli studenti di 18 anni si trovino nelle condizioni di cambiare docente, e quindi imporglielo, astrattamente e per un motivo sostanzialmente extra-musicale.
Qui è necessario uno sforzo di fantasia (ma senza fantasia si fotografa solo l'esistente, e spesso anche male). Ho evitato finora di citare i progetti di legge attualmente in discussione in Parlamento, poiché non a questo aspetto della riforma è dedicato il nostro convegno, ma forse a questo punto una semplice allusione chiarirà il senso in cui parlavo di 'sforzo di fantasia'. Nel testo elaborato da una commissione ristretta coordinata dall'on.Sbarbati, attualmente in discussione alla Commissione Cultura della Camera, un articolo è dedicato al punto 'raccordo tra istruzione secondaria artistica e istruzione superiore', prevedendo per tale raccordo la creazione di una Commissione (in un altro punto dello stesso testo, un raccordo diverso ma simile è previsto 'verso il basso', in direzione delle istituende scuole medie a indirizzo musicale, una per distretto scolastico). Questo punto potrebbe forse suggerirci di procedere "per analogia", decidendo nello stesso modo su come distribuire gli eventuali cambi di docente e per valutarne, caso per caso, la necessità. E forse tutto ciò sarebbe semplificato se, invece di affannarci tutti, docenti e parlamentari, da due punti di vista speculari, del problema 'inquadramento dei docenti e loro stipendio', affrontassimo con fantasia ed elasticità questo problema, tenendo conto delle esigenze concrete degli studenti interessati. Forse un meccanismo elastico e per così dire 'trasversale' che amministrasse insieme docenti e studenti, dalla fine della scuola dell'obbligo al termine degli studi, corrisponderebbe meglio alle necessità della scuola e non costringerebbe i giovani aspiranti musicisti in un letto di Procuste, previsto e pensato per altre esigenze.