CI GON KIM

Caok! Caok! Verso dell'ibis, verso doloroso.

Corso di scrittura 1994/95

Quando mi trovai un po' d'amici il mio nomignolo fu Ka-Su, cantante, ma il mio vero nome, Ci Gon, vuol dire "governatore del mondo."
Anno 1964, nasco a Mok-po, un villaggio piccolo e povero. Quasi tutte le case erano di legno. Un fiume correva di fianco al villaggio (non ricordo più come si chiamava): era molto largo ma col fondale basso. Io ci lanciavo i sassolini e avrei voluto anche pescare, ma per tutto il tempo che sono rimasto a Mok-po non sono riuscito a prendere neanche un pesce. Adesso penso che i pesci non c'erano perché l'acqua era troppo sporca.
Quando sentivo la noiosità del fiume, mi spostavo a giocare lì vicino dove c'era un mucchio di rifiuti. Durante la mia infanzia non c'erano giocattoli veri ma il mucchio di rifiuti me ne offriva: le lattine vuote dove mettevo del fuoco; le bottiglie di vetro che sono state i miei primi strumenti musicali; i pezzi di carta coi quali facevo delle barche e degli aeroplani. Poi, ogni tanto, i macellai buttavano gli intestini dei maiali. Con le vesciche del maiale si possono fare dei palloni da calciare che durano abbastanza a lungo.
Una ragazza, mia vicina, mi insegnava le canzoni popolari. Nei momenti più difficili con quelle canzoni costruivo un altro mondo dentro di me. Ancora adesso, quando non riesco a dormire, le canto con la voce interna e allora mi addormento.

In un isola, la mamma e la bambina.
La mamma va all'ombra dell'isola
per prendere le ostriche.
La bambina rimane sola,
custodisce la casa,
sentendo la ninna-nanna del mare
dorme sul suo stesso braccio.

C'è un altro mondo in me. Ogni tanto lo sento, anche se sono passati tanti anni e la mia vita è cambiata. La mia vicina ci curava perché la mamma andava al lavoro. Insegnava le canzoni dei bambini a noi tre fratelli. Io non ricordo il suo viso, ma era confortante. Faceva la commessa in un negozio, non ricordo che negozio. Io cantavo anche davanti alle persone, mi piaceva: ho sempre avuto il senso dell'applauso. La mia canzone migliore era Canta, rana vecchia:

Uak! Uak! La rana vecchia canta.
Il figlio, il nipote, la moglie del figlio,
tutti insieme.
Uak! Uak! Canta durante tutta la notte.
Viene l'alba senza ascoltatori,
ma anche senza ascoltatori continua a cantare.

Allora cantavo senza capire. Un giorno la mia vicina è caduta per un colpo di pistola di qualcuno. L'ambulanza la portò via. Dopo alcuni giorni per l'ultima volta l'ho rivista: aveva gli occhi bendati.
In una piccola casa di assi sul fiume abitavano due bambini senza padre e senza madre. Stavano senza parola. Noi li chiamavamoGab-dori e Gab-suni, cioè Gab-maschio e Gab-femmina. Erano fratelli però ci sembravano una coppia. Io non riuscivo ad immaginare cosa facevano, cosa mangiavano, cosa c'era dentro quella casa. Ogni tanto li ricordo ancora e me li immagino ancora là che vivono come Peter Pan. Vicino alla loro casa c'era una pozzanghera schiumosa. Un giorno nella schiuma abbiamo visto un segno che sembrava una faccia d'animale. Alcuni ragazzi credevano che lì fosse affondata una volpe, altri pensavano che lì la volpe venisse a bere ogni giorno. Comunque poi avevamo paura di avvicinarci alla pozzanghera perché la volpe è un animale malauguroso e terribile. Quattro anni fa sono tornato a Mok-po. C'era una sola grande strada, non c'erano più né il fiume, né le case d'assi, né il mucchio di rifiuti, né la pozzanghera schiumosa. Ma i ricordi sono vivi in me, anche se non riesco bene a collegare il prima e il poi, e forse vorrei ancora pescare in quel fiume dove so che non c'è nessun pesce.

Quando ero piccolo, mia madre aveva paura per me e non era confortante. Era sempre al lavoro e non ne ho un buon ricordo. C'erano quattro maschi in casa e nessuno l'aiutava neanche a lavare le calze. Io allora non capivo il suo dolore.
Io crescevo e cominciava a germinare in me il rimpianto della mamma. Quando al cinema vedevo storie di ragazzi orfani, io piangevo e mi sentivo il protagonista di quei film tristi. Quell'illusione durava alcuni giorni e non potevo togliermela. Mia madre in realtà vive ancora e non so perché allora avevo il senso che fosse morta. Gridavo: "Sono in solitudine, sono in solitudine". Forse perché io volevo sentire la solitudine e il rimpianto. Mi piaceva il mare d'inverno, mi piaceva prendere addosso il vento sulla spiaggia mentre camminavo facendo il poeta.

Sembra di vederla, sembra di vederla,
ma non si vede.
Caok! Caok! Verso dell'ibis, verso doloroso.
Si parte. Ma per dove?
Là dove è andata la mamma,
là dove sorge il sole.

Anno 1969, la nostra famiglia si trasferiva da Mok-po a Kwangju che è la quarta città della Corea del Sud, un po' meglio di Mok-Po, ma eravamo ancora poveri e abitavamo una casa d'affitto.
Anno 1970, la situazione sanitaria era pessima: dalle bocche di alcuni ragazzi uscivano vermi.
Anno 1971, sono entrato alla scuola. Avevo sette anni. La scuola mi dava un pane al giorno. Io pranzavo con quel pane. Anche nel pane c'erano i vermi. Quel pane era gratis, per il latte avrei dovuto pagare. In quel latte mescolavano dell'acqua. Io desideravo da morire berlo, ma potevano berlo soltanto i bambini ricchi. Finora non ho potuto dimenticare come bevevano quel latte con orgoglio.
Se una mamma dava dei soldi all'insegnante, allora suo figlio o sua figlia prendevano un'ottima pagella, potevano fare i capoclasse e quando si diplomavano prendevano il premio d'onore. Io prendevo i voti più bassi. Invece mio fratello maggiore aveva un'ottima pagella, prendeva il premio d'onore e faceva il capoclasse. La passione della mamma per lui era grandissima.
Mangiavo gli anni, stavo crescendo, l'immagine vaga e il rimpianto inventato diventavano un seme d'odio. Io volevo diventare una star. Volevo godere di vasta popolarità. Ai concorsi della scuola cantavo le canzoni dei bambini, ma già sapevo le canzoni degli adulti che imparavo dalle onde della radio. Alcuni ragazzi cantavano canzoni davvero terribili:

Sul vicolo nel buio
una donna cammina veloce,
un brutto ceffo si presenta e le chiede:
dammi i soldi, dammi il tuo orologio,
poi svestiti, se no, ti uccido.
Presto presto.

Ma non era colpa loro: erano tempi così. Seguivamo per la strada le ragazze più carine:

Non andare, non mi lasciare
stiamo così per cent'anni
non andare, non mi lasciare.

Allora non capivo cosa vuol dire una canzone. Adesso le canzoni mi sembrano album portaricordi.
Dopo il 1970, il piano di cinque anni per lo sviluppo economico progrediva e la vita cominciava a cambiare in fretta e furia. Anno 1972, a scuola dovevamo pagare anche il pane perché le condizioni della Corea del Sud stavano migliorando ma le forniture dagli Stati Uniti erano finite. Col pane c'era adesso la marmellata. Il gusto era buonissimo. Dopo il 1972 la gente ha potuto scegliere cosa mangiare. Ma ha dimenticato troppo in fretta il gusto del latte: era arrivata la cocacola. Comunque, sino al 1979 è stato un lusso per me comprare il latte.
Anno 1980, ancora un colpo di stato militare, tanti giovani sono morti, però lo sviluppo economico ancora faceva progressi. Mio fratello mi regalò un orologio da polso. Ero contentissimo e, mentre camminavo, stavo a testa alta e tiravo su la manica perché l'orologio si vedesse bene. Il colore era d'argento ed era un po' largo per me. La lancetta dei secondi mi sembrava sempre stanca perché era sempre in movimento e gridava tutta la notte senza pausa. Da uno a dodici, le ore erano sistemate per bene con ordine. A fianco c'era un pulsante piccolo. Prima di avere quell'orologio non sapevo quante ore avevo a disposizione ogni giorno. Prima forse pensavo di averne più di cento, ma quell'orologio me ne dava solo ventiquattro e io dovevo obbedire al suo comando. Quando la lancetta lunga indicava le dodici, la lancetta corta indicava le sei e io dovevo alzarmi. Poi dovevo uscire per entrare a scuola prima che l'orologio indicasse le sette. Poi, un ciclo dopo, se indicava le otto di sera, potevo uscire dalla scuola. Poi dovevo studiare fino a quando indicava le dodici di sera. Allora potevo dormire. Quell'orologio era una prigione rotonda.

Fin da mattino,
tic!tac!tic!tac!
sempre gli stessi suoni,
tic!tac!tic!tac!
lavora, lavora, senza pausa.

Era il principio di una nuova vita, era il principio del mio medioevo oscuro.
Anno 1976, sono entrato alla scuola media: avevo dovuto tagliare i capelli cortissimi, sembravo pelato; indossavo l'uniforme nera; dovevo portare una borsa pesante e prendere degli autobus complicati. Solo la musica mi confortava. Cercavo di adattarmi a poco a poco: nella classifica del primo anno ero decimo su sessanta allievi. Studiavamo letteratura coreana e lingua inglese, matematica, sociologia, fisica e industria, pittura, lingua cinese ma la musica mi piaceva più delle altre materie. Io aspettavo con ansia quella lezione perché cancellavo i brutti pensieri solo in quell'ora. L'insegnante ci insegnava a cantare con le note e poi dava per compito una canzone da imparare a memoria. Io ero sempre il primo. Per la prima volta qualcuno mi diceva che ero un genio. Ma dopo sei mesi di scuola, il mio insegnante fu arrestato per gioco d'azzardo. Non lo vidi mai più. Arrivò un insegnante nuovo: era molto grasso e il suo viso era sempre rosso, forse beveva troppi liquori, mi bastonava ogni giorno e voleva dei soldi. Così il mio impero era caduto.
Anno 1977: da quest'anno la mia vita comincia a corrompersi. Un ragazzo mi chiedeva soldi; un altro voleva il foglio d'esame e, se io non glielo facevo vedere, mi picchiava alla toilette; due miei amici scapparono di casa e non li rividi mai più. Non cantavo più le canzoni, non dicevo nulla alla mia famiglia e la mia pagella stava affondando.
Come i vostri uomini rinascimentali che avevano sognato il mondo classico, anch'io sognavo del passato. Qualche volta io volevo morire perché pensavo che, dopo la morte, si può tornare nel passato. Cercavo un'altra strada perché stavo cominciando ad amare qualcuno: era una ragazza più grande di me e bellissima.

Chi è lei, chi è lei,
che è arrivata nell'anima mia?
Perché mi ha acceso un lume di candela?
Mi sembra di avere già visto il suo viso,
un viso che forse già stavo pitturando da solo.

Ma era un amore a senso unico. Mi rimanevano le mie lettere senza risposta. Non potevo mangiare, non potevo dormire. Aveva il viso lentigginoso ed era alta e aveva i capelli lisci e gli occhi scuri: cose indimenticabili. Un giorno persi il mio orologio e mio fratello me ne regalò un altro: un orologio elettronico. Non c'era più l'ordine dei numeri; non c'era più la lancetta che mi comandava. Anno 1978, un anno difficile perché stavo preparando l'esame di stato per entrare al corso superiore. Ogni giorno facevo l'esame di prova e ad ogni lezione ricevevo delle botte (quaranta colpi alla volta), ma io mi ero ormai abituato e non sentivo più male. Ero quasi muto. Solo la lezione di musica era di nuovo una pausa. In quest'anno imparai a suonare il pianoforte per accompagnare i canti in chiesa. C'era una novità: adesso mia madre faceva la sarta. Quando tornava, mi dava delle occhiate preoccupate. Non potevo chiedere soldi neanche per comprare i libri.
Anno 1978, un'età senza parole. Avevo quattordici anni, mi interessavo alle ragazze. All'esame di stato delle superiori c'erano duecento domande e le mie risposte esatte furono centosessantadue. Mi ritornò la voglia di studiare. Studiavo su libri che mi davano in prestito.
Anno 1979, sono entrato alla scuola superiore che dura tre anni: il primo è di prova, il secondo di letteratura e il terzo di scienze. Fortunatamente la musica faceva parte del corso di letteratura. Le scuole coreane insegnano quasi esclusivamente la musica occidentale e pochissimo quella nostra. La nostra musica è eseguita durante le feste solo da donne specializzate: è la musica delle persone umili. Se uno la vuol fare, diventa umile da sé. Durante le guerre gli stranieri portavano via le nostre risorse naturali e lasciavano la loro cultura. Queste culture sono diventate la pietra di fondazione per lo sviluppo della Corea.

"Sono nato con una bella voce", io mi sono sempre detto, e anche gli altri così parlavano di me. All'inizio dell'università un amico mi presentò una ragazza che stava studiando musica lirica. Con lei, già al primo incontro, mi misi a cantare. Mi regalò un disco di un cantante lirico coreano. Era un disco pessimo (ma l'avrei capito molto dopo) perché quel cantante aveva un modo di cantare sbagliato (ma lui insegna ancora all'università in Corea). In particolare mi piaceva molto Core n'grato. Volevo cantarlo anch'io e mi sforzavo di farne l'imitazione.
Cominciai a girare tutte le librerie per cercare gli spartiti delle canzoni napoletane e delle arie d'opera. Comprai per caso anche un disco di Luciano Pavarotti, ma non sapevo chi era. Cantava splendidamente, e lo riascoltai mille volte. Comprai anche un libro di arie antiche italiane. Iniziai con Amarilli mia bella, ma avevo un problema grave: il mio insegnante mi insegnava malissimo. Volevo cantare con voce più acuta, ma non ci riuscivo. La mia gola restava chiusa.
Nel gennaio del 1981 nevicava tanto, parlai col marito dell'insegnante di pianoforte che studiava canto come me e che mi presentò il suo maestro. Quel maestro subito mi disse che, piuttosto che cantare, era meglio imparare ad usare la pistola: "Se sai sparare, avrai successo". C'erano infatti nell'aria le conseguenze del colpo di stato e c'erano in giro molte dimostrazioni popolari. In quegli anni tanti giovani entravano all'accademia militare invece che all'università. Questo mio nuovo maestro aveva studiato in Giappone alla scuola musicale di Tokyo sotto la guida di insegnanti italiani. Mi raccontava del Bel Canto e mi diceva che Placido Domingo e Luciano Pavarotti erano i bambini di Beniamino Gigli e Tito Schipa. E ascoltavo i suoi racconti su Mario Lanza e Giuseppe Di Stefano.
Parlando del Bel Canto sembrava un vulcano. Era onesto e giusto, insegnava gratis a oltre sessanta allievi dell'università. Mentre ero sempre più infatuato della musica, da lui imparavo anche l'educazione morale e il buon comportamento. Mi immergevo profondamente nella musica e la passione del mio insegnante mi fece prendere la borsa di studio dell'università.
Intanto avevo anche altri insegnanti. Erano i dischi. Ascoltavo ogni giorno Core n'grato di Di Stefano e I te vurria vasà di Corelli, Io conosco un giardino di Pavarotti e Granada di Domingo. Quando cantavo Vaghissima sembianza, non riuscivo ad arrivare sul la naturale e allora trasportavo un semitono sotto. Stavo così imparando le regole dell'Armonia. Quando cantavo O del mio amato ben, cantavo con ignoranza del suo significato e allora comprai un libro di dizione per cercare di imparare l'italiano da solo. Andavo ai recital, sentivo gli applausi del pubblico e sognavo di riceverli anch'io.
Anno 1982, gennaio, il giorno era molto freddo e le mani e le gambe si congelavano, stavo cantando nell'aula dell'università dello Stato per l'esame d'ammissione:

O del mio amato ben
perduto incanto
lungi dagli occhi miei...

Nell'esame dovevo eseguire anche un lied tedesco, ma non mi piaceva. La mia voce stava crescendo, diventava più alta e più nobile e più rotonda. Con O del mio amato ben si decise il mio carattere musicale. Il merito era del mio insegnante: nella sua mente c'era solo musica italiana. Lui mi voleva colorire come Beniamino Gigli e Tito Schipa. Avevo un senso di scoperta di un nuovo mondo. Ero felice, mi dicevo: "Fra un po' diventerò un cantante da palcoscenico." Ma ero solo presuntuoso, non è così facile arrivare al Monte Bianco. Ogni giorno provavo la cabaletta della Traviata. Cantavo nei corridoi con orgoglio. Volevo prendere lo slancio, ma era solo volontà.
Dopo tre mesi dall'entrata a scuola, dalla piccola aula dove studiavo si sentirono strani rumori. Ero io che dalla disperazione cercavo di distruggere le povere sedie e battevo i pugni sul pianoforte. La mia voce non c'era più. "Preso" e "perso" sono parole che si assomigliano troppo. Ho preso la voce con gli esercizi di ogni giorno e ho perso la voce con la presunzione di due mesi. Mi sembravo una pecora: la voce adesso vibrava moltissimo, non c'erano più gli acuti e non c'era più morbidezza. Ancora provavo O del mio amato ben, però non ritornava più la sensazione amabile. Ero disperato. Quando cantavo sul palcoscenico mi sembravo Tarzan, urlavo nell'acuto e la voce vibrava. Cominciavo ad aver paura di cantare.
Anno 1983: mia madre, che intanto era diventata proprietaria di due ristoranti, falli. La nostra famiglia si ritrovò seduta sui debiti. Ci trasferimmo in una camera di sette metri quadrati, certamente troppo piccola per cinque persone e un po' d'arredamento. Era peggio che a Mok-Po. Dio voleva che ricominciassimo da capo: per pagare un avvocato abbiamo dovuto vendere il mio pianoforte e la mia macchina fotografica. Mio padre e mia madre litigavano. Un giorno venne un creditore e ci portò via tutta la roba. Mentre lui raccoglieva le nostre cose, io cantavo. Ho sempre cantato in ogni momento difficile. Ci lasciò solo i vestiti, le coperte, cinque cucchiai e cinque bastoncini. Abbiamo abitato sette anni in quella camera.
Agosto 1983, la mia voce da solista mi aveva lasciato e io entravo nel coro della Missione perché volevo trovare un conforto in Dio. Cantavamo dieci ore al giorno, dalle 10 alle 20. Verso le 22 tornavo a casa. Potevo dormire coricato solo se mio fratello era fuori. Se no, dormivo seduto. Anno 1984, l'esame del terzo anno. Cantavo Mattinata di Leoncavallo e un lied, Lienstren, di Brahms. La mia voce ritornava. Ogni mattina leggevo la Bibbia e piangevo.
1985, il concerto di laurea. Cantavo Parmi vedere lacrime, il pubblico mi applaudiva e mi diceva "bravo". Quell'aria mi ha salvato: ero caduto con La Traviata e rinascevo con Il Rigoletto. Ero contento.
Ma solo nell'anno 1992 i miei genitori, che avevano quasi finito di pagare i loro debiti, potevano cominciare a pensare di comprare un appartamento e mandarmi in Italia a studiare. F così nel novembre del 1993 salivo per le ripide scale sporcate dai piccioni del Conservatorio di Mantova. Lassù abitavano degli estranei con gli occhi grandi e il naso alto e la parlata come un fucile mitragliatore. Dovevo adattarmi al loro modo di vedere il mondo, dovevo provare ad immaginare il loro pensiero: mi sono spaccato e mi sono piallato per farlo. Le mie a, e, i, o, u erano diverse dalle loro: provavo a pronunciarle con la massima concentrazione, ma ad ogni lezione di canto o di letteratura o di arte scenica io ho sentito il muro della lingua e il muro del sangue.
Ma perché ho scelto l'Italia, visto che sono un coreano? E' una domanda molto difficile. Non posso rispondere perché non sono ancora abbastanza vecchio: non si può afferrare il tema finché non si è letto tutto il libro. Il mio desiderio era di diventare un cantante bravissimo e qui hanno la tecnica per costruire con la voce grandi edifici di marmo. Ma adesso scopro di voler, soprattutto, comprendere l'Italia. Sono partito amando le canzoni napoletane e studio l'opera lirica e mangio spaghetti preparati da mia moglie. Mi sento italiano al trenta per cento, ma il sangue è più scuro dell'acqua.
Nell'infanzia a Mok-po volevo pescare in un fiume sporco. Qui sta correndo il Po che ha una lunga storia ed esce nel mare Adriatico. Ma anche qui non posso pescare perché non ho la licenza. E qui non serve il mio orologio: sono le campane della chiesa a dirmi l'ora. Qui ci vollero cinquecento anni per costruire il duomo di Milano: in questo nuovo mondo occorre molta pazienza.

Dove il vento si riposa
ci son tutte le parole
di chi non ha dimenticato
tutto quello che c'è stato.

Qui non c'è limite al tempo. Qui è ancora vivo Platone che sognava l'Idea e Aristofane che scriveva le commedie e Sofocle col suo Edipo. E ci sono ancora gli uomini rinascimentali, gli illuministi e i romantici. Tra loro c'è anche Enrico Caruso. Qui musica e vita non sono la seconda o la terza persona, ma la prima.