VITTIME SENZA DIVISA E SENZA VOLTO
Le Mine e la Guerra
MILLE MODI E MILLE ARMI PER FARE LA GUERRA
Le mine antipersona, con tutta la loro capacità indiscriminatamente distruttiva e soprattutto con il loro identificare nella popolazione civile il “nemico” da colpire e da storpiare, non nascono dal nulla, ma sono l’ultimo anello di una terribile catena, quella della storia delle armi degli strumenti di distruzione. E’ possibile seguire la storia dell’ Umanità attraverso l’analisi storica dei mille modi di fare la guerra che l’hanno finora accompagnata nel suo percorso nei secoli, e attraverso la serie di armi che essa ha inventato ed utilizzato. Leggendo i giornali e seguendo le trasmissioni televisive, avrete avuto modo di notare una cosa strana: al giorno d’oggi le vittime delle varie guerre che ancora infestano il nostro pianeta sono sempre di più “i civili”, ossia uomini, donne, bambini che non indossano una divisa. E’ stato calcolato che oltre il 90% delle vittime delle guerre “locali” dopo la Seconda Guerra mondiale è costituito da civili. Come mai ? Si tratta di un incidente, oppure di un cambiamento nell’idea stessa e nelle tattiche di guerra?
LA GUERRA TRADIZIONALE: DIVISE E REGOLE
Per rispondere, proviamo ad analizzare il concetto “tradizionale” di guerra, quello che di solito abbiamo in mente perché ci viene proposto dai film e dai romanzi classici. Abbiamo di fronte due eserciti schierati, distinguibili dalle differenti divise; per ogni soldato, il “nemico” è riconoscibile proprio perché indossa una divisa di un altro colore; altrettanto riconoscibile è il “civile” perché è privo di divisa. Le divise sono dunque l’elemento che distingue il nemico e, allo stesso tempo, sono il segno della sua appartenenza ad una delle parti in conflitto. La guerra tradizionalmente intesa è comunque una realtà assurda e spietata, se si pensa che questi soldati non sono altro che ragazzi, per lo più ventenni, cui proprio la divisa toglie l’umanità e l’identità personale per poterli mandare al macello. Ma in questo tipo di guerra, per quanto inumana sia, ci sono dei “codici” da rispettare: non si devono colpire obbiettivi civili (e se lo si fa, “ci si scusa” con una nota diplomatica), e nella battaglia occorre seguire delle regole (ad esempio, nel trattamento del prigioniero o del ferito).Inoltre lo scopo della battaglia tradizionale è conquistare il territorio nemico, e non di distruggerlo; il prigioniero nemico, una volta terminata la guerra con l’acquisizione dei territori, viene lasciato libero... . Sembra assurdo parlare in questi termini, ma c’è qualcosa di simile ad una “cavalleria” dei belligeranti. Il che non toglie che comunque una guerra costituisca sempre una avventura folle e senza ritorno.
LA GRANDE GUERRA:
TUTTA LA SOCIETÀ IN TRINCEA
Un primo cambiamento nell’idea di guerra si ebbe con la Prima Guerra mondiale, che i nostri bisnonni ricordano come la “Grande Guerra”, e che fu denominata da Papa Benedetto XV “l’inutile strage”, proprio per mancare la sua assurdità totale, anche se comparata con le guerre che l’avevano preceduta. Questo conflitto, fatto di lunghissime attese in trincea, spesso senza nemmeno mai vedere il nemico, era incomprensibile per gli uomini e le donne che lo vivevano. Anche qui vi furono “incidenti” che coinvolsero i civili (ad esempio, il noto affondamento del battello Lusitania), ma la cosa che più rimase impressa nella coscienza degli uomini e delle donne, fu come la guerra diventasse un fatto che invadeva e sconvolgeva tutta la vita quotidiana. Praticamente, era tutta la società ad essere in guerra, fin nelle minime manifestazioni della vita d’ogni giorno. La guerra era diventata un fatto totale, che coinvolgeva i civili anche se non li vestiva in divise non li metteva al centro dei mirini e delle mitragliatrici. Inoltre, per la prima volta nella storia l’evento bellico e la tecnologia si “sposavano” perfettamente. In un noto dramma di Karl Kraus, scritto durante il conflitto e intitolato “Gli ultimi giorni dell’ umanità” (da recitare in un teatro di Marte, secondo le indicazioni dell’ autore), si fa notare come siano le macchine, ad un certo punto, a fare la guerra al posto dell’uomo, e come la tecnica abbia sostituito la ragione umana nel progettare e condurre a termine gli scontri e le battaglie. E’ come se l’uomo fosse assoggettato alla macchina, che combatte una sua guerra particolare.
DALLA TRINCEA AL GENOCIDIO DEL “NEMICO”
Una ulteriore nel cambiamento del concetto di guerra si ebbe con la Seconda Guerra mondiale e la e la cosiddetta Shoah, cioè la distruzione degli ebrei europei attraverso la costruzione dei campi di sterminio. Abbiamo qui due cambiamenti decisivi, che occorre analizzare dettagliatamente.
-a- Il nemico diventa il Nemico, l’assoluto Altro che deve essere cancellato dalla faccia della terra, per sempre. Dapprima esso deve essere disumanizzato, cioè presentato - attraverso una lunga propaganda che coinvolge oratoria, stampa, scuole - come “bestia immonda”, come “insetto”, come “non uomo”. La disumanazione dell’ Altro è dunque la tappa preliminare alla guerra vera e propria, e può avvenire anche in una società all’ apparenza pacifica. I suoi esecutori non sono solo segretari o capi di stato, ma possono essere anche maestri, sacerdoti, insegnanti, giornalisti...
Dunque non ha più senso una distinzione tra vittime militari e vittime civili, dal momento che il mio scopo non è più quello di conquistare un territorio, ma di liberare l’umanità da una razza, da un gruppo umano nel suo complesso.
Vecchi, donne, bambini, rientrano per questo nel piano di distruzione, e non ci sono più regole che contino, perché l’unica cosa che conta è l’annientamento fisico del Nemico: il genocidio.
-b- Allora la vera guerra non sarà più combattuta in trincea, ma quotidianamente nelle città e all’interno dei confini della nazione, e i combattenti saranno tutti i cittadini: ognuno potrà per esempio denunciare un ebreo, al limite anche ucciderlo destinarlo verso un campo di sterminio. Si della società della mobilitazione totale, in cui tutti sono chiamati a rivestire il ruolo delle vittime oppure quello dei carnefici, e nessuno può sottrarsi all’incasellamento, anche se esistono corpi (militari o polizieschi)specializzati nella distribuzione. Questo tipo di guerra, in qui non conta strappare al nemico una porzione di territorio, ma distruggerlo, e quindi causargli il maggior numero possibile di perdite “civili” (ma la distinzione non ha più senso), trova il massimo della sua realizzazione tecnologica nella bomba atomica ( Hiroshima, 6 agosto, e Nagasaki, 9 agosto 1945), e nelle successive generazioni di armamenti nucleari, che giungono addirittura a prevedere lo sterminio della popolazione lasciando quasi intatti palazzi, le strade, le industrie.
IL LAVORO A CATENA DELLA GUERRA MODERNA
Incredibilmente si arriva ad una forma di guerra “senza odio” in cui gli addetti allo sterminio ed alla distruzione sono dei semplici impiegati o tecnici, che lavorano su una piccola parte del processo di eliminazione totale del Nemico. anche in questo caso, come nel I° conflitto, il rapporto con l’industria è importante, perché questo tipo di guerra coinvolge sempre più gli interessi delle aziende e imprese, che creano posti di lavoro per la popolazione proprio basandosi sulla produzione di strumenti sempre più sofisticati per l’annientamento del cosiddetto Nemico, Ma cosa succede? Un operaio che lavori in una fabbrica che produce componenti per un maxi cannone, ad esempio, non fa direttamente del male a nessuno e dunque dal punto di vista morale , si sente “innocente”. Ma se il suo lavoro viene messo in connessione con quello degli altri che assemblano i pezzi, che spediscono il cannone sul “fronte” (quando c’è), che calcolano le coordinate per lo sparo eccetera, abbiamo realizzato un processo di distruzione che proprio nel lavoro a catena ha il suo carattere di novità. Alla fine, tutti sono colpevoli, ma nessuno è giudicabile direttamente come esecutore materiale delle stragi o degli genocidi! A questo punto è facile capire che la guerra ai civili non è più un incidente, ma l’essenza stessa della nuova avventura bellica. Progettare una mina che storpi un bambino afgano rientra in questa logica perversa. Il bambino è nemico solo perché è afgano; anzi, il suo essere afgano lo rende non-uomo, e dunque facile da eliminare senza eccessivi rimorsi.
PER RIBELLARCI A QUESTO TIPO DI GUERRA
Che cosa possiamo fare?
Un insegnamento ci viene dalla
storia della Resistenza italiana ed europea al nazismo e al fascismo,
soprattutto in quel periodo drammatico segnato per gli italiani dall’ 8
settembre 1943, la firma dell’ armistizio: il momento della scelta; nel quale i
ragazzi e ragazze, adulti e anziani dovettero decidere “da che parte stare”.
Alcuni andarono in montagna a combattere da partigiani contro i
fascisti. Altri, che pure avevano
scelto la libertà, rimasero nelle città e nelle campagne a compiere quei piccoli gesti quotidiani senza i quali il fascismo non sarebbe mai
stato sconfitto: passare le informazioni, portare avanti le scuole alternative
per i più giovani, inventare nuove forme di solidarietà; in una parola,
recuperare in mezzo alla barbarie il
senso di un gesto umano. Per oggi
è più difficile affrontare il compito di resistere a questa nuova, disumana
idea di guerra; anche perché i signori
della guerra sono meno facili da distinguere e da identificare: si nascondono dietro le facce da
tecnici e ad scienziati, e non sempre per l’uomo comune è possibile capire
qualcosa nelle complicazioni diaboliche delle politiche mondiali. Per noi è possibile partire dal rifiuto di ogni tentativo che miri a
rappresentarci un altro gruppo umano come Nemico, a disumanizzare qualcuno per
poterne poi fare una vittima, a insegnare ai giovani l’odio per una persona
solo per il suo diverso colore di pelle, o la sua fede religiosa e politica, o
ancora la sua provenienza geografica.
Se la guerra ha bisogno di
disumanizzare le sue vittime per poterle meglio sterminare, allora chi è contro
la guerra deve schierarsi, a scuola come nella vita di ogni giorno, dalla parte
degli uomini , delle donne e dei bambini, ricordando sempre che tutto si può
togliere ad un uomo, ma non la sua
dignità di appartenere all’ unica razza conosciuta: la razza umana.