DOPO IL WELFARE STATE, IL MITO DEL SOCIALE LIBERATO

di OTA DE LEONARDIS, Insegna Sociologia delle organizzazioni all'Università degli Studi di Milano. Autrice, fra l'altro, di In un diverso welfare. Sogni e incubi, Feltrinelli, 1998, e L'impresa sociale, Anabasi, 1994.

novembre 1998

Sembra che sia stata finalmente trovata una ricetta per costruire un nuovo welfare che va oltre sia la soluzione più o meno autoritaria della "società totalmente amministrata" (di stampo collettivista, ma anche socialdemocratico) sia la messa in liquidazione degli istituti di protezione sociale ad opera dell'ondata neoliberista. Questa ricetta consiste essenzialmente nel combinare insieme le prerogative dello stato, le capacità d'iniziativa del mercato e il sociale virtuoso del terzo settore. I welfare mix sono al centro del dibattito scientifico internazionale sul welfare, e orientano le politiche sociali in diversi regimi di welfare nazionale (compresi quelli deboli dei contesti più o meno deprivati del Sud del mondo) perché promettono di superare le storiche inefficienze degli apparati convenzionali di welfare, contrastando al tempo stesso i problemi sociali emergenti, anzitutto quello della disoccupazione di massa.

Un nuovo welfare?

Su questa ricetta sembrano tutti d'accordo. In estrema sintesi, consiste in questo. Anzitutto, lo stato, impoverito e inadeguato, deve ritirarsi dalla gestione diretta dei servizi e svolgere funzioni di indirizzo e controllo (via finanziamenti). In secondo luogo lo spazio così liberato viene occupato da iniziative della società civile, di mercato o solidali, con il compito di sviluppare l'offerta di servizi sociali. È per l'appunto lo spazio del cosiddetto terzo settore, che promette di combinare insieme le risorse di solidarietà e volontariato con i criteri di efficienza, libertà di scelta e concorrenza del mercato. Infine, la potenzialità economica del settore dei servizi alla persona così configurato promette di rispondere in misura consistente anche al problema della disoccupazione, essendo questo un settore tipicamente labour intensive. Sembra dunque profilarsi una sorta di quadratura del cerchio nel quale la domanda e l'offerta di interventi sociali s'incontrano nel mercato sociale, così che i problemi sociali vengono affrontati insieme con - e grazie a - i problemi occupazionali: là dove alcuni trovano un programma di riabilitazione lavorativa altri trovano un posto di formatori; e la disoccupazione si combatte con i lavori socialmente utili.

Sono tutti d'accordo, dicevo. Anche troppo. C'è intanto un fastidioso sapore di retorica nei discorsi correnti sull'argomento, infarciti di richiami al volontariato, alla solidarietà, al socialmente utile, all'assenza di scopi di lucro, alla finanza etica, e così via. Sono tutti quanti impegnati a sottolineare le virtù della società civile, poco importa se nella versione dell'iniziativa privata o in quella del sociale liberato: sono sfumature. E c'è qualcosa che non va se, immersi in questa melassa, troviamo la Cgil d'accordo con la Compagnia delle Opere, il governatore Fazio con la cooperativa Taldeitali di "lotta all'esclusione sociale" - e le grandi centrali cooperative ridotte a misurare le loro differenze sulla competizione per la spartizione delle quote di questo "mercato sociale".

Ma se riusciamo a mettere la testa fuori da questa melassa possiamo vedere che questa combinazione di stato, mercato e terzo settore può imboccare diverse direzioni di sviluppo. E che, per la verità, la direzione che sembra prevalere, per lo meno in Italia, è molto rischiosa. Un rischio, come dirò, che va misurato non tanto sul destino delle fasce deboli della popolazione (le quali forse, nell'Occidente avanzato, un po' di beneficenza e qualche nicchia di lavoro precario e sottopagato potrebbero finire per trovarcele) ma sulla dispersione di alcune qualità di base della convivenza civile che chiamano in causa la democrazia.

 

Il fai-da-te mercantile o solidale

Guardiamo più da vicino, per cominciare, al terzo settore che si presenta come l'elemento propulsivo e innovativo della ricetta in questione, il crogiuolo di costruzione della welfare society. Esso poggia sulla valorizzazione di legami interpersonali orizzontali (di contro alle forme di coordinamento impersonali e gerarchiche della burocrazia) e sulle virtù morali dell'impegno "pro-sociale" che vi si esplicano (di contro alle logiche dell'interesse e dell'opportunismo propri del mercato).

Mi limito a brevi flashes tendenziosi sui tre cardini del discorso corrente in materia: il volontariato, la solidarietà, il nonprofit.

Il volontariato: è buono per definizione... ma se viene osservato più da vicino risulta essere un fenomeno eterogeneo e contraddittorio in cui confluiscono vecchie tradizioni caritative e nuove forme di militanza, iniziative dal basso più o meno precarie e grandi apparati burocratici, buone intenzioni e forme mascherate di lavoro servile. Tutto dipende dall'articolazione organizzativa che traduce le risorse del volontariato, poiché esso potrebbe anche risolversi in espressione di "buona coscienza della cattiva società".

Altrettanto la solidarietà, un richiamo d'obbligo in fatto di welfare: "cooperative di solidarietà", "economia solidale", "concorrenza della solidarietà", "contratti di solidarietà", "solidarietà fiscale"... Ma lungo questo percorso, e in particolare nei discorsi sul terzo settore, la nozione di solidarietà subisce uno slittamento semantico: da sinonimo di corresponsabilità nei confronti del legame sociale essa tende a diventare una virtù morale, sinonimo di altruismo e di disponibilità nei confronti del prossimo, come tale appartenente alla coscienza privata dei singoli. Essa assume insomma un connotato oblativo, diventa un fatto di coscienza che opera in sostituzione - se non in opposizione - al "cemento" della società costituito di norme e istituzioni, diritti e doveri che sono oggetto di deliberazione pubblica. Questo slittamento semantico della nozione di solidarietà va di pari passo con la centralità che, dopo cinquant'anni di culture dei diritti e della cittadinanza, torna ad avere la figura del povero. Costui è l'altro per eccellenza di questa solidarietà oblativa, oggetto e strumento della coscienza personale; e così diseguaglianze e diritti negati restano rinchiusi nella cerchia privatizzata di relazioni personali, senza più riferimento a questioni di poteri e di fini, che sono materia di discorso, conflitto e scelta pubblica. Inoltre, le relazioni di solidarietà così concepite ricordano i discorsi di Marcel Mauss sul dono: se non vi è reciprocazione il "donare equivale a dimostrare la propria superiorità", e accettare senza ricambiare "equivale a subordinarsi, a diventare cliente o servo, farsi più piccolo, cadere più in basso". Non basta evocare la reciprocità nelle relazioni di servizio, se non viene tematizzata e smontata praticamente l'asimmetria di potere tra chi dà e chi riceve aiuto, tra chi entra in relazione perché ha un problema più o meno grave e urgente e chi ha il potere di definirlo e trattarlo. Anzi, il discorso corrente sulla solidarietà, e le pratiche che ad essa si rifanno, mascherano invece di svelare questa asimmetria di potere, innescando una sostituzione dei legami paternalistici di dipendenza dallo stato e dall'assistenza pubblica con legami di debito e sudditanza personale. La stessa nozione di solidarietà fiscale diventa, in questa costellazione di significati, quanto meno ambigua. L'interpretazione del prelievo fiscale in termini di solidarietà sembra significare che in esso, e nel principio redistributivo che lo guida, è in gioco più che un obbligo istituzionalmente sancito e condiviso per rispettare un patto sociale, un dovere morale che il singolo può decidere o meno di seguire. Se di solidarietà si tratta essa potrebbe essere fungibilmente affiancata o sostituita dai gesti oblativi del volontariato e della donazione.

E guardiamo infine all'assenza di scopi di lucro, un altro cardine del terzo settore, che si concretizza nella diffusione del modello organizzativo del nonprofit. Come sappiamo, il nonprofit designa quelle imprese economiche private nelle quali non è ammessa per statuto la distribuzione degli utili ai propri associati. L'apprezzamento generale di cui gode questa formula ha una duplice motivazione: da un lato, l'impresa nonprofit promette di impiegare nell'attività economica le risorse morali della solidarietà e del volontariato; dall'altro - in mancanza della motivazione del profitto - può essere orientata all'utilità sociale, alla produzione di beni e servizi d'interesse generale. Che poi questo avvenga davvero non è detto: la pubblica utilità, la coerenza con gli interessi generali, la responsabilità pubblica delle imprese nonprofit dipendono largamente dalle modalità concrete con cui esse operano. E il quadro, sotto questo profilo, è quanto meno variegato. Ci sono casi nei quali dietro uno statuto nonprofit di facciata si danno vere e proprie holding finanziarie, opache negli usi degli utili, nella qualità delle prestazioni offerte, nel regime fiscale e nelle relazioni di lavoro. Ma questi li possiamo anche considerare marginali. Il vero nodo consiste nel fatto che, anche con le migliori intenzioni, tende ad instaurarsi quella logica d'impresa per la quale il successo economico, l'estensione della propria area di mercato - o quanto meno la sopravvivenza - diventano il criterio esclusivo delle scelte e delle azioni, a scapito della "mission" sociale dichiarata. Si fa impresa sul sociale, e se ne espande il raggio d'azione sui bisogni e i problemi sociali.

Stato manageriale

Esaminiamo ora, molto brevemente, l'altro perno dell'impalcatura istituzionale su cui poggia la ricetta: le trasformazioni dello stato e del suo ruolo nelle politiche sociali. Come dicevo, lo stato si ritrae da funzioni di erogazione per mantenere funzioni di finanziamento attraverso cui indirizzare gli interventi sociali. Questo cambiamento traduce in quest'ambito una trasformazione più generale, sintetizzabile nel passaggio dall'amministrazione burocratica al management pubblico. Si tratta di un passaggio importante: il riconoscimento di una responsabilità finanziaria dell'amministrazione pubblica può costituire un importante terreno su cui non soltanto imparare a controllare i costi, ma anche assumere responsabilità rispetto ai risultati. Le voci di bilancio possono costituire un terreno di tematizzazione degli obiettivi e delle responsabilità pubbliche. Ma più spesso, questa managerializzazione dello stato ha un impatto problematico (1): induce una riduzione delle scelte politiche a scelte tecniche, sottratte alla visibilità e alla discussione pubblica; generalizza una cultura del contratto, dello scambio economico tra attori privati, che nei risultati apprezza soprattutto il successo economico, e induce relazioni strumentali; e il bilancio rischia di diventare un feticcio a guardia degli imperativi al risparmio sui costi, così che gli obiettivi delle prestazioni sociali vengono subordinati agli imperativi della gestione finanziaria.

Partnership

Infine, bisogna mettere sotto osservazione che cosa accade nelle interazioni tra lo stato così configurato e le organizzazioni del terzo settore. In proposito si parla molto di partnership, ma a questa accattivante nozione corrispondono spesso relazioni e pratiche non proprio edificanti. Spesso il contratto tra ente pubblico finanziatore e organizzazione nonprofit si riduce ad un appalto per la fornitura di servizi il cui unico criterio di selezione è il contenimento dei costi. Ancora più spesso questo avviene nel contesto di competizioni sorde per l'"accreditamento" e la conquista dei finanziamenti, in cui non c'è traccia di cooperazione. Tendono insomma ad instaurarsi relazioni di tipo strumentale reciproco, in cui l'ente pubblico si accontenta di risparmiare e l'organizzazione privata di assicurarsi la sua quota di finanziamenti per sopravvivere o espandersi: con esiti di reciproca deresponsabilizzazione nei confronti di quei problemi e beni comuni, pubblici, che si dovrebbe con queste partnership contribuire a curare. Anche il conflitto politico sui fini si riduce nei termini della competizione economica sui mezzi. E le forme di aggregazione seguono la stessa logica: per esempio i consorzi, che aggregano le realtà del terzo settore, sono spesso di fatto aggregazioni d'interessi, strumenti per pesare di più nel quasi-mercato dei finanziamenti pubblici, lobbies.

La sindrome del privatismo e la questione pubblica

Insomma, questi fenomeni concorrono a delineare una tendenza alla "privatizzazione del sociale", alla riduzione delle materie sociali a questioni di scelte, azioni, interessi, relazioni e virtù morali private. Intendiamoci, questa è una tendenza, molto presente e diffusa, ma non è l'unica. Non sto cioè negando la presenza - nell'arcipelago del terzo settore, nel management pubblico, nello stesso ruolo sociale delle imprese - di organizzazioni e pratiche di segno diverso. Conosco per esempio organizzazioni di "lotta all'esclusione attraverso l'iniziativa economica" che praticano quotidianamente la ricostituzione di diritti di cittadinanza; conosco esperienze d'impresa sociale orientate non a fare affari sul sociale (o a restarvi a galla) ma a generarlo, a moltiplicarlo, a curare la qualità dell'habitat sociale condiviso; ci sono politiche locali, per esempio nel campo della rigenerazione di quartieri degradati, in cui le partnership funzionano da contesti di mutuo apprendimento alla gestione della cosa pubblica; e ci sono iniziative della società civile che, come dice J. L. Laville, si muovono in modo da creare "spazi pubblici di prossimità" (2).

Ma bisogna dire che tutto ciò non gode di grande visibilità e credito nelle retoriche correnti che argomentano le virtù della ricetta. In questo senso, si potrebbe dire, nella ricetta manca un ingrediente decisivo: il sale della politica, intesa come vita pubblica, come quella sfera nella quale si dispiegano discussioni, contraddizioni e conflitti su problemi e soluzioni che interessano la collettività, e nella quale attori, beni e pratiche sociali assumono uno statuto pubblico. Senza questo ingrediente, viene a cadere quel medium attraverso il quale si alimenta, e si rende visibile, il legame tra condizioni di vita del singolo e scelte collettive.

In Italia, forse, questo rischio è reso più insidioso dal fatto che nel campo del welfare, e in particolare nel terzo settore, confluiscono sia concezioni strumentali dello stato e delle istituzioni diffuse nella sinistra, ivi compresi i miti spontaneisti del sociale liberato, sia le culture antiistituzionali e privatistiche della tradizione cattolica nostrana. Ma il problema è più generale.

Per riconoscere la portata della "questione pubblica" in gioco in queste trasformazioni del welfare bisogna voltarsi indietro a osservare ancora per un momento il significato strategico dello sviluppo storico del welfare state. Esso va misurato non sul registro dei miglioramenti nelle condizioni di vita bensì su quello dell'allargamento della democrazia, della molteplicità di attori e di temi che esso ha immesso nella vita pubblica. Benché questo sia noto, è bene ricordarlo ora. Il welfare state è nato e si è sviluppato nell'alveo dello stato di diritto e dell'equazione ad esso intrinseca tra pubblico e statuale. L'assunzione di competenze e responsabilità dello stato nelle materie sociali ha rappresentato un potente veicolo per riconoscere il carattere pubblico, collettivo, di beni e problemi comuni, a queste materie. Lo stato si è fatto garante di alcuni beni di base per il benessere della società e dei suoi singoli beni, ed ha così consentito di riconoscere che si tratta di beni non privati bensì pubblici, attinenti alla qualità sociale della vita, materie di discussione e scelta pubblica, collettiva. Grazie a questo ruolo dello stato tali materie sono infatti diventate terreno di discussioni, scelte, responsabilità, azioni e conflitti sociali, pubblici. E il passaggio di queste materie dalla dimensione privata a quella pubblica è avvenuto attraverso processi sociali, non (soltanto) decisioni politiche e atti amministrativi; e come tale ha alimentato la vita quotidiana della sfera pubblica. Come dicono per esempio Nancy Fraser e Iris Young (3), nella costruzione del welfare non si trattava semplicemente di bisogni da soddisfare o di diritti da riconoscere: si trattava bensì di dispiegare il discorso sui bisogni e sui diritti, la molteplicità delle voci e dei vocabolari in proposito, lo spazio dei conflitti e della partecipazione alla loro definizione.

È dunque questo potenziamento della vita pubblica e della stessa democrazia, questa discussione e costruzione ininterrotta di un patto sociale (non il patto sociale in sé) che costituisce l'eredità storica più importante di tutte le esperienze nazionali di welfare. Un'eredità difficile, che si deve misurare anzitutto sul superamento dell'equazione tra pubblico e statuale che ne era alla base; un'eredità che rischia per l'appunto di venire dispersa nelle retoriche e nelle pratiche del nuovo welfare che nell'enfasi sulle capacità di autorganizzazione della società mancano di tematizzare la questione pubblica sottesa.

Certo, la messa a regime degli apparati di welfare ha fatto rifluire quei processi sociali, dando luogo ai noti fenomeni dell'assistenzialismo, dell'orientamento normalizzatore, del paternalismo e della passività; e ha indotto quello che Habermas ha definito il "ritiro privatistico della cittadinanza". Ma è proprio quest'ultimo che rischia di esser rafforzato e non contrastato da quelle tendenze che si delineano nel nuovo welfare.

Come ho già accennato, problemi e beni trattati negli interventi sociali tendono a perdere lo statuto pubblico di beni e problemi comuni, diventando materia di scelte e azioni private. Questo accade sia quando le relazioni di servizio vengono interpretate e praticate nella logica della domanda e dell'offerta, in cui il cittadino è ridotto a consumatore, sovrano soltanto nelle sue scelte di consumo; sia quando esse sono interpretate e praticate come ambiti di esercizio di virtù private, di buoni sentimenti nei rapporti sociali - come tali ridotti a rapporti personali: in essi s'instaurano legami di sudditanza personale che sostituiscono il riconoscimento di autorità condivise, come tali sottoponibili a comunicazione, critica, deliberazione e mutamento. In queste due versioni complementari della "privatizzazione del sociale" c'è traccia di quelle forme di "amministrazione domestica" che Hanna Arendt associava alla "crescita del sociale", e alla complementare elisione della politica, della vita pubblica.

Immediatezza e mediazione

Ma su un punto soprattutto vorrei attirare l'attenzione. In questa celebrazione del fai-da-te della società civile, mercantile o solidale, dobbiamo riconoscere anche l'attrazione per l'immediatezza, la tentazione di rimuovere il requisito societario fondamentale della mediazione: quello spazio che consente la traduzione nei due sensi tra individuale e collettivo, e che media la comunicazione e lo scambio tra estranei, il riconoscimento dell'"altro generalizzato". Se viene meno questo livello il legame sociale, la dimensione intersoggettiva della vita sociale, viene ridotta ai rapporti personali (in cui poi prosperano, insieme ai buoni sentimenti, le logiche amico-nemico, i nuovi tribalismi, le coartazioni comunitarie, e le lacerazioni del legame sociale...).

Io credo che questo sia il nodo di fondo che si addensa nella questione del welfare, e che evidenzia la rilevanza più generale della configurazione che quest'ultimo assumerà. L'attrazione dell'immediatezza è infatti un rischio strategico intrinseco alla centralità che va assumendo la dimensione relazionale in quella cosiddetta network society che si profila all'orizzonte dei processi di globalizzazione (4). Proviamo ad evocarne qualche aspetto. La stessa nuova economia globalizzata si gioca oggi su beni relazionali, comunicativi, cognitivi e simbolici, sulla capacità di generare e costruire relazioni: ma mentre sfuma la mediazione dell'oggetto, dell'oggettività dei beni, vengono meno anche quegli ancoraggi che tenevano a bada il potenziale distruttivo (e autodistruttivo) intrinseco alla crescita economica capitalistica; la forma organizzativa del servizio è il modello di organizzazione sociale emergente, il moltiplicatore di relazioni sociali: ma esso si potrebbe tradurre nella cosiddetta macdonaldizzazione della società; la dimensione relazionale enfatizza l'orizzontalità, di contro alla gerarchia che mediava le relazioni rendendo riconoscibili questioni di potere: ma questa estensione in orizzontale ricorda le immagini di Flatlandia, in cui diventano invisibili, e incontrollabili, poteri verticali potenzialmente immensi; la dimensione relazionale si regge sulla comunicazione globale, e sul mito della trasparenza comunicativa: ma in essa crescono i monopoli dei codici, il potere dei saperi esperti che controllano il capitale simbolico e neutralizzano i conflitti su di esso...

Questi naturalmente sono solo alcuni spunti: ma questa configurazione relazionale della società (e dell'economia) lascia intendere che nell'attuale riorganizzazione del welfare una scommessa decisiva si gioca per l'appunto attorno alla tentazione dell'immediatezza, al dispiegarsi irriflesso del gioco del relazionale. Come abbiamo visto, nel nuovo welfare è presente e forte una tendenza a diffondere e radicare questa tentazione nel tessuto della vita sociale quotidiana, magari in veste di liberazione del sociale. Credo viceversa che bisognerebbe prestare attenzione ai modi in cui questo sociale può trovarvi spazi di mediazione, nei quali riuscire a vedere e tematizzare questioni di poteri, di fini, di scelte collettive: arene pubbliche, spazi quotidiani della politica in cui continuare a discutere di quale società vogliamo e costruiamo. Dopotutto sappiamo bene che la democrazia è mediata oppure non è (ovvero in termini più astratti: il legame sociale è costitutivamente artificiale). E poiché il dispiegarsi relazionale e orizzontale della socialità rende insufficiente il ricorso alla tradizionale funzione di terzo dello stato (5) dobbiamo orientare le pratiche e le elaborazioni, proprio nel campo del welfare, alla invenzione e costruzione di istituzioni: istituzioni che valorizzino questo tessuto relazionale e lo traducano in spazio della politica e patrimonio della democrazia. In questa direzione non partiamo da zero e possiamo imparare molto da pratiche già in atto: ma lavorare su questo richiederebbe per lo meno lo spazio di un altro articolo (6).



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(1) V. J. Clarke & J. Newman sul caso inglese indubbiamente il più avanzato su questa strada (The Managerial state, London, Sage, 1997).

(2) J.L.Laville, L'economie solidaire. Une perspective internationale, Paris, Desclée de Brouver, 1994.

(3) N. Fraser, Talking about Needs: Interpretive Contexts as Political Conflicts in Welfare-State Societies, in Feminism and Political theory, ed. by C. Sinstein, Chicago, Chicago University Press, 1989; I. Young, Le politiche della differenza, Milano, Feltrinelli, 1996. Ma naturalmente questa chiave interpretativa è riconoscibile anche nelle molte ed eterogenee tematizzazioni sul Welfare state in termini di "patto sociale".

(4) La nozione di network society è di M.Castels, ma le sue caratteristiche sono analizzate da una letteratura ampia ed eterogenea.

(5) Lodevole, ma inadeguato, è il recente ripescaggio dello stato da parte di diversi organismi internazionali, come per es. la World Bank nel suo rapporto del '97.

(6) Ho sviluppato le tesi sostenute in questo articolo, anche con altri argomenti qui nemmeno accennati, nel mio libro, In un diverso welfare. Sogni e incubi, Milano, Feltrinelli, 1998.