AUMENTA LA
POVERTA’.CHE FARE ?
un inquietante articolo di Jean Fabre, vicedirettore del programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo – UNPD, pubblicato negli anni 1997-'98 e ancor oggi di una drammatica attualità
La
cooperazione internazionale non si può ridurre a quello che è comunemente
chiamato “Aiuto pubblico allo sviluppo”. Ciò nonostante, “ l’aiuto pubblico
allo sviluppo” è uno dei metri con cui si può misurare il livello di priorità e
d’importanza che è assegnato alla cooperazione internazionale. Negli ultimi
anni abbiamo dovuto registrare una continua diminuzione dell‘aiuto pubblico
allo sviluppo. Dal 1992 ad oggi, l‘aiuto pubblico allo sviluppo è sceso in termini
reali del 25%. Si tratta di una tendenza allarmante: mentre cresce
l‘interdipendenza planetaria, la cooperazione internazionale si fa sempre più
necessaria, non solo per motivi umanitari o per un dovere morale, ma per quella
che chiamerò “una necessità di corretta amministrazione”.
Oggi c’è chi pensa che non vi sia bisogno di una cooperazione allo sviluppo perché esiste la “teologia del Mercato”. Il Mercato pensa, decide, ci condiziona in molti modi e… presto o tardi riuscirà a migliorare le cose. “Anche se inizialmente la crescita sarà accompagnata da un aumento delle disparità, poi le cose miglioreranno e tutti potranno avere benefici della crescita e del Mercato”.
La realtà è molto diversa. Negli ultimi cinquant’anni abbiamo conosciuto un progresso senza precedenti. La ricchezza mondiale è stata moltiplicata per sette. E, siccome nel frattempo la popolazione è raddoppiata, la ricchezza pro capite nel mondo (in termini reali) è triplicata.
Dovremmo,
dunque, stare tutti meglio. Ma la disoccupazione va crescendo ed è in testa
alle preoccupazioni degli italiani e di tanti altri in tutto il mondo. La
protezione sociale si sta smantellando in tutti i paesi. Le assicurazioni
sociali, la copertura medica, le pensioni sono tutte rimesse in discussione:
mentre le ricchezze sono aumentate e, nei prossimi anni, potremmo produrre
ancora di più beni e servizi con meno lavoro.
Il
vero problema è la ripartizione della ricchezza. Una ripartizione che non si
deve fare solo a livello nazionale, ma a livello mondiale.
Oggi
viviamo nel mondo dell’interdipendenza. Un mondo in cui pretendere di risolvere
i problemi nazionali con misure esclusivamente nazionali è un modo inefficace,
sbagliato, inadeguato.
Il
mondo non si può governare guardando ciascuno al proprio giardino: occorre
inserire il proprio giardino nel contesto più generale. Ed è in questo
“contesto generale” che vediamo come la crescita della ricchezza mondiale va a
vantaggio di un gruppo ristretto di persone. Negli ultimi 15 anni il numero dei
più ricchi è raddoppiato. Mentre il numero dei più poveri è triplicato.
Esso
continua a crescere ad un ritmo spaventoso: 47 poveri in più ogni minuto che
passa; 25 milioni in più l’anno. E’ una cosa che bisogna invertire perché la
quantità di persone che vive nella miseria oggi rappresenta l‘equivalente della
metà della popolazione del mondo di quarant‘anni fa.
Possiamo
lasciare un miliardo e trecento milioni di poveri ai margini di tutto? Alcuni
li considerano così: sono le popolazioni “Kleenex”, quelli che si usano e poi
si possono buttare.
Ma
nel mondo in cui viviamo esse rappresentano una sorgente di problemi enormi. Si
tratta di una massa di persone che non si possono eliminare. Sono persone:
bisogna considerarle.
Lo
scarto tra i più poveri e i più ricchi aumenta ma pensavamo che l‘aumento della
ricchezza avrebbe portato qualche beneficio, seppur minore, a tutti. Non è
così.
Negli
ultimi 15 anni, un quarto dell‘umanità ha visto diminuire il suo reddito.
Nel
nostro ultimo “Rapporto sullo Sviluppo” (a cura dell‘UNPD-ONU n.d.r.) risulta
che 102 paesi vivono in condizioni peggiori di 15 anni fa, 79 stanno peggio che
nel 1970, 40 stanno peggio che nel 1960. Nel 2000, più della metà delle
popolazioni africane saranno povere.
Il
risultato è che ogni tre secondi muore un bambino che non abbiamo saputo
proteggere.
Questi
fatti sono di per sé un insulto alla coscienza umana: un insulto! Quando
affermiamo che “povertà significa mancanza di dignità” non parliamo della
dignità del povero. E’ la dignità di noi tutti che manca, la dignità della
nostra società che non interviene, eppure, siamo la prima generazione ad avere
i mezzi e le capacità per eliminare la povertà.
Nonostante
questo, ci sono 35 milioni di disoccupati nei paesi industrializzati, 120
milioni nel mondo, 700 milioni di persone che, pur avendo un lavoro, non
riescono a mantenere se stessi e la propria famiglia.
Nel
futuro si produrrà di più con meno lavoro. Come sarà possibile spartire il
lavoro in un mondo in cui il capitale viaggia a tal punto che le sole
speculazioni finanziarie a corto termine a livello mondiale provocano un
movimento nei mercati internazionali di 1000 miliardi di dollari al giorno?
L’estendersi
della povertà ha anche un costo immediato molto alto. La povertà viaggia e
passa le frontiere senza passaporto ed entra in tutte le case sotto varie
forme.
Non
ci si può illudere di riuscire a tener lontano i poveri “altri” (visto che i
poveri ci sono anche tra noi) perché le conseguenze della povertà ritornano
passando attraverso le porte delle nostre case.
Se
questa è la realtà, allora non è esagerato dire che siamo ad un bivio e
dobbiamo compiere una scelta: cooperazione oggi o soldati domani.
Il
mondo non si gestisce più come prima. E’ essenziale capire che sin dagli anni
ottanta siamo entrati (e ci resteremo per sempre) nell‘era
dell‘interdipendenza. Oggi sulla terra siamo quasi 6 miliardi d’abitanti. Ma
con i nostri modi di produzione e di consumare, con la comunicazione totale e
la globalizzazione che abbiamo raggiunto, siamo tutti sulla stessa nave. C‘è
chi viaggia in prima classe, in seconda o in terza e c‘è chi sta in fondo
Perché povertà vuol dire aumento della disoccupazione, danni ambientali,
problemi di salute pubblica, diffusione della droga, più migrazioni, più
fondamentalismo che si nutre delle fratture sociali, più insicurezza, più
guerre, più guerre, più conflitti violenti (negli ultimi tre anni ci sono stati
82 conflitti che hanno causato più di 1000 morti. Di questi 79 sono conflitti
interni cioè implosioni dovute all‘imputridimento della situazione sociale).
Siamo
nell‘epoca economica senza creazione di posti di lavoro. E’ un fatto legato
all‘aumento della produttività ed è un fenomeno durevole che caratterizzerà
sempre più il futuro.
Bisogna
dare quindi una risposta diversa ai problemi che ci stanno dinanzi. Non
possiamo pensare di continuare ad espandere l‘attuale modello di sviluppo.
Perché con 6 miliardi di persone sulla terra tocchiamo i limiti dell‘ambiente e
delle risorse naturali. Non possiamo produrre e consumare come abbiamo fatto in
passato nei paesi più ricchi. Se tutti producessero e consumassero come
facciamo noi dei paesi industrializzati, consumeremmo 10 volte la quantità di
petrolio e 200 volte la quantità di minerali. E’ ecologicamente insopportabile.
Semplicemente
non è fattibile.
Ma
come possiamo pensare che coloro che vivono nelle situazioni più difficili
siano disponibili a rinunciare a quello di cui noi abbiamo diritto? Non è
immaginabile. Viviamo nel mondo della comunicazione totale: la televisione e la
radio arrivano dappertutto e nessun’accetta di fare a meno di quello che hanno
gli altri.
Ho
visto nel Laos, in un villaggio di montagna difficilissimo da raggiungere, un
solo televisore,
Ma
ogni sera, davanti a quel televisore ci sono 700 persone che ci vedono, che ci
osservano e non rinunciano al nostro stile di vita.
Dobbiamo
quindi rivedere il nostro modo di vivere e non cercare di difendere i privilegi
di alcuni e lasciare nelle difficoltà gli altri, in un mondo nel quale c’è una
polarizzazione crescente, insopportabile oggi e pericolosa per domani.
C’è
chi crede che questi problemi possano essere risolti dal Mercato e che quindi
non c’è bisogno di cooperazione internazionale. La realtà dimostra che è
sbagliato e che niente accade automaticamente.
Per
esempi, i flussi degli investimenti stranieri diretti nei paesi in via di
sviluppo ammontano a tre volte i fondi della cooperazione internazionale che
nel frattempo sono diminuiti. Ma l’80% di questi investimenti diretti è
concentrato in 12 paesi. L’Africa ne riceve solo il 5% e i paesi meno
sviluppati appena l’1%. Gli investimenti diretti non possono dunque sostituire
uno sforzo di cooperazione internazionale.
Cresce
il peso dell’indebitamento. Certi paesi, in particolare nell’Africa sub
Sahariana, devono pagare un debito che supera la somma degli investimenti che
fanno per la salute e l’educazione.
Come
potranno andare avanti?
La
verità è che il Mercato, pure trionfante, non assicura alcuna ridistribuzione
equa della ricchezza, non prevede il futuro, non tiene conto dei danni ambientali,
ignora le generazioni future. In altre parole il Mercato è miope, e nonostante
i suoi lati positivi, non basta a risolvere i problemi.
La cooperazione è peraltro necessaria per la
pace. Non c’è pace dove non c’è sviluppo. Sviluppo e pace sono le due facce
della stessa medaglia.
Per
una persona che vive in un paese in via di sviluppo il rischio di morire in un
conflitto tra Stati è 3.3 volte minore del rischio di perdere la propria vita
per disattenzione sociale.
Dobbiamo,
inoltre, rafforzare la democrazia. Negli ultimi 15 anni, il numero di
democrazie è raddoppiato. Però si tratta di democrazie fragili. Devono essere
rafforzate e nutrite per essere durevoli.
Nuove
economie stanno emergendo, ma i loro mercati devono essere rafforzati.
Con
la “teologia del mercato” non abbiamo solo una fortissima competizione tra
aziende, ma anche una forte competizione tra Stati che cercano di attirare i
capitali internazionali dentro le proprie frontiere. Quello che stiamo vivendo
è un “aggiustamento strutturale” di dimensione mondiale nel quale si muovono
capitali, beni e persino persone. Questo sommovimento tira verso il basso le
società industrializzate che riducono le pensioni, le prestazioni sociali, il
costo del lavoro e così via.
Oggi
più che mai abbiamo bisogno di un intervento dello Stato per la ridistribuzione
delle ricchezze
E
di una cooperazione internazionale che non può limitarsi solo all’aiuto allo
sviluppo ma che deve comprendere il commercio, i flussi di capitali, la libera
circolazione delle persone, la tecnologia, l’ambiente, ecc…
E’
in questo quadro che si deve collocare la cooperazione decentrata.
Siamo
la prima generazione ad avere i mezzi e le capacità per eliminare la povertà.
Ma stiamo attenti. Se continueremo a gestire il mondo in modo antiquato e
inefficace, un giorno non molto lontano saremo chiamati a rispondere, non solo
davanti alla “storia”, ma anche davanti ai nostri figli, delle responsabilità
che ci saremo assunti nel non governare come si doveva le nostre società, per
mancanza di lungimiranza, coraggio e immaginazione.
Si
è speso per anni per la sicurezza e la difesa delle frontiere; oggi è venuto il
momento di spendere per la difesa e la sicurezza delle persone che stanno
dentro le frontiere. Le risorse per la difesa oggi vanno impiegate per
garantire la sicurezza umana, la sicurezza della gente nel suo posto di lavoro,
nella sua famiglia, nel suo quartiere, nel suo mondo. Questa è la vera
sicurezza che oggi dobbiamo difendere e su cui investire.
C’è
infine un ultimo punto che voglio toccare. Una questione che a me sembra ancora
più importante: i valori. Uno dopo l’altro, stiamo distruggendo tutti i valori
essenziali che hanno fondato le nostre società. I valori sono la cosa più
preziosa da preservare e coltivare. E invece qual è il messaggio che
trasmettiamo ai nostri figli e ai nostri nipoti? Con la “teologia del Mercato”
sembra reggere solo l’idea della competizione. Ma cosa siamo diventati? Delle
belve?
Regge
anche la teoria dell’accumulo delle ricchezze: se sono ricco sono qualcuno,
posso pretendere tante cose… Ma questo è il mio obiettivo nella vita?
Oggi
il mondo è cambiato. I bambini non nascono più come prima in una culla: nascono
in una televisione. Non crescono più in una famiglia: crescono davanti ad un
televisore. Da quando hanno 2,3,4 anni vedono tutto quello che succede nel
mondo, capiscono le cose. E cosa vedono? Dove c’è gente che muore di fame… si
usano le briciole del pranzo per intervenire. Si fa appello alla generosità
della gente. Si organizza Live Aid, Band Aid, vengono i vari Bob Geldof per
salvare la situazione. Poi succedono altre cose: si fa la guerra delle
Malvinas, la guerra del Golfo, si mobilitano gli eserciti, tutte le forze e i
mezzi degli Stati.
E
allora a questi bambini lanciamo un solo chiaro messaggio: laddove la vita
umana sta per morire, abbiamo il diritto di lasciarla morire. Ma se la vita
umana non è un valore, a maggior ragione può essere sfruttata, drogata, rubata,
stuprata, e così via.
E’
un fatto gravissimo. Non c’è società che regga senza i valori comuni che
cementano il patto sociale. Il riferimento a valori comuni e il conseguente
organizzarsi della società e della difesa di un popolo è quello che consente di
distinguere una comunità da una folla. E non c’è parola che non sia più forte
delle nostre azioni. Quello che facciamo parla molto più forte di quello che
diciamo.
Questa
contraddizione tra i valori che cerchiamo di trasmettere e il nostro modo di
gestire la società sta distruggendo la base della nostra società e gli stessi
valori. E’ questa forse la ragione più importante per cui abbiamo tutti questo
“dovere di cooperare”.
Ma
stiamo attenti. Il “dovere di cooperare” non si può rispettare con le briciole.
Ci sono solo due cose che misurano le priorità che abbiamo nella nostra vita
individuale come nell’azione delle istituzioni: il tempo e i soldi che
dedichiamo ad una cosa. Tutto il resto è puro sentimentalismo.
Per
preservare la sicurezza, espandere la prosperità, difendere la democrazia,
fermare il terrorismo, arrestare l’invasione della droga e la proliferazione
nucleare, preservare l’ambiente, rigenerare le risorse naturali e combattere la
disoccupazione dobbiamo fare degli investimenti che siano all’altezza delle
difficoltà che ci sono.
Un
patto internazionale di governo delle situazioni, e non delle istituzioni non
comincia con una manciata di quattrini. Ci vuole l’espressione di una volontà
politica e quindi di cospicui bilanci. E chi non vorrà pagare oggi, pagherà di
più domani.
Come
ricordava all’ONU un ambasciatore: “Non dimentichiamo mai che le Nazioni Unite,
concepite per evitare il ritorno della guerra, non sono nate da un sogno, ma da
un incubo”. Negli anni ’20 o ’30, il mondo ha perso varie occasioni di
organizzare la pace. Il risultato è stato: l’invasione della Manciuria, la conquista
dell’Etiopia, il tradimento di Monaco, gli orrori dell’Olocausto e le
distruzioni della seconda guerra mondiale. Stiamo attenti a non assumerci oggi
una simile responsabilità.