SULLE CAUSE DELL'IMPOVERIMENTO DELLE NAZIONI E DEGLI UOMINI

di MICHEL BEAUD, Docente di economia all'università Parigi VII-Denis Diderot.

(Trad. di Lilli Horvat), novembre 1988

 

Nessuno può ignorare la realtà della povertà oggi.

Povertà nei paesi ricchi: negli Stati Uniti innanzitutto (1) e da noi, in questa dolce terra di Francia (2).

Povertà, ovviamente, anche nei paesi poveri e nelle regioni della miseria e della carestia (3). Lo ha sottolineato il rapporto della Commissione Brundtland: "Vi sono oggi nel mondo più esseri umani che soffrono la fame di quanti ve ne siano mai stati nella storia dell'umanità, e il loro numero è in aumento" (4). Si valuta ad esempio che nel 1980, l'alimentazione di 340 milioni di donne - il 14% in più rispetto al 1970 - era carente dal punto di vista calorico; e secondo le previsioni della Banca Mondiale, questa cifra continuerà a crescere (5).

"Il numero delle persone che vivono in tuguri o nelle bidonvilles non si sta riducendo, ma al contrario è in aumento". Stessa tendenza si riscontra nell'accesso all'acqua potabile e nella disponibilità di impianti sanitari, con conseguente esposizione alle malattie derivanti da queste carenze (6).

I dati numerici si potrebbero moltiplicare; ma ce n'è uno che li riassume - anche se, come sempre, occorre inserirlo nel relativo contesto, e interpretarlo con intelligenza, interrogandosi sulle realtà che riflette: il prodotto per abitante. È quasi superfluo citare i dieci paesi dove nel 1985 questo dato era ai livelli più bassi: Etiopia, Bangladesh, Burkina Faso, Mali, Butan, Mozambico, Nepal, Malawi, Zaire, Birmania. O ricordare che in questi paesi la stima del prodotto medio per abitante è pari a un centesimo di quello rilevato nelle nazioni ricche e industrializzate o nei paesi petroliferi (7). Un divario medio del genere significa che nel mondo contemporaneo, una sola ricchissima famiglia dispone di redditi equivalenti alle risorse di decine di migliaia, se non addirittura di oltre centomila famiglie povere nei paesi poveri.

Un divario che nel corso degli ultimi decenni è aumentato, da un lato con l'accentuazione delle disuguaglianze all'interno dei singoli paesi, in un'epoca in cui trionfa l'ideologia del ciascuno per sé, e dall'altro a causa del rallentamento della crescita nei paesi più poveri, dove tra il 1965 e il 1985 il tasso medio di aumento del prodotto pro capite è stato dello 0,4% l'anno, contro il 2,4-3% negli altri gruppi di paesi (8). Dunque la povertà, l'indigenza progrediscono, le disuguaglianze si aggravano; e questo avviene in un periodo di eccezionale crescita della produzione e dei consumi, visti in una prospettiva globale.

Esaminiamo ancora alcune cifre, per renderci conto degli ordini di grandezza che esprimono - pur nella consapevolezza delle difficoltà e dei limiti di ogni valutazione o confronto su lunghi periodi e tra strutture sociali e nazionali profondamente diverse: nel 1900 il prodotto mondiale era valutato (in dollari del 1975) a 580 miliardi di dollari (per 1,6 miliardi di abitanti del pianeta, pari a 360 dollari per ogni terrestre); nel 1975, il prodotto mondiale ha raggiunto quasi 6.000 miliardi di dollari (su quasi 4 miliardi di abitanti) pari a circa 1.500 dollari per ciascun terrestre (9). In dollari del 1985, in quello stesso anno il prodotto mondiale ha raggiunto quasi 15.000 miliardi di dollari (su quasi 5 miliardi di abitanti, pari a 3.000 dollari a testa) (10).

Dunque, mai si era prodotta tanta ricchezza. Più ricchi che mai.

E mai si era registrata e vissuta tanta povertà. Più poveri che mai.

Come spiegare, in questo mondo di eccezionale opulenza, un tale grado di miseria? In questo articolo si cercherà di proporre alcune linee di riflessione per rispondere a questa domanda, non come esito conclusivo di un'analisi, ma come invito rivolto agli economisti e agli studiosi di scienze sociali a far proprio questo "programma di ricerca" per esplorarne le ipotesi. Allo scandaloso paradosso della coesistenza di incommensurabili patrimoni e di miseria estrema se ne aggiunge infatti un secondo: il contrasto tra l'energia intellettuale dedicata a studi puramente speculativi e in larga misura sterili (pensiamo in particolare all'invadente scolastica econometrica contemporanea) e l'assenza pressoché totale di ricerche su problemi essenziali come questi. Saranno poste a confronto varie piste, non tanto allo scopo di individuarne una valida (dopo aver scartato le altre) ma per porre in evidenza la pluralità delle spiegazioni, la cui conoscenza è necessaria per comprendere la povertà oggi, e a maggior ragione per combatterla.

Partiamo dal luogo comune "ci sono sempre stati e ci saranno sempre i ricchi e i poveri; quindi, è normale che ci siano oggi"; un adagio che serve a giustificare innumerevoli egoismi e iniquità. Ma basta il rifiuto per confutarlo? Sicuramente no, poiché in questo modo si eluderebbe il problema della disuguaglianza, del carattere non egualitario delle società umane.

In quale misura la disuguaglianza è inerente alle nostre società? È vero che essa costituisce un fattore di dinamismo? Che cosa si deve perseguire: l'uguaglianza assoluta, o una disuguaglianza attenuata, o ancora un'ipotetica condizione di "pari opportunità" in seno a società più o meno disuguali? Sono domande che non devono essere eluse.

Una cosa si può dire fin d'ora: la disuguaglianza non è in nessun caso una garanzia di efficacia. Situazioni di disuguaglianza estrema caratterizzano spesso società scarsamente dinamiche, mentre i paesi che hanno ridotto al loro interno le sperequazioni sociali nel corso degli ultimi decenni (in particolare i paesi socialdemocratici dell'Europa del nord) non hanno perso nulla del loro dinamismo economico.

Fenomeno multiforme

D'altra parte, se si ammette che nelle società umane la disuguaglianza continuerà ad esistere per altre generazioni, si pone la questione del grado di sperequazione, o in altri termini, del grado di solidarietà: la risposta dipende da una scelta etica, oltre che dalla storia della società considerata. Ma oggi tutto è reso più complesso dal fatto che non è più possibile attenersi a un solo livello di solidarietà: quello della parrocchia, del villaggio o dello stato nazionale... Tutti i livelli - comune e quartiere, piccola regione, agglomerato urbano, stato-nazione, grande regione plurinazionale e mondo - sono interdipendenti, e di ciascuno si deve tener conto, in un modo o nell'altro...

Infine, constatare che la povertà è esistita in quasi tutte le società umane non aiuta affatto a comprendere la povertà contemporanea, che è multiforme, e nella sua diversità si moltiplica incessantemente, si riproduce, dilaga. Occorre dunque comprendere i processi attraverso i quali avviene questa riproduzione.

Una tesi si contrappone a quella del carattere generale - e dunque in qualche modo fatale - della disuguaglianza nelle società umane; essa imputa la responsabilità della povertà al sistema sociale predominante: il capitalismo sarebbe non soltanto anti-egualitario ma produttore di disuguaglianza. Distruggendo le attività produttive e le forme sociali tradizionali e puntando alla massima efficienza, il capitalismo sottrae ai piccoli produttori i loro mezzi di sussistenza e priva i salariati del posto di lavoro; e la ricerca del profitto induce una pressione permanente sui salari. Da qui il doppio vortice evocato da Karl Marx, con l'accumulazione estrema di ricchezza a uno dei poli e la proletarizzazione senza limiti all'altro.

Questa visione era in larga misura conforme ai fatti osservabili nei paesi nei quali si è sviluppata l'industrializzazione capitalistica del XIX secolo: miseria del proletariato urbano e feroce sfruttamento degli operai nelle fabbriche. Tuttavia, in questi stessi paesi la predizione che il processo così avviato sarebbe proseguito all'infinito è stata ampiamente smentita: certo, come abbiamo visto, la povertà è ben lontana dall'essere completamente scomparsa; ma esiste tuttora una proporzione non trascurabile di produttori e di lavoratori autonomi; inoltre, sia negli apparati statali che nelle imprese, si sono sviluppate fasce intermedie di lavoratori dipendenti; e grazie a compromessi "fordisti" o "socialdemocratici", la classe operaia ha avuto in buona parte accesso a un livello e a un genere di vita tali da non permettere più di dire che "non ha nulla da perdere tranne le sue catene".

Se così stanno le cose, si può affermare, come hanno fatto molti autori degli anni '70, che se la visione marxiana non corrisponde più alla realtà dei paesi capitalisti industrializzati, resta però del tutto valida quando si guarda al contesto mondiale? Vi si osserva certo, e a livelli inauditi, la bipolarità della concentrazione di capitale da un lato e di povertà dall'altro. Ma se non si vuole cadere nello schematismo o nel semplicismo, è impossibile spiegare tutto attraverso il funzionamento del capitalismo a livello mondiale. Come interpretare allora le profonde differenze tra i vari paesi? Come spiegare l'estrema miseria di alcuni di essi, sui quali l'impatto del capitalismo mondiale sembra irrilevante? E la povertà, e talora l'estrema indigenza, di paesi che secondo i loro dirigenti si sono affrancati dal capitalismo, e sono più o meno impegnati sulla via del socialismo? Evidentemente, la riflessione deve essere approfondita e affinata.

Ci sembra che la linea di analisi più feconda sia l'esame delle principali logiche economiche e sociali strutturanti - mercantile, capitalistica, statalista - che agiscono sulle nostre società. La logica mercantile è fondata sulla produzione e sul commercio di merci nonché sugli scambi monetari; il suo motore è la ricerca dell'arricchimento individuale e familiare; perciò conduce alla formazione di disuguaglianze e comporta, se così possiamo dire, la sua povertà, anche se un clima generale di benessere o di prosperità è più favorevole alla sua espansione. Più complessa è la logica capitalistica, fondata sulla produzione di merci portatrici di plusvalore, la quale genera, al di là del profitto, accumulazione e riproduzione allargata; il suo principale motore, nell'ambito di ogni singola impresa, è la ricerca del profitto. Il funzionamento di questo motore, come per i missili altamente sofisticati, è sostenuto e a volte iperattivato da motori secondari, che sono la ricerca della ricchezza, del potere e del prestigio da parte degli alti dirigenti, ma anche dei quadri superiori e medi.

Una fantastica macchina per la creazione di ricchezza

Il sistema capitalistico è una fantastica macchina per la creazione di ricchezza, come testimoniano non solo gli ultimi cinquant'anni, ma i cinque ultimi secoli (11). È però anche una terribile macchina per la creazione di povertà, poiché sconquassa e distrugge i sistemi produttivi più deboli, crea nuovi bisogni esacerbando quelli antichi, trasforma in bisogno di comprare merci esigenze che in precedenza venivano soddisfatte grazie ai "doni della natura", al lavoro domestico, alle solidarietà familiari, comunitarie o di vicinato. Modella in funzione dei suoi obiettivi l'organizzazione della produzione, dando luogo a fenomeni diversificati e talora contraddittori: alti e bassi salari, stabilità e precarietà del posto di lavoro, strategie di integrazione e di esclusione, lavoro nero... Rivoluziona le tecniche, modifica i prodotti, trasforma le mode e i gusti, creando qua e là nuove attività e nuove prosperità e dando luogo, attraverso lo stesso processo dinamico, all'atonia o all'agonia di imprese, di settori, di regioni o anche di interi paesi, con la ben nota sequela di fabbriche chiuse, di licenziamenti e di disoccupazione. Qui sta indubbiamente uno dei nodi del problema: il capitalismo genera al tempo stesso prosperità e povertà.

Si può desumerne che il capitalismo abbia intrinsecamente bisogno della povertà? In un certo senso no: ne testimonia la logica fordiana degli alti salari, i quali, attraverso i consumi che inducono, contribuiscono alla vitalità di ampi settori produttivi; e lo dimostra inoltre il fatto che nel Nord dell'Europa, sulla base di sistemi economici capitalistici, le forze socialdemocratiche sono riuscite a far regredire la povertà attraverso la gestione sociale dei frutti della crescita. Ma in un altro senso, è vero che ampie sacche di povertà possono contribuire a mantenere zone di bassi salari anche nei paesi più ricchi, con alla testa gli Stati Uniti. Nella sua diversità e plasticità, il capitalismo può trarre vantaggio sia dalle povertà esistenti che dai programmi predisposti e dalle strategie attuate per combatterle; nel suo dinamismo, fa innegabilmente regredire molte aree di povertà, ma ne fa nascere di nuove...

Più difficile da cogliere è l'impatto della logica statalista, che dipende in parte dall'obiettivo collettivo sul quale si cimenta, e in parte anche dalla storia delle società nelle quali si innesta. Le società contemporanee in cui predomina lo statalismo si sono fondate sul progetto di costruire, sotto la bandiera del socialismo, la nuova società chiamata dalla storia a succedere al capitalismo. Di fatto, esse si sono rapidamente concentrate sull'obiettivo di raggiungere le economie capitaliste (12); ritroviamo dunque, sia da parte dei dirigenti che della popolazione, riferimenti costanti alle modalità e agli standard di vita dei paesi capitalisti; e non mancano, quasi a tutti i livelli, i "motori secondari" delle diverse spinte propulsive dell'arricchimento individuale, del prestigio e del potere. E quando la dinamica centrale incomincia a perdere colpi, questi motori secondari tendono a funzionare per conto proprio. Esistono quindi, in queste società, forze capaci di determinare profonde disuguaglianze, mentre d'altra parte i riferimenti al socialismo tendono ad impedire che ne risultino situazioni di povertà insopportabile.

Logica capitalista, logica statalista

Nei paesi statalisti, la povertà dipende, in definitiva, da quattro diversi fattori: la scarsa efficienza economica; le tradizioni storiche di disuguaglianza; i processi sperequativi legati al sistema vigente, e infine il riferimento permanente ai paesi capitalisti, che pone in rilievo i ritardi e le carenze.

Nella realtà, queste logiche non agiscono mai allo stato puro, ma si articolano e si combinano in configurazioni sociali concrete, che oggi assumono principalmente la forma di entità sociali nazionali costituite in stati - nazione, all'interno dei rispettivi confini, ciascuno con la sua storia, la sua zavorra, il suo retaggio: e segnatamente, le sue tradizioni di sperequazione o solidarietà, di spregio o di rispetto, di ghettizzazione o di assistenza ai meno abbienti. Si troveranno quindi specificità nazionali nella concezione stessa della povertà, della persona del povero, e nell'atteggiamento da adottare nei suoi riguardi.

Nell'Occidente del XIX e del XX secolo, il capitalismo è stato portatore di un'eccezionale dinamica di modernizzazione e di industrializzazione; in Urss e quindi in Cina, lo statalismo ha dovuto farsi carico, nel XX secolo, di questi due processi; ed è tuttora sul capitalismo o sullo statalismo, o su una combinazione tra i due sistemi, che i paesi del terzo mondo puntano per avanzare sulle stesse linee. Ora, la modernizzazione e l'industrializzazione implicano quasi necessariamente la distruzione delle strutture agricole e artigianali tradizionali, con le conseguenti, diverse forme di sradicamento, povertà e indigenza. Inoltre, da mezzo secolo le economie e le società nazionali sono sempre più legate tra loro grazie all'informazione, ai trasporti, ai circuiti mercantili e finanziari, e quindi coinvolte in un sistema internazionale - multinazionale - mondiale gerarchizzato (13), dove alcune impongono il loro dominio, i loro sistemi di prezzi, le loro decisioni di comprare (o meno), di vendere (o meno), di investire (o meno), di sfruttare (o meno) determinate risorse, mentre le altre, in misura diversa, subiscono, o talvolta resistono. E nella crisi in corso, in questa profonda e complessa mutazione su scala mondiale, innumerevoli sono i luoghi in cui si formano e si sviluppano sacche di povertà. Ma la povertà contemporanea ha anche altre cause che meritano attenzione.

La prima risiede nella nostra capacità quasi illimitata di creare bisogni. Fino a che punto ciò dipende dalla logica capitalistica di generalizzazione delle merci, e in quale misura è invece inerente alla mentalità umana (occidentale?), così come si è sviluppata attraverso secoli e generazioni? È molto difficile dirlo. Una cosa è certa: se i nostri bisogni fossero rimasti gli stessi di 50 o 100 anni fa, a parità di progresso tecnico ed economico navigheremmo oggi in piena opulenza. Ipotesi di scuola? Evidentemente, poiché innovazioni tecniche, lancio di nuove merci (incessantemente rinnovate), allargamento dei mercati, rafforzamento del potere d'acquisto e innalzamento del livello di vita, creazione ed esacerbazione dei bisogni (in particolare grazie alla pressione pubblicitaria), crescita della produzione, sono assolutamente indissociabili dal processo di industrializzazione - salarizzazione - urbanizzazione - modernizzazione - terziarizzazione di quest'ultimo secolo.

La moltiplicazione dei bisogni

È necessario però andare al di là di questa constatazione. La quale, se si guarda al futuro, implica che noi umani siamo capaci di suscitare sempre maggiori bisogni e dunque, - in barba a tutte le crescite produttive immaginabili, peraltro non illimitate - di creare più insoddisfazione e frustrazione soggettivamente vissuta come povertà. Mi si consentirà, a questo punto, di citare Seneca? "La migliore misura del denaro è quella che né precipita in povertà né si allontana molto dalla povertà" (14). Di che meditare per i fautori dell'inarrestabile "sempre di più".

Questo processo di creazione dei bisogni corrisponde evidentemente ad aspirazioni profonde che esistono in ciascuno di noi, e sono probabilmente dovute a inquietudini e angosce, all'incertezza dell'essere, alle carenze di cui risentiamo, e certo anche a una mancanza di riflessione e di risposte sul senso dell'esistenza; una mancanza - mi si perdonerà il termine? - di saggezza. È stato portato avanti in un primo tempo dalla logica mercantile, e successivamente dalla logica della generalizzazione delle merci propria del capitalismo. Ed è stato poi stimolato, esacerbato, drogato: basti pensare all'inaudito dilagare della pubblicità, divenuta onnipresente negli ultimi decenni. Dal canto loro, le società stataliste, incapaci di offrire valori più esaltanti, o semplicemente prospettive più attraenti, si sono lasciate trascinare in questa corsa al soddisfacimento di bisogni, indotti a partire dall'Occidente capitalistico. E le classi ricche e medie dei paesi poveri ne sono state anch'esse travolte.

Le disuguaglianze, e in particolare quelle di classe, giocano un ruolo decisivo nella diffusione dei bisogni, sia a livello di una società che su scala mondiale: in fondo, l'"effetto di dimostrazione" caro agli economisti implica che i bisogni soddisfatti dalle classi agiate siano risentiti, più o meno progressivamente, dalle altre fasce e classi sociali; e che dopo un periodo più o meno lungo di mancato soddisfacimento, di frustrazione, di (relativa) povertà, queste ultime finiscano per accedere a loro volta al soddisfacimento di quel bisogno. Ma già le fasce privilegiate se ne sono inventati altri. Evidentemente, dovremo pure un giorno o l'altro liberarci da questo insensato ingranaggio. Perché allora non incominciare a distaccarcene fin d'ora?

Ma esiste, se così si può dire, un aspetto ancora più grave. L'evoluzione stessa delle nostre economie e delle nostre società crea nuovi bisogni, alcuni dei quali si imporranno a lungo alle generazioni future. Innanzitutto, perché ogni produzione comporta la trasformazione (e dunque la distruzione) di risorse e l'eliminazione di scorie. La produzione di massa contemporanea è un massiccio processo di distruzione e di inquinamento. Distruzione di beni essenziali: l'acqua potabile, l'aria respirabile, i suoli coltivabili, l'ambiente di vita immediato, i laghi, i fiumi e gli oceani che costituiscono gli ambienti della vita animale e vegetale, lo strato d'ozono, e più in generale gli equilibri fondamentali che hanno finora consentito l'apparizione e lo sviluppo della vita sulla terra (15). D'altra parte, l'immissione di scorie e di materiali non riciclati nel suolo, nell'acqua, nell'aria, negli oceani, e ora persino l'esportazione di queste scorie in alcuni paesi poveri... Queste distruzioni e gli accumuli di scorie inaridiscono fonti naturali gratuite per il soddisfacimento di bisogni e rendono dunque necessaria, a questo scopo, una produzione organizzata, e quindi costosa: non solo l'acqua in bottiglie, ma oggi, nella sua quasi totalità, anche l'acqua del rubinetto; l'aria condizionata, e forse domani l'aria in bombole individuali; e dopodomani, in alcune zone del pianeta, si arriverà forse a ricreare artificialmente le nostre naturali condizioni di vita.

Inoltre, la straordinaria divisione del lavoro in atto da un secolo e mezzo moltiplica le interdipendenze; con l'avanzata della sfera mercantile rispetto a quella della gratuità, sono sempre più numerosi i bisogni che non possono più essere soddisfatti se non attraverso una spesa monetaria, individuale o collettiva. Infine, le strutture stesse delle nostre società generano bisogni, che divengono ineludibili: l'urbanizzazione massiccia comporta ad esempio la necessità di trasporti quotidiani, di evasione nei fine settimana, di vacanze in luoghi lontani ecc.; o ancora, i bisogni di trasporto, di spostamento, di comunicazione sono moltiplicati dal tipo di localizzazione e di organizzazione dei complessi produttivi e di lavoro.

La casa, l'automobile, i debiti...

Nei tempi passati, ai poveri mancava il pane e un tetto; oggi le società si sono dotate in generale dei mezzi e delle vie per assicurare loro l'indispensabile: famiglia allargata, fratellanza, solidarietà, carità o assistenza pubblica. Oggi un povero può esserlo in due modi: può mancare, come in passato, di pane e di un tetto; ma in tal caso spesso non dispone neppure di acqua potabile, e rischia, in misura sempre maggiore, di non beneficiare più delle condizioni elementari di una vita sana, e in talune regioni, di non avere più acceso a terreni produttivi... E può essere povero, con o senza un tetto, anche chi non dispone di un'automobile o di un motorino per recarsi al lavoro, o non ha i soldi per gli spostamenti, per pagare le bollette dell'acqua, del gas, della luce e del telefono (se lo ha), l'assicurazione, il rimborso di un prestito...

I nostri poveri non sono soltanto esclusi o emarginati; sono resi poveri dalle nostre società. E impoveriti una seconda volta dalle imposizioni e dagli effetti distruttivi di quello che noi chiamiamo il "progresso".

Perciò, l'idea prevalente, che per combattere la povertà sia necessario "ritrovare la via di una maggior prosperità", è in larga misura errata; per molti versi infatti è proprio nella prosperità e dalla prosperità che nasce la povertà contemporanea.

A fronte di una situazione tanto complessa, dalle cause tanto numerose e intrecciate tra loro, si può essere facilmente tentati di rifugiarsi nell'utopia. È vero che con le capacità produttive di cui disponiamo, riducendo drasticamente le spese superflue degli stati (in particolare quelle militari), delle imprese, dei detentori di grandi patrimoni privati, smettendo di distruggere ciò che il pianeta ci offre gratuitamente e limitando i nostri bisogni materiali, noi terrestri potremmo vivere in un benessere difficilmente concepibile anche solo due secoli fa. Occorrerebbe evidentemente realizzare importanti passi avanti in materia di riduzione delle disuguaglianze, di solidarietà (a livello locale, nazionale, mondiale), e dunque anche nel difficile campo - oggi raramente coltivato - del dominio di sé e della saggezza.

Una prospettiva che certo deve essere tenuta aperta; ma considerando gli insuccessi, le delusioni e i disastri in cui sono sfociati in questi ultimi settant'anni i tentativi di costruire una società radicalmente nuova, è di rigore una ragionevole prudenza.

L'arte del possibile

Se quindi si accettano le idee finora presentate, dando per scontato che il cammino verso una società profondamente diversa da quella che oggi conosciamo sarà lungo, incerto e seminato di insidie (16), bisogna pur ammettere che la lotta alla povertà richiede un'ampia gamma di azioni coordinate. Senza ordine di priorità, e senza alcuna pretesa di essere esaurienti, in un mondo in cui la diversificazione implica un'ampia varietà di interventi, vorremmo indicarne alcuni:

1) Smettere di distruggere le condizioni stesse della vita (problemi dello strato d'ozono, dell'effetto serra, delle scorie e dei rifiuti chimici, radioattivi ecc.).

2) Salvaguardare, laddove sussistono, e ripristinare dovunque è possibile le fonti essenziali di vita: l'acqua potabile, l'aria respirabile, i terreni arabili, l'equilibrio vitale dei fiumi, dei laghi e degli oceani; imparare a rallentare i processi di "modernizzazione" ogni qualvolta comportano più distruzione di risorse che reali vantaggi produttivi.

3) Far regredire le condizioni di estrema indigenza, innanzitutto nel terzo mondo, aiutando i paesi più poveri tra i poveri a reinventare sistemi alimentari e sanitari meno costosi, e quindi con minori conseguenze di dipendenza ed effetti distruttivi sull'ambiente (tre fattori in larga misura collegati tra loro); ma anche nei paesi capitalisti considerati come avanzati, rifiutando in particolare le micidiali ricette di un liberalismo dottrinario, mantenendo o adattando ove necessario, laddove esistono, i dispositivi in grado di limitare la povertà generata dal capitalismo, e inventando le nuove forme di solidarietà rese necessarie dagli attuali effetti della sua crisi e delle sue mutazioni.

4) In generale, ridurre i divari eccessivi, innanzitutto tra paesi ricchi e poveri, migliorando la salvaguardia, il rispetto e la valorizzazione delle produzione dei paesi poveri, e permettendo a quelli impegnati sulla via della modernizzazione di disporre di tecniche moderne che abbiano effetti distruttivi il più possibile limitati e riappropriabili da parte di chi li utilizza. Esercitare pressioni all'interno di ciascun paese per la riduzione delle disuguaglianze, cosa che nei paesi ricchi, e innanzitutto per le classi abbienti, benestanti e medie, comporta la necessità di rompere con la mentalità del "sempre più" per ricercare, in luogo di una continua crescita della proprietà e dei consumi, la via del "vivere meglio" (non solo sul piano materiale ma anche su quello personale, culturale e morale).

5) Rafforzare e reinventare meccanismi interconnessi di solidarietà, di aiuto e di apporti reciproci a tutti i livelli: locale, regionale, nazionale, dei grandi sistemi plurinazionali e mondiale.

6) In questo ambito, affermare dovunque nel mondo, nei paesi del Nord come in quelli del Sud, ad Ovest come ad Est, il carattere illegittimo ed eticamente inaccettabile dei patrimoni privati eccessivi, nonché di privilegi e vantaggi esorbitanti. Combattere, sulla stessa base, le spese di iperarmamento e tutte le spese superflue degli stati, delle imprese, dei detentori di patrimoni privati, sottoponendole a una tassazione stabilita su scala mondiale.

7) E infine, inventare le vie socialmente gestite di una nuova prosperità, che non deve essere confusa - i lettori di quest'articolo lo avranno compreso - con la ricerca del massimo tasso di crescita...

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(1) Si vedano, in particolare, gli articoli di Claude Julien e Pierre Dommergues, nel dossier "Sociétés écartelées, planète disloquée" pubblicato da Le Monde Diplomatique del maggio 1988.

(2) Si veda il rapporto di Joseph Wresinski per il Consiglio economico e sociale, "Grande pauvreté et précarité économique et sociale", Journaux Officiels, Parigi, e l'articolo di Denis Clerc su Le Monde Diplomatique del giugno 1988.

(3) Si vedano gli articoli di Claude Julien, Jacques Chonchol, Claude Liauzu nel già citato dossier di Le Monde Diplomatique del maggio 1988.

(4) Commissione mondiale per l'ambiente e lo sviluppo, Our Common Future, Oxford University Press, Oxford 1987, p. 29.

(5) Banca Mondiale, Poverty and Hunger: Issues and Options for Food Security in Developing Countries, Washington, 1986.

(6) Our Common Future, op. cit, p. 29.

(7) Banca Mondiale, "Rapporto sullo sviluppo nel mondo, 1987", Washington, 1987, pp. 232- 233.

(8) Ibidem.

(9) Edwin J. Perkins, The World Economy in the Twentieth Century, Schenkman, Cambridge, Mass, 1983, pp. 19- 21.

(10) Institut National d'Etudes Démographiques (Ined); Populations et Sociétés, settembre 1987, p. 2 e 5.

(11) Si veda Michel Beaud, Histoire di capitalisme, Seuil, Parigi, 1982. Nuova edizione Point, Parigi, 1987.

(12) Si veda Michel Beaud, Le socialisme à l'épreuve de l'histoire, Seuil, Parigi, 1983 e 1985.

(13) Si veda Michel Beaud, Le Système national mondial hiérarchisé, La Découverte, Parigi, 1987.

(14) Lucio Anneo Seneca, "La tranquillità dell'animo", Rizzoli, (Bur classici greci e latini), 1997, pag. 103.

(15) Ci riferiamo qui, tra l'altro, al rapporto citato, "Our common future", nonché ai lavori del gruppo di Vézelay, sui "Grandi rischi tecnologici". Si vedano altresì gli articoli di René Dumont e di Giorgio Ruffolo su Le Monde Diplomatique dell'ottobre 1988: "Une planète mise à sac".

(16) Cfr. Michel Beaud, le Socialisme à l'épreuve de l'histoire, op. cit.