Affrontare
l'impero (WSF Porto Alegre 2003)
di Noam Chomsky
Questo incontro si tiene in un momento storico per
molti versi unico, un momento foriero di presagi sinistri ma anche di grandi
speranze.
La più potente nazione della storia ha proclamato,
forte e chiaro, che intende governare il mondo con la forza, la dimensione in
cui regna incontrastata.
A parte l’inchino di circostanza ai nobili ideali
che rappresentano il companatico di rito (e quindi privi di qualsiasi
significato) della coercizione, i suoi leader sono intenti a perseguire la loro
“ambizione imperiale”, come si afferma in tutta franchezza nel principale
organo di stampa del loro establishment di politica estera, un avvenimento di
importanza cruciale. Hanno anche dichiarato che non tollereranno concorrenza
alcuna, né ora, né in futuro. Evidentemente pensano che le risorse della
violenza in loro possesso sono talmente straordinarie da poter liberarsi con
sprezzo di chiunque li ostacoli. Ci sono buone ragioni per credere che la
guerra contro l’Iraq intenda, in parte, impartire a tutto il mondo una lezione
su quanto potrebbe accadere qualora l’impero decidesse di colpire. Sebbene la
parola “guerra” possa a stento considerarsi un termine adeguato, viste le
proporzioni delle forze schierate.
Per gli Stati Uniti questa dottrina non rappresenta
né una novità assoluta, né un avvenimento unico nel suo genere. Tuttavia non
era mai stata proclamata con tanta spudorata arroganza, comunque non da
qualcuno degno di essere ricordato.
Non tenterò di rispondere alla questione posta da
questo meeting: “come affrontare l’impero”. Infatti molti di voi, grazie alla
vostra storia personale o al vostro lavoro, conoscono già la risposta come o
meglio di me. L’unico modo di “affrontare l’impero” sta nel creare un mondo diverso,
un mondo che non sia basato sul dominio, sull’odio e sulla paura. È per questo
motivo che siamo qui ed il Forum Sociale Mondiale fa ben sperare che non si
tratti di chimere.
Ieri mi è stato concesso il raro privilegio di
vedere alcune esemplari opere per raggiungere questi obiettivi al raduno
internazionale della Via Campesina ed alla comunità dell’MST, il Movimento dei
Senza Terra che, a mio avviso, rappresenta il movimento popolare più importante
ed interessante del mondo. Grazie ad attività costruttive su base locale come
quelle dell’MST, grazie alle organizzazioni internazionali del tipo
rappresentato dalla Via Campesina e dal Forum Sociale Mondiale e grazie,
infine, alla partecipazione, alla solidarietà ed al mutuo soccorso, esiste la
concreta speranza di un futuro vivibile.
Ho anche avuto altre esperienze recenti in grado di
fornire un’immagine nitida di cosa potrebbe essere il mondo se la violenza
imperiale non viene arginata o neutralizzata. Il mese scorso sono stato nella
Turchia sud orientale, il palcoscenico di alcune tra le peggiori atrocità dei
terribili anni 90 che ancora continuano: solo poche ore fa ci hanno informato
di nuove atrocità perpetrate dall’esercito nei pressi di Diyarbakir, la
capitale non ufficiale dei territori curdi. Per tutti gli anni 90 milioni di
persone sono state costrette a fuggire dalle zone rurali devastate. Le vittime
sono state decine di migliaia e sono state perpetrata le torture più barbare in
ogni loro forma concepibile. La gente cerca di sopravvivere in grotte fuori le
mura di Diyarbakir, in edifici demoliti nei quartieri ghetto di Istanbul o
dovunque possano trovare rifugio, impossibilitata a ritornare nei villaggi
d’origine nonostante nuove leggi, teoricamente, glielo consentano. L’80% delle
armi proviene dagli Stati Uniti. Solo nel 1997 Clinton ha inviato più armi alla
Turchia che in tutto il periodo della Guerra Fredda sommato all’inizio della
stagione del terrorismo di stato battezzata, dai suoi artefici e fautori,
campagna di “antiterrorismo”, un’altra espressione convenzionale. La Turchia
(dopo Israele ed Egitto che rientrano in una categoria a parte) divenne il
principale destinatario di armi USA quando le atrocità raggiunsero il loro
apice.
Nel 1999 la Turchia ha ceduto questo privilegio alla
Colombia. Il motivo di questo cambiamento sta nel fatto che in Turchia il
terrorismo di stato appoggiato dagli Stati Uniti aveva vinto largamente mentre
in Colombia non fu così. Negli anni 90 la Colombia si è contraddistinta per il
peggior dossier sui diritti umani dell’emisfero occidentale e per essere, di
gran lunga, il più importante destinatario di armi e addestramento militare
degli Stati Uniti. Adesso la Colombia è diventata il destinatario più
importante del mondo. Questo paese detiene anche altri record mondiali, ad
esempio: la Colombia è stato il palcoscenico di più della metà degli omicidi di
sindacalisti avvenuti nel mondo negli ultimi dieci anni. L’anno scorso quasi
mezzo milione di persone sono state costrette con la violenza a lasciare le
loro terre, un nuovo primato. Si calcola che la popolazione di sfollati si
aggiri sui 2,7 milioni di persone. Gli omicidi politici hanno raggiunto una
media di 5 al giorno, 5 anni fa erano la metà.
Ho visitato Cauca, nella Colombia meridionale, che
nel 2001 deteneva il record nazionale per le violazioni dei diritti umani,
un’impresa non indifferente. Qui ho ascoltato per ore le testimonianze di
contadini cacciati dalle loro terre dalla guerra chimica che qui chiamano
“fumigazione”, condotta con il pretesto della “guerra alla droga” patrocinata
dagli Stati Uniti, cui qui sono in pochi a credere, e che rappresenterebbe
comunque un’oscenità anche se l’intenzione fosse effettivamente questa. Le loro
vite e i loro campi sono stati annientati, i bambini stanno morendo o soffrono perché
malati o feriti. L’agricoltura dei contadini si basa su una ricca tradizione di
conoscenze ed esperienze plurisecolari, trasmesse, nella maggior parte del
mondo, di madre in figlia. Una grande conquista dell’umanità che tuttavia è
molto fragile e può essere distrutta per sempre nell’arco di una sola
generazione. A venire distrutte sono anche alcune delle più ricche biodiversità
a livello mondiale, come nelle regioni brasiliane confinanti. Campesinos,
popolazioni indigene e afrocolombiani possono andare a gonfiare la massa di
milioni e milioni che popolano già le bidonville fatiscenti e gli accampamenti
di profughi. Fuggita la gente, arrivano le multinazionali per depredare le
montagne alla ricerca di carbone, petrolio ed altre risorse naturali e per convertire
in monoculture destinate all’esportazione ciò che resta della terra, impiegando
sementi prodotte in laboratorio in una natura ormai spoglia dei suoi tesori e
della sua varietà,.
Gli scenari di Cauca e della Turchia sud orientale
differiscono molto dalle celebrazioni del raduno della Via Campesina presso la
comunità dell’MTS. Tuttavia Turchia e Colombia sono, sotto diversi aspetti,
modelli di ispirazione e speranza, per il coraggio e l’abnegazione della gente
che lotta per la giustizia e la libertà affrontando l’impero dove questo uccide
e annienta.
Questi sono alcuni esempi di come sarà il futuro se
l’”ambizione imperiale” procederà per il suo naturale cammino destinato, ora, a
subire un’accelerazione grazie alla strategia di grandezza che prevede un
dominio globale fondato sull’uso della forza. Niente di tutto ciò è inevitabile
e tra i modelli positivi per mettere fine a questi crimini vanno annoverati
quelli che ho già menzionato: l’MST, la Via Campesina ed il Forum Sociale
Mondiale.
La gamma di questioni e problemi discussi
approfonditamente al Forum Sociale Mondiale è vastissima. E questo è un bene.
Tuttavia penso che si possano identificare due tematiche principali. Una è la
giustizia globale e la Vita dopo il Capitalismo ovvero, per semplificare, la
vita, perché non è chiaro se la specie umana potrà sopravvivere molto a lungo
sotto le attuali istituzioni del capitalismo di stato. La seconda tematica è
legata alla prima: guerra e pace e, più precisamente, la guerra in Iraq che
Washington e Londra stanno disperatamente tentando di imporre, praticamente da
sole.
Cominciamo con alcune buone notizie riguardo questi
due argomenti. Come sapete, c’è anche una conferenza del Forum Economico
Mondiale che si sta tenendo proprio adesso a Davos. Qui a Porto Alegre
l’atmosfera è piena di aspettative, vigorosa, vibrante. A Davos invece, come
riferisce il New York Times, “l’atmosfera si è fatta tetra”. Perché per i
“movers and shakers”, i padroni del vapore planetari, non è più tempo di “feste
globali”. E in effetti il fondatore del Forum ha ammesso la sconfitta: “il
potere delle corporation è completamene svanito”, ha affermato. Quindi abbiamo
vinto noi. Non ci rimane altro che raccogliere i pezzi, non solo per discutere
di una visione del futuro giusto ed umano, ma per procedere a crearlo.
Attenzione però, non dobbiamo permettere che questi
elogi ci diano alla testa. Ci sono ancora alcune difficoltà da affrontare.
Il tema chiave del Forum Economico Mondiale è
“costruire la fiducia.” Per un motivo ben preciso. I “signori dell’universo”,
come essi amavano autodefinirsi in giorni più felici, sanno di essere in guai
seri. Recentemente è stato reso noto un sondaggio in cui si evidenza un netto
calo di fiducia nelle figure leader. Soltanto ai leader delle NGO è stata concessa
la fiducia di una chiara maggioranza, seguiti dai leader delle Nazioni Unite e
dai leader spirituali/religiosi, che precedono i leader dell’Europa occidentale
ed i manager dell’economia seguiti a loro volta, nell’ordine, dai consiglieri
di amministrazione e, con notevole distacco, dai leader degli Stati Uniti,
ultimi classificati con circa il 25% della fiducia. Una percentuale che indica
una fiducia pressoché inesistente: quando si domanda alla gente se nutre
fiducia nei leader potenti, di solito la risposta è “sì”, per forza di
abitudine.
Ma c’è di peggio. Alcuni giorni fa, da un sondaggio
in Canada è emerso che più di un terzo della popolazione considera gli Stati
Uniti la più grave minaccia alla pace mondiale. Gli USA hanno ottenuto il
doppio dei voti riservati a Iraq e Corea del Nord e risultano superare di gran
lunga anche al-Qaeda. Un sondaggio condotto dal Time, pur privo di verifiche
severe, ha evidenziato che più dell’80% dei partecipanti in Europa ha
attribuito agli USA la palma di maggiore minaccia alla pace mondiale a fronte
di meno del 10% dei voti per Iraq o Corea del Nord. Anche se fossero sballate
di molto, viste le proporzioni, rimarrebbero comunque cifre clamorose.
Per farla breve, i manager delle grandi aziende che
hanno pagato più di 30.000 dollari per assistere ai tetri meeting di Davos
avevano delle ottime ragioni per scegliere come loro tema conduttore “costruire
la fiducia”.
L’imminente guerra contro l’Iraq sta contribuendo,
senza dubbio, a questi interessanti ed importanti sviluppi. L’opposizione alla
guerra è assolutamente senza precedenti storici. In Europa ha raggiunto un
livello tale che Donald Rumsfeld, segretario alla “Difesa” statunitense, ha
liquidato Germania e Francia come meri esponenti della “vecchia Europa” il cui
dissenso, quindi, non merita il minimo interesse. Ha assicurato i giornalisti
stranieri che “la grande maggioranza degli altri paesi europei [è] con gli
Stati Uniti”. Questa grande maggioranza è la “nuova Europa”, simboleggiata da
Silvio Berlusconi, atteso tra breve alla Casa Bianca ad implorare di essere il
terzo membro del club delle “Tre B”: Bush-Blair-Berlusconi, sempre che riesca a
scampare la galera. L’Italia è della partita, ci dice la Casa Bianca.
Evidentemente non si preoccupa molto del fatto che più dell’80% dell’opinione
pubblica italiana è contro la guerra, stando a recenti sondaggi. Ciò evidenzia
solo che anche il popolo italiano è parte integrante della “vecchia Europa” e
può essere gettato nella pattumiera della storia a far compagnia a Francia, Germania
ed altri che non sanno bene dove sia il loro posto.
La Spagna viene acclamata come un altro membro di
primo piano della nuova Europa, con il 75% della popolazione totalmente opposta
alla guerra, secondo un sondaggio internazionale dell’istituto Gallup.
Un esperto di politica internazionale di primo piano
del settimanale Newsweek è dell’avviso che la situazione è più o meno identica
nella parte più “promettente” della nuova Europa, gli ex paesi comunisti sui
quali si fa affidamento (piuttosto apertamente) per appoggiare gli interessi di
Washington e per minare, in Europa, le fondamenta del tanto disprezzato mercato
sociale unitamente all’altrettanto disdicevole welfare . Lo stesso esperto
riferisce che nella Repubblica Ceca ed in Slovacchia due terzi della
popolazione si oppongono al coinvolgimento in una guerra, mentre in Polonia
solo un quarto dei cittadini sarebbero disposti ad appoggiare una guerra anche
nel caso in cui gli ispettori dell’ONU “provassero che l’Iraq è in possesso di
armi di sterminio.” La stampa polacca riferisce che in questa eventualità i
favorevoli alla guerra ammonterebbero al 37%, una percentuale nel cuore della
“nuova Europa” ancora estremamente bassa.
La nuova Europa si è subito identificata mediante
una lettera aperta al Wall Street Journal: ne fanno parte, oltre ad Italia,
Spagna, Polonia Repubblica Ceca e Slovacchia (i capi di stato e non già i
cittadini di questi paesi), la Danimarca (con un’opinione pubblica la cui
posizione rispetto alla guerra è analoga a quella registrata in Germania e,
pertanto, anch’essa parte della “vecchia Europa”), il Portogallo (il 53% dei
portoghesi sono contro la guerra incondizionatamente, ed il 96% contro una
guerra condotta unilateralmente dagli USA e dal Regno Unito), la Gran Bretagna
(con il 40% della popolazione opposta in ogni caso alla guerra, ed il 90%
contro una guerra decisa unilateralmente dagli USA e dai suoi alleati) e
l’Ungheria (per la quale non sono disponibili statistiche).
Per farla breve, la tanto emozionante “nuova Europa”
è costituita da alcuni leader politici disposti a sfidare l’opinione pubblica
dei rispettivi paesi.
Gli esponenti della vecchia Europa hanno reagito con
una certa insofferenza alle esternazioni di Rumsfeld secondo il quale si
tratterebbe di paesi in “crisi” e non di stati moderni. Questa insofferenza ha
dato adito ad alcune interpretazioni da parte degli opinionisti statunitensi.
Per soffermarci solo sulla stampa nazionale, apprendiamo che il “tedium vitae
degli alleati europei” li rende incapaci di apprezzare la “rettitudine morale”
del presidente. La prova della sua “rettitudine morale” sta nel fatto che “i
suoi consiglieri attribuiscono il suo fervore evangelico” direttamente alla sua
buona fede di uomo deciso a bandire il male dal mondo. Poiché si tratta della
prova più affidabile ed oggettiva che si possa immaginare, già esprimere un
leggero scetticismo sarebbe fuori luogo, figuriamoci poi reagire come
solitamente faremmo noi se fossero altri a vantarsi di siffatta performance.
Senza considerare minimamente l’eventualità che nella costruzione di
quest’immaginario fatto per vendere bene ci sia forse lo zampino degli esperti
di public relation della Casa Bianca, ci dicono che i cinici europei confondono
la “purezza d’animo” di Bush con “ingenuità morale”. Ma non è finita. Infatti
ci informano anche che tra il tedium vitae degli europei e “l’idealismo del
Nuovo Mondo dedito all’eliminazione della disumanità” si è creato un solco
profondo. Peccato solo che il proposito ispiratore del Nuovo Mondo idealista
sia proprio la creazione di questo solco, visto che a proclamarlo sono i
proprio i nostri leader politici. Che prova più lampante di questa si potrebbe
desiderare?
Nei rari riferimenti riservati all’opinione pubblica
nella nuova Europa, questa viene trattata come un problema di marketing. Vista
la provenienza, il prodotto da vendere è necessariamente retto e degno. La
volontà dei leader della nuova Europa di preferire Washington ai loro popoli
“minaccia di isolare tedeschi e francesi” che stanno dando dimostrazione di
tendenze democratiche retrograde e dimostra che Germania e Francia non possono
“affermare di parlare a nome dell’Europa.” Esse rappresentano semplicemente la
gente della vecchia e nuova Europa che, come concedono gli stessi opinionisti,
esprimono il loro “forte malcontento” verso le politiche della nuova Europa.
Le dichiarazioni ufficiali e le relative reazioni
sono illuminanti. Dimostrano con una certa chiarezza il disprezzo per la
democrazia che, parlando da una prospettiva storica, è abbastanza tipico tra
quelli che ritengono di governare il mondo per diritto.
Ci sono tanti altri esempi. Quando il cancelliere
tedesco Gerhard Schroeder ha osato aderire alla posizione della stragrande
maggioranza di votanti alle ultime elezioni, il suo atto è stato descritto come
un’eclatante mancanza di leaderhip, un problema grave che la Germania è
chiamata a risolvere se vuol far parte del mondo civile. Il problema, quindi,
sarebbe inerente alla Germania e non già alle elite delle democrazie
anglo-americane. Il problema della Germania sarebbe “un governo che vive nella
paura dell’umore degli elettori che lo spinge a commettere un errore dietro
l’altro”, afferma il portavoce dell’Unione Cristiano-Sociale, il partito di
destra che evidentemente comprende la reale natura della democrazia.
Il caso della Turchia è ancora più illuminante. Come
in tutta la regione, anche i turchi si oppongono nettamente alla guerra.
Secondo recenti sondaggi si tratterebbe del 90% della popolazione. E per ora il
governo ha irresponsabilmente ascoltato, almeno in parte, il popolo che lo ha
eletto. Non si è completamente genuflesso alle forti pressioni ed alle minacce
esercitate da Washington per costringerlo a dare ascolto alla voce del padrone.
Questa riluttanza del governo democraticamente eletto ad eseguire gli ordini
dall’alto proverebbe che i suoi leader non sono veri democratici. Per quanti
siano troppo duri di comprendonio per capire queste sottigliezze, vale la pena
ricordare le parole di Morton Abramowitz, ex ambasciatore in Turchia degli
Stati Uniti e adesso autorevole ed esperto statista ed opinionista. Dieci anni
fa ha spiegato che la Turchia era governata da un vero democratico, Turgut
Ozal, che “ha ignorato l’evidente volontà del suo popolo di tenersi fuori dalla
guerra del Golfo.” Oggi però la democrazia turca è in declino. La classe
dirigente del paese “sta assecondando la gente”, evidenziando la sua mancanza
di ”credenziali democratiche.” E aggiunge: “malauguratamente per gli USA, oggi
di Ozal non se ne trovano più.” Quindi chissà che non sia necessario portare
un’autentica democrazia in Turchia strangolandola economicamente e ricorrendo
ad altri strumenti di coercizione. Malauguratamente. Ma è quanto esige la
nostra “brama di democrazia”, come la chiama la nostra stampa d’elite.
Il Brasile, in questo momento, è testimone di
un’altra prova di autentiche attitudini democratiche da parte dei signori
dell’universo. Nelle elezioni più libere di quell’emisfero una vasta
maggioranza ha votato per delle politiche fortemente invise alla finanza
internazionale ed agli investitori, all’FMI ed al Ministero delle Finanze
statunitense. In tempi più remoti, ciò avrebbe significato un segnale di via
libera ad un golpe con cui installare uno stato di polizia assassino, come
accadde in Brasile 40 anni fa. Adesso non funzionerebbe. I popoli al Sud ed al
Nord sono cambiati e non tollererebbero tanto facilmente un’eventualità del
genere. Inoltre al giorno d’oggi esistono modi più semplici di minare la
volontà popolare, grazie all’impiego degli strumenti del neoliberismo che sono
subentrati oggi: controllo economico, fuga di capitali, attacchi alla valuta
nazionale, privatizzazioni ed altri meccanismi atti a ridimensionare l’arena
della scelta popolare. Questo strumentario, almeno così sperano, può costringere
i governi a seguire i diktat di quello che gli economisti internazionali
chiamano il “parlamento virtuale” fatto di investitori e prestatori di
capitale, quelli che realmente prendono le decisioni che poi saranno subite
dalla gente, un’irrilevante seccatura, secondo i principi democratici
attualmente in voga.
Quando ero in procinto di recarmi all’aeroporto, la
stampa mi ha chiesto, come già tante altre volte, perché negli USA le proteste
contro la guerra fossero così rare. Quest’impressione è istruttiva. In realtà
le proteste negli Stati Uniti, così come altrove, sono a livelli senza
precedenti. Non parlo solo di dimostrazioni, teach in ed altre manifestazioni
pubbliche. Per citare un esempio di altro tipo, la settimana scorsa il comune
di Chicago ha approvato una mozione contro la guerra, la 46-1, andando a fare
compagnia ad altre 50 tra grandi e piccole città. E lo stesso vale anche per
altri settori della società, inclusi quelli in cui la gente maggiormente
confida, come ha appreso con costernazione il Forum Economico Mondiale: le NGO
congiuntamente ad organizzazioni e figure religiose con solo rare eccezioni.
Diversi mesi fa la University of Texas, la più grande università del paese, ha
approvato una dura mozione contro la guerra. Proprio a due passi dal ranch di
George W. Bush. E la lista si potrebbe facilmente allungare.
Perché allora questo diffusa convinzione tra le
elite che la tradizione del dissenso e della protesta sia morta? Come sempre si
fanno paragoni con il Vietnam. Un fatto molto sintomatico. Ricorreva poco tempo
fa il 40° anniversario della dichiarazione pubblica dell’amministrazione
Kennedy sull’invio dell’aviazione statunitense a bombardare il Vietnam
meridionale, mentre partivano anche i piani per internare milioni di persone
nei campi di concentramento ed i programmi di guerra chimica per distruggere i
raccolti. In quel caso non c’era nemmeno il pretesto dell’autodifesa, eccetto
che nella dimensione della retorica ufficiale: la difesa contro “l’aggressione
interna” perpetrata dai sudvietnamiti nel Vietnam meridionale ed il loro
“assalto dall’interno” (parole dell’allora presidente Kennedy e del suo
ambasciatore all’ONU Adlai Stevenson). A quell’epoca la protesta fu pressoché
inesistente. Per molti anni non raggiunse mai un livello significativo. Quando
centinaia di migliaia di truppe statunitensi avevano già affiancato le forze di
occupazione, zone densamente popolate furono demolite con bombardamenti a
tappeto mentre l’aggressione si allargava anche al resto dell’Indocina. Le
proteste tra degli intellettuali d’elite erano innanzi tutto basate su “motivi
pragmatici”: la guerra era un “errore” che si stava rivelando troppo costoso
per gli USA. In stridente contrasto con questo approccio, alla fine degli anni
60 la grande maggioranza dell’opinione pubblica si schierò contro la guerra non
perché fosse “un errore”, bensì perché “ingiusta ed immorale per sua natura”,
un’interpretazione che resta saldamente in piedi sino ai giorni nostri.
Al contrario di quanto avvenne negli anni 60, oggi
tutti gli Stati Uniti sono percorsi da una protesta popolare su vasta scala,
impegnata e ispirata da valori etici, prima ancora che la guerra abbia
ufficialmente inizio. Questo dato di fatto riflette la costante crescita, nel
corso di questi anni, della riluttanza a tollerare aggressioni e atrocità e si
tratta solo di uno dei tanti cambiamenti che si sono verificati, di fatto, su
scala mondiale. Ciò è parte integrante della cornice di fondo di ciò che sta
avvenendo qui a Porto Alegre e, nel contempo, anche uno dei motivi dello
sconforto di Davos.
La leadership politica è pienamente consapevole di
questi sviluppi. Negli Stati Uniti quando alla Casa Bianca si insedia un nuovo
governo, questo riceve un’analisi della situazione del mondo redatta
dall’intelligence. È top secret, sono cose di cui veniamo a conoscenza solo
molti anni dopo. Tuttavia quando Bush I è stato eletto nel 1989, stralci di
quest’analisi sono trapelati. Si tratta di un breve passaggio concernente i
“casi in cui gli USA affrontano nemici molto più deboli”, gli unici,
ovviamente, che si sarebbe disposti a combattere. L’intelligence avvertiva che
nei conflitti con “nemici molto più deboli” gli USA avrebbero dovuto vincere
“in maniera netta e rapida” per scongiurare un tracollo del consenso popolare. Non
è più come negli anni 60, quando la gente era disposta a tollerare una guerra
omicida e distruttiva per anni senza alcuna protesta visibile. Le cose sono
cambiate. I movimenti di attivisti degli ultimi 40 anni hanno lasciato una
traccia significativa nel senso civico della gente. Ora come ora l’unico modo
per attaccare un nemico molto più debole consiste nell’architettare una vasta
offensiva propagandistica in cui prima si rappresenta l’avversario in procinto
di commettere un genocidio o, eventualmente, come una minaccia alla nostra
stessa sopravvivenza, per poi celebrare la miracolosa vittoria sul terrificante
avversario e, al contempo intonare gli inni di lode ai coraggiosi leader
accorsi a salvarci appena in tempo.
L’attuale scenario iracheno è questo.
I sondaggi rivelano che il sostegno alla guerra data
per certa è più forte negli USA che altrove. Ma le cifre ingannano. È
importante tener presente che gli Stati Uniti sono il solo paese fuori
dall’Iraq in cui Saddam Hussein sia non solo odiato, ma anche temuto. Esiste un
diluvio di propaganda sensazionalistica in cui si avverte che se non lo
fermiamo oggi sarà lui a distruggerci domani. La prossima prova delle sue armi
di sterminio potrebbe essere un “fungo atomico”, magari su New York, come ha
dichiarato a settembre Condoleezza Rice, consigliera di Bush per la sicurezza
nazionale. Per quanto possano odiare questo tiranno assassino, nessuno nei
paesi confinanti con l’Iraq sembra esserne particolarmente preoccupato. Forse
perché sanno che a causa delle sanzioni “una vasta maggioranza della
popolazione irachena ha fatto per anni una dieta ai limiti dell’inedia”, come
riportato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, così come anche che l’Iraq
è uno degli stati più deboli della regione: la sua economia e le spese militari
sono una frazione di quelle del Kuwait, la cui popolazione è solo il 10% di
quella irachena, ed ancora più insignificanti rispetto alle cifre di altri
stati limitrofi.
Ma gli USA sono diversi. Quando nell’ottobre scorso
il Congresso ha concesso al presidente Bush pieni poteri per una guerra contro
l’Iraq, lo ha fatto “per difendere la sicurezza nazionale degli Stati Uniti
contro la persistente minaccia rappresentata dall’Iraq.” Dobbiamo tremare
d’angoscia al cospetto di questa terrificante minaccia mentre, per converso, si
assiste al tentativo di reintegrare l’Iraq nella regione da parte dei paesi
vicini, inclusi quelli che hanno subito attacchi da Saddam quando era ancora
amico ed alleato di quelli che adesso menano la danza a Washington e che erano
ben felici di fornirgli la loro assistenza, fatta anche di strumenti per
sviluppare armi di sterminio, quando Saddam era molto più pericoloso di oggi e
si era già macchiato dei suoi crimini di gran lunga peggiori.
Da una seria valutazione del sostegno alla guerra
negli Stati Uniti dovrebbe essere stralciato questo “fattore paura” che è
tangibile e peculiare a questo paese. Il residuo darebbe una misura più
realistica del sostegno al ricorso alla violenza e risulterebbe, credo, più o
meno uguale a quello manifestato altrove.
È anche alquanto rimarchevole come la viva
opposizione alla guerra imminente si diffonda anche nell’establishment. Gli
ultimi due numeri di due autorevoli riviste di politica estera contengono
articoli contro la guerra firmati da importanti esponenti delle elite di
esperti della materia. La molto autorevole Accademia Americana delle Arti e
delle Scienze ha pubblicato una lunga monografia sulla guerra in cui si tenta
di descrivere nel modo più indulgente possibile la posizione adottata
dall’amministrazione Bush ma poi finisce per smontarla punto per punto.
Un’analista molto autorevole citato nella monografia è il socio senior del
Carnegie Endowment for International Peace, un importante istituto di
geopolitica, che mette in guardia dagli Stati Uniti i quali, con la classe
dirigente attualmente al potere, starebbero diventando “una minaccia per loro
stessi e per l’umanità”. Un’affermazione del genere è senza precedenti.
Non dovremmo dimenticare che queste critiche tendono
ad essere improntate ad una visione molto limitata. La loro ansia concerne solo
la minaccia agli USA ed ai suoi alleati, senza prendere minimamente in
considerazione le probabili conseguenze sugli iracheni: i moniti dell’ONU e
delle agenzie umanitarie sul grave rischio corso da milioni di persone in un
paese ai limiti della sopravvivenza, provato da un terribile conflitto che
prenda di mira le sue infrastrutture basilari con effetti analoghi ad una
guerra batteriologica e che esce, inoltre, da una decade di sanzioni devastanti
che hanno mietuto centinaia di migliaia di vite umane, paralizzato qualsiasi
ricostruzione e rafforzato, invece, il brutale tiranno che regna in Iraq. È
anche interessante notare come le critiche non si dilunghino con gli slogan
dell’altera retorica della democrazia e della libertà. Presumibilmente si da
per scontato che questa retorica sia destinata agli intellettuali e a chi
scrive gli editoriali. Da questi, infatti, non ci si attende la capacità di
rendersi conto che l’appello alla guerra è accompagnato da una sconcertante
prova di disprezzo della democrazia. Ci si attende, invece, l’oblio dei dossier
sul passato dei principali artefici di questa campagna. E ciò rappresenta anche
il motivo per cui nessuno di questi dossier è mai stato sottoposto al vaglio
dell’ONU.
Tuttavia i pericoli che suscitano apprensione nei
censori dell’establishment sono molto reali. Sicuramente non sono rimasti
sorpresi quando lo scorso ottobre la CIA ha informato il Congresso di non
essere al corrente di legami tra Iraq e terrorismo stile al Qaeda e che, anzi,
un attacco all’Iraq potrebbe accrescere la minaccia del terrorismo in occidente
in molti modi. È probabile, infatti, che ispiri una nuova generazione di
terroristi decisi a vendicarsi e che induca l’Iraq a compiere azioni
terroristiche la cui attuazione attende solo un segnale di via libera, una
possibilità presa molto sul serio dagli esperti USA. Una task force di alto
livello del Consiglio delle Relazioni Internazionali ha recentemente pubblicato
un rapporto in cui si mette in guardia da probabili attacchi terroristici che
potrebbero essere molto peggiori dell’11 settembre, incluso un eventuale
attacco con armi di sterminio proprio su territorio americano e si ritiene che
questi rischi potrebbero diventare “più impellenti in prospettiva di una marcia
USA sull’Iraq.” A questo riguardo vengono forniti anche diversi esempi,
praticamente un libro di ricette per terroristi. Non si tratta del primo. Ne
esistevano già altri analoghi pubblicati da autorevoli ricercatori molto prima
dell’11 settembre.
Un attacco all’Iraq potrebbe condurre non solo ad un
aumento del terrore, ma anche alla proliferazione di armi di sterminio. Per un
motivo molto semplice: i potenziali bersagli degli USA potrebbero rendersi
conto che non c’è altra alternativa a dissuadere con successo il più potente
stato della storia che, al servizio dell’“Ambizione Imperiale Americana”, sta
diventando una seria minaccia per gli stessi USA ed il mondo intero, si
sostiene in Foreign Affairs, la pubblicazione più importante dell’establishment
statunitense. Alcuni falchi molto noti avvertono che da una guerra in Iraq
potrebbe scaturire “la più catastrofica proliferazione della storia.” Essi
sanno che, se l’Iraq possiede armi chimiche e batteriologiche, la dittatura le
tiene sotto stretto controllo. Inoltre ritengono che, accetto che come ricorso
all’extrema ratio se attaccato, è altamente improbabile che l’Iraq faccia uso
di armi di sterminio autocandidandosi, di conseguenza, all’incenerimento
istantaneo. Ed è anche altamente improbabile che le passi agli Osama Bin Laden
del pianeta perché ciò costituirebbe una terribile minaccia per lo stesso
Saddam Hussein, per non parlare poi della reazione in caso esistesse anche solo
un indizio che ciò potrebbe accadere. Però una volta aggredito, l’ordine
sociale in Iraq potrebbe disintegrarsi e con esso il controllo sulle armi di
sterminio. Queste verrebbe “privatizzate”, sottolineano gli esperti di
terrorismo, ed offerte sul vasto “mercato delle armi non convenzionali, dove
non sarà difficile trovare degli acquirenti.” Questo sì che è uno “scenario da
incubo”, come avvertono i falchi.
Prima che l’amministrazione Bush cominciasse a
suonare i tamburi di guerra contro l’Iraq, erano già molti gli allarmi sul
fatto che il suo avventurismo avrebbe condotto al proliferare delle armi di
sterminio, così come anche ad una ripresa del terrore se non altro come
strumento di deterrenza. Proprio in questo momento Washington sta impartendo al
mondo una pessima e pericolosa lezione: se vuoi difenderti da noi è meglio che
segui l’esempio della Corea del Nord e diventi una minaccia militare credibile
munendo il tuo arsenale di armi di sterminio. Altrimenti ti demoliremo nel
perseguire la nostra “grande strategia” che ha fatto rabbrividire non solo le
solite vittime e la “vecchia Europa”, ma anche il cuore stesso dell’elite degli
strateghi internazionali statunitensi i quali riconoscono che “l’impegno degli
USA nel ricorrere al confronto armato per favorire in maniera determinante i
propri interessi nazionali ci lascerà un mondo più pericoloso e un’America meno
sicura”, per citare ancora una volta autorevoli esponenti della stampa d’elite.
Evidentemente, rispetto al contesto delle loro vere
priorità, per gli strateghi di Washington il probabile aumento del terrorismo e
la proliferazione delle armi di sterminio non costituiscono una preoccupazione
particolarmente sentita. E i motivi di questa situazione sono facilmente
intuibili. E non sono motivi molto edificanti.
La natura delle minacce è stata sottolineata con
grande risalto l’ottobre scorso, al summit dell’Avana per il 40° anniversario
della crisi dei missili a Cuba, cui hanno partecipato figure chiave di
quell’avvenimento provenienti da Russia, Stati Uniti e Cuba. All’epoca dei
fatti gli strateghi erano consapevoli di avere il destino del mondo nelle
proprie mani, ma le nuove informazioni diffuse al summit hanno davvero
dell’inquietante. Abbiamo appreso che il mondo è stato salvato dall’olocausto
nucleare dal capitano di un sottomarino russo, Vasily Arkhipov che ha bloccato
l’ordine di lanciare missili nucleari quando sottomarini russi furono attaccati
da cacciatorpediniere USA in prossimità della linea di “quarantena” di Kennedy.
Se Arkhipov avesse obbedito all’ordine, il lancio dei missili nucleari avrebbe
innescato uno scontro in grado di “distruggere l’emisfero settentrionale”, come
aveva avvertito Eisenhower.
La drammatica rivelazione è particolarmente attuale
viste le circostanze: le radici della crisi dei missili affondano nel
terrorismo internazionale atto a provocare “cambi di regime”, due concetti
molto diffusi nelle notizie di questi giorni. Gli attacchi terroristici degli
USA contro Cuba cominciarono poco dopo l’ascesa al potere di Castro e subirono
una netta escalation grazie a Kennedy, provocando il molto fondato timore di
un’invasione, come ha ammesso l’allora segretario alla difesa Robert McNamara.
Kennedy rilanciò la guerra terrorista appena superata la crisi. Gli atti di
terrorismo contro Cuba toccarono l’apice alla fine degli anni ’70 per
proseguire per altri 20 anni. Mettendo da parte qualsiasi valutazione del
comportamento delle persone coinvolte nella crisi dei missili, le nuove
rivelazioni dimostrano con chiarezza cristallina i rischi terribili ed inattesi
insiti in un attacco ad un “nemico molto più debole” per indurre un “cambio di
regime”. La sopravvivenza stessa è a rischio, e non si tratta di
un’esagerazione.
Per quanto riguarda la sorte del popolo iracheno,
nessuno è in grado di azzardare delle previsioni attendibili. Né la CIA, né
Donald Rumsfeld, né quanti affermano di essere esperti di affari iracheni.
Nessuno. La gamma di possibilità si estende dalle drammatiche previsioni, per
fronteggiare le quali si stanno già attrezzando le agenzie umanitarie, alle
storie idilliache orchestrate dagli esperti di public relations e dalla loro
corte. Nessuno ha una risposta. Questi sono alcuni dei tanti motivi per cui
alcuni esseri umani degni di questo nome non contemplano la minaccia o l’uso
della violenza né nella propria sfera personale, né nell’ambito delle relazioni
internazionali, a meno che non esistano cause di forza maggiore. E, senza
dubbio, nel caso in questione non si è verificato niente che somigli nemmeno
lontanamente a questa eventualità ed è per questo che l’opposizione ai piani di
Washington e Londra ha raggiunto tali proporzioni e intensità.
Il sincronismo della propaganda di Wahington e
Londra è stato così trasparente che anch’esso è stato argomento di discussione,
a volte ridicolo, proprio nel mainstream. La campagna è partita a settembre
dell’anno scorso. Prima di allora Saddam era un ragazzaccio ma non un’imminente
minaccia alla sopravvivenza degli USA. Il “fungo atomico” è stato annunciato ai
primi di settembre. Da allora la paura di un attacco di Saddam agli USA ha cominciato
a serpeggiare all’incirca tra il 60% ed il 70% della popolazione. Il direttore
del dipartimento di analisi politiche della United Press International ha
osservato che “la disperata urgenza di attivarsi rapidamente contro l’Iraq,
manifestata da Bush in ottobre, non ha alcun riscontro in quanto andava
affermando due mesi prima”, giungendo all’ovvia conclusione che settembre
segnava l’apertura della campagna politica per le elezioni del Congresso di
metà mandato presidenziale. L’amministrazione, aggiunge il politologo, stava
“portando avanti una campagna di persuasione per sostenere ed accrescere il suo
potere finalizzato ad una politica di avventurismo internazionale, a strategie
militari preventive ed alla fame di un confronto armato con l’Iraq che fosse
politicamente conveniente e perfettamente sincronizzato”. Bush e compagnia
stavano perdendo terreno nella misura in cui le questioni di politica interna
rimanevano in primo piano. Una cosa del tutto naturale visto che stanno
lanciando un attacco indiscriminato contro il popolo statunitense. “Ma ad un
tratto… abracadabra! Nonostante non si fossero verificati nuovi attacchi
terroristici né ci fossero segnali credibili di minacce imminenti, dai primi di
settembre le questioni di sicurezza interna hanno fatto la parte del leone”, e
non semplicemente al Qaeda, ma una terrificante e minacciosa potenza militare:
l’Iraq.
Tanti altri hanno fatto le stesse considerazioni. A
gente come noi conviene: così ci basta semplicemente citare il mainstream
invece di fornire controverse analisi della situazione. La fonte del Carnegie
Endowment che ho citato precedentemente scrive che Bush & Co. stanno
seguendo “la classica strategia moderna di un’oligarchia di destra minacciata,
vale a dire deviare il malcontento di massa puntando nel nazionalismo,”
ispirato dalla paura di nemici sul punto di annientarci. Questa strategia è di
vitale importanza se i “nazionalisti radicali” artefici della politica di
Washington sperano di portare avanti il loro preannunciato piano di un “dominio
mondiale unilaterale attraverso una supremazia militare assoluta” conducendo,
nel contempo, un attacco profondo agli interessi della vasta maggioranza della
popolazione americana.
Per le elezioni questa strategia ha funzionato,
anche se di stretta misura. Le elezioni dell’autunno 2002 sono state vinte
grazie ad un pugno di voti sufficienti, tuttavia, a consegnare il Congresso
nelle mani dell’esecutivo. Le analisi hanno evidenziato che gli elettori hanno
confermato il loro dissenso nei confronti dell’amministrazione in materia
sociale ed economica ma lo hanno rimosso a favore delle preoccupazioni legate
alla sicurezza il che, com’è naturale, porta ad appoggiare chi detiene il
potere, il coraggioso cowboy lanciato al galoppo par salvarci appena in tempo.
Come la storia insegna, è molto semplice per leader
senza scrupoli atterrire l’opinione pubblica con conseguenze tutt’altro che
belle. Si tratta del metodo naturale per distogliere l’attenzione dal fatto che
le agevolazioni fiscali per i ricchi, unitamene ad altri provvedimenti, minano
le prospettive di una vita decente per i più e per le future generazioni.
Quando comincia la campagna elettorale gli strateghi repubblicani sicuramente
non gradiscono che la gente faccia domande su pensioni, stipendi, assistenza medica
ed altre questioni del genere. Invece sarebbe preferibile tessere le lodi degli
eroici leader che si adoperano a salvare il loro popolo dall’imminente
distruzione per mano di un nemico dal potere colossale per poi procedere ad
affrontare la prossima armata poderosa decisa a distruggerci. Potrebbe
trattarsi dell’Iran, o potrebbe essere un conflitto nei paesi andini. Le
possibilità di scelta sono tante, purché i bersagli siano indifesi.
Queste idee sono diventate una seconda natura per i
leader politici, molti dei quali riciclati dalla prima amministrazione Reagan.
Stanno recitando un copione già familiare: spingi il paese nel deficit in modo
da poter minare i programmi di welfare, dichiara una “guerra al terrore” (come
avvenne nel 1981) ed evoca un demonio dopo l’altro per atterrire la popolazione
fino ad ottenerne l’obbedienza. Negli anni 80 erano i sicari libici che si
aggiravano per le strade di Washington alla caccia del nostro presidente, poi
l’esercito del Nicaragua a soli due giorni di marcia dal Texas, una minaccia
così grave da costringere Reagan a proclamare l’emergenza nazionale. Oppure un
campo di aviazione a Grenada che i russi volevano usare per bombardarci (sempre
che fossero riusciti a trovarlo sulla carta geografica); terroristi arabi in agguato
per uccidere americani dappertutto mentre Gheddafi progettava di “far sparire
l’America dalla faccia della terra”, come inveiva Reagan. Oppure era il turno
dei narcotrafficanti ispanici decisi a distruggere i nostri giovani ecc, ecc.
Nel frattempo la leadership politica ha avuto la
possibilità di attuare politiche interne dai risultati economici, in genere,
molto scadenti ma in grado di generare ricchezza per settori limitati della
società ai danni di una considerevole maggioranza della popolazione. Lo stesso
copione che si sa sta mettendo in scena nuovamente. E poiché l’opinione
pubblica lo sa, gli autori sono costretti a ricorrere “alla classica, moderna
strategia di un’oligarchia minacciata” per poter attuare i programmi di
politica interna ed estera perseguiti o, addirittura, per istituzionalizzarli
in modo da renderne difficile la reversibilità una volta perso il potere.
Certo, c’è molto di più in ballo che considerazioni
di politica interna, sebbene anche queste ultime siano tutt’altro che irrilevanti.
Le atrocità dell’11 settembre hanno offerto un’opportunità ed un pretesto per
attuare piani elaborati già molto tempo prima per prendere il controllo
sull’immensa ricchezza petrolifera dell’Iraq, una componente centrale delle
risorse del Golfo Persico che il dipartimento di stato americano, nel 1945, ha
descritto come “una stupenda fonte di potere strategico ed una delle ricchezze
materiali più grandi della storia mondiale.” L’intelligence USA prevede che
queste risorse diventeranno ancora più significative negli anni a venire. Il
nocciolo della questione non è mai stato come accedervi. Le stesse analisi
dell’intelligence prevedono che gli USA faranno affidamento su forniture più
sicure nell’emisfero occidentale e nell’Africa occidentale. Ciò è quanto
accadde nel secondo dopoguerra. Ciò che conta è il controllo sia sulla
“ricchezza materiale”, capace di incanalare in molti modi un benessere enorme
verso gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, e sia anche sulla “stupenda fonte di
potere strategico” che si traduce nella leva con cui attuare la “dominazione
mondiale unilaterale”, la meta che viene ora annunciata apertamente e che
atterrisce gran parte del mondo, compresi la “vecchia Europa” e l’establishment
conservatore negli Stati Uniti.
Credo che uno sguardo realista fornisca immagini
contraddittorie. Ci sono molte ragioni per sentirsi fiduciosi, ma la strada da
percorrere sarà lunga e dura.
1 febbraio 2003
Documento originale Confronting
the Empire
Traduzione di Giampiero Budetta