LA FORZA DELLA POLITICA

di VALENTINO PARLATO, Uno dei fondatori del Manifesto, di cui è stato anche direttore.

novembre 1998

In un saggio pubblicato sul mensile messicano Nexos, Jurgen Habermas afferma: "La globalizzazione economica è la sfida centrale per l'ordine politico e sociale dell'Europa nata dal dopoguerra. Una via d'uscita potrebbe derivare dal fatto che la forza regolatrice della politica segua l'evoluzione dei mercati che si sottraggono al controllo degli stati-nazione. O, al contrario, la mancanza di una diagnosi storica che faccia luce sui problemi del passato vuol dire che possiamo imparare soltanto dalle catastrofi?".

La globalizzazione è il mito dei nostri tempi, tanto più enfatizzato dalla retorica del fine secolo e fine millennio. Tutto si potrà produrre e consumare in qualsiasi luogo. Finalmente l'economia sarà a scala universale, i risparmi saranno enormi e produttività e produzione potranno crescere come non mai. Resterebbe il problema della redistribuzione, ma nell'ottica della globalizzazione questo diventa un problema secondario.

Rispetto a questo ottimismo, invero un po' panglossiano, Habermas ci dice tre cose sulle quali riflettere: 1) che la sfida è economica; 2) che è indispensabile "la forza regolatrice della politica"; 3) che bisogna ricordarsi del passato e analizzare se non vogliamo rimanere condannati a imparare solo dalle catastrofi.

La sfida economica proseguirà sui suoi tre elementi di prevedibile continuità. La crescita demografica, che nel 2030 dovrebbe portare la popolazione mondiale sui dieci miliardi di persone, cinque volte più che nel 1950. Se continuano le attuali tendenze, nello spazio di 30 anni i movimenti migratori produrranno una vera rivoluzione etnica di difficile governabilità.

Quanto alle altre due costanti, cioè l'aumento della produttività e il progresso scientifico e tecnico, si deve ritenere che esse continueranno, dando continuo impulso materiale alla globalizzazione, e anche alla riduzione del lavoro necessario. Ma ciò detto dobbiamo mettere in primo piano il carattere di sfida e non di crescita ordinata, non solo per i noti effetti della competizione, ma anche per la crescente finanziarizzazione e l'estrema instabilità degli investitori. A proposito della crisi asiatica, ma il discorso può estendersi anche all'Occidente, il governatore di Bankitalia ha affermato: "Sorprende, anche in questa crisi, la rapidità di mutamento di opinione degli investitori; rivela una formazione delle aspettative che sembra dipendere dagli andamenti soltanto di breve periodo delle variabili macroeconomiche e dagli atteggiamenti assunti da altri operatori. Il carattere estrapolativo delle aspettative esaspera le oscillazioni nei cambi e nei valori dei titoli". Anche questa è una novità e una differenza importante rispetto alla fine del secolo scorso quando, nelle diverse proporzioni, il grado di globalizzazione era quasi uguale a quello attuale. Allora erano pochi grandi finanzieri, in Europa la famiglia Rotschild, che operavano sui mercati finanziari e le loro opinioni erano molto meno instabili della miriade di attuali operatori, spesso digiuni di storia e geografia, ed estremamente sensibili alle minime oscillazioni dei mercati.

Insomma, quando si guarda alla globalizzazione come sfida economica, bisogna guardarsi assolutamente dall'economicismo, non solo nel senso che il mercato o i mercati non sono regolatori automatici, ma anche nel senso che sull'economia agisce sempre la politica, cioè le volontà, concordanti o in conflitto, degli uomini: non si può pensare l'economia del tutto indipendente dagli interessi di individui, gruppi o stati.

E opportunamente Habermas, di fronte alla sfida economica delle globalizzazione, fa appello alla "forza regolatrice della politica". Ma qual è il soggetto politico che regolerà i processi di globalizzazione? Certamente oggi gli Usa sono la superpotenza economica e militare con una forza regolatrice, ma sono ben lontani dall'essere il governo mondiale, tanto più che "in prospettiva - ricorda Antonio Fazio - tenderà a delinearsi ancora più nettamente la suddivisione del sistema monetario internazionale in tre grandi blocchi: quello del dollaro, quello dello yen e quello della moneta europea. Le valute minori tenderanno a raggrupparsi intorno, a riferirsi, alle tre di maggiore importanza". Questi tre poli monetari, in un'economia sempre più monetaria, sono già una prevedibile base di conflitto e tutto questo in un mondo liberato dal passato "equilibrio del terrore", dal bipolarismo Usa-Urss, che ha assicurato la disciplina all'interno di ciascuno dei due blocchi ed evitato una terza guerra mondiale guerreggiata, e non solo "fredda".

Per concludere su questo punto, occorre ribadire che non si può pensare ai processi di globalizzazione senza il bene e il male della politica, anzi delle politiche dei vari soggetti in campo, a cominciare dagli stati.

Per ultimo, Habermas ci richiama alla storia passata e alla sua analisi, e a questo proposito vorrei tornare a citare le conclusioni della Lettura per il Mulino tenuta da Tommaso Padoa Schioppa il 7 novembre del 1998 a Bologna. E vale ricordare che Padoa Schioppa, membro del Consiglio esecutivo della Banca centrale europea non è affatto un catastrofista anticapitalista. "Nel 1914 - ricorda Padoa Schioppa - l'Europa aveva alle spalle cent'anni di pace quasi ininterrotta, pareva unita; si circolava senza passaporto e il regime aureo dava un'unione monetaria. Allora, le persone che avevano la mia età pensavano che l'era delle guerre fosse finita, come lo pensano già oggi tanti trentenni. Chi ha visto, anche se da bambino piccolo, le case sventrate dai bombardamenti e i soldati tedeschi o americani nelle strade e nelle case sa che non è così.

"L'Unione europea è opera incompiuta. E il rischio più grande che essa corre è che le giovani generazioni non se ne rendano conto. Occorre allora che, nel mostrare ai giovani di oggi la lunga strada percorsa in cinquant'anni, si indichi l'incompiutezza dell'opera e ciò che a loro resta da fare. Perché essi non abbiano un amaro risveglio in un nuovo 1914".

Se una persona come Padoa Schioppa sente il dovere intellettuale e morale di evocare il fantasma del 1914 per l'Unione europea, un complesso di paesi civilizzati e ricchi che ha avuto l'insegnamento di due distruttive guerre mondiali, penso che qualche preoccupazione maggiore la si debba avere per questa decantata "globalizzazione".

Non è certamente senza significato che il primo dispiegarsi della globalizzazione si sia manifestato con la crisi asiatica e abbia investito duramente il Giappone, al punto da indurlo, mentre l'apologia del neoliberalismo persiste, a nazionalizzare alcune banche. E questa nazionalizzazione prova ad un tempo la crisi del neoliberalismo, trionfante ai tempi di Reagan, e il ritorno del primato della politica sull'economia: che cos'è se non politica la nazionalizzazione di una banca e che cos'è se non politica il piano di intervento del governo giapponese per rilanciare la domanda interna, che rimane sorda anche a tassi di interesse pari allo zero? Il governo giapponese interviene per difendere i giapponesi e la sua economia. Non rimane inerte davanti alla globalizzazione, così come non rimarranno inerti altri stati colpiti dai suoi effetti.

Quando Marcello De Cecco, nel suo L'oro di Europa (Donzelli, 1998), scrive: "Non è eccessivamente pessimistico ritenere che solo qualche grande produttore europeo potrà sopravvivere alla concorrenza americana, che conosce benissimo le modalità operative di un grande mercato unico per averlo prima sperimentato in patria e poi nella propria espansione a livello globale", è inevitabile chiedersi come reagiranno i produttori europei e gli stati ai quali quei produttori appartengono. È difficile pensare che il mercato sarà un pacifico campo di gioco, dove chi perde stringerà sportivamente la mano al vincitore. Ogni giorno la stampa, economica e non, dà notizia di fusioni e incorporazioni e la memoria dei più vecchi torna inevitabilmente a L'imperialismo di Lenin (Editori Riuniti) e a Il capitale finanziario di Hilferding (Feltrinelli). E il ricordo non è incoraggiante.

Vorrei concludere con una, un po' lunga, citazione di Giovanni Arrighi, tratta da un breve libro che consiglio a tutti, L'economia mondiale del '900 di Pierluigi Ciocca (Il Mulino, 1998). Con riferimento al presente, Arrighi scrive: "L'instabilità sistemica è esacerbata dalla tendenza della potenza egemone in declino a trasformare la propria primazìa in un dominio di sfruttamento. Grazie alla propria centralità nelle reti mondiali del potere e dell'accumulazione, la potenza egemone in declino (la Gran Bretagna dell'epoca eduardiana, gli Stati Uniti nell'epoca di Reagan) può facilmente approfittare della competizione tra gli stati per i flussi del capitale, che stimola l'espansione finanziaria. In questa maniera, tuttavia, essa attiva sfide alla propria posizione dominante, che diventano sempre più costose e difficili da fronteggiare.

"È stata questa congiunzione di cause che ha bruscamente condotto alla fine della Belle Epoque eduardiana nell'Epoca della Catastrofe. L'insensatezza con cui i ricchi stati occidentali sotto la guida degli Stati Uniti perseguono politiche che tendono ad esacerbare piuttosto che a mitigare, la 'contraddizione cruciale irrisolta… tra le potenzialità di accrescere le risorse e la sperequazione nel distribuirle, tra spreco di risorse e bisogni insoddisfatti', ci rende scettici sulla possibilità che l'attuale Belle Epoque non finisca presto (diciamo entro i prossimi 10-15 anni) in una nuova epoca di caos. Le voci sensibili, come quella di Ciocca, sono rare; troppo poco numerose per essere ascoltate e per evitare la catastrofe immanente. Sono d'accordo con la conclusione di Charles Kindleberger, secondo il quale 'l'economia mondiale va verso una fase di disordine già all'inizio del prossimo secolo". È il secolo che sta per cominciare, che è già cominciato.