BANCHE E POTERE. LA LOTTIZZAZIONE NON MUORE MAI

di ROBERTO TESI

novembre 1998

Tutto il potere alle banche? Sembra proprio di sì: la banca come soggetto di pura intermediazione finanziaria (raccolta denaro e prestiti ai clienti) è sempre più un ricordo del passato. Oggi le banche controllano (e sono controllate) dalle grandi imprese, svolgono sempre più di frequente funzioni assicurative, gestiscono Fondi d'investimento ecc. E assumono dimensioni sempre più grandi e globalizzate: l'ultimo colpo l'ha portato la Deutsche Bank. Domenica 29 novembre il consiglio di sorveglianza della banca tedesca ha annunciato un'offerta d'acquisto da 10,1 miliardi di dollari (circa 17 mila miliardi di lire) per rilevare la Bankers Trust, l'ottavo gruppo bancario statunitense. Una nuova conferma che il mondo bancario internazionale procede lungo la strada delle integrazioni per la creazione di mega colossi che trascende i confini nazionali. E le banche italiane che fanno?

Da alcuni anni si stanno muovendo e, anche se la dimensione media dei principali gruppi creditizi è ancora modesta rispetto a quella dei concorrenti mondiali, la tendenza appare irreversibile: forte concentrazione, creazione di poli, alleanze internazionali, anche con il sistema assicurativo che tende a legarsi sempre più strettamente a quello bancario. Non a caso si parla, con orribile neologismo, di bancassurance perché è nelle banche che ormai sono venduti la maggior parte dei prodotti assicurativi. E con il crescere della diffusione delle assicurazioni private, aumenta la voglia dello smantellamento della struttura assicurativa pubblica (la battaglia contro la previdenza pubblica a favore della previdenza privata non è casuale). E il tutto ruota attorno a tre-quattro grandi gruppi bancari, spesso in lotta tra loro, ma fortemente intrecciati negli interessi e negli assetti proprietari (anche se con quote a volte risibili).

Per molti anni il sistema bancario italiano è stato un'anomalia a livello mondiale: con la riforma bancaria del 1936 e la nascita dell'Iri, si creò (non per libera scelta del fascismo, ma come conseguenza del tracollo del capitale finanziario privato, come ci ha insegnato Pietro Grifone nelle sue splendide lezioni dal carcere) a una struttura di banche pubbliche che controllava oltre il 90 per cento dell'attività creditizia. Con le riforme degli anni '30 si stabilì anche la separazione tra credito ordinario e credito speciale; tra attività di merchant bank e quella di banca commerciale.

Un sistema pubblico diffuso, ma al tempo stesso anomalo: inquinato dai rapporti politici con il potere. Anzi il potere politico rappresentato dalla Dc (nel cui simbolo - lo scudo crociato - Franco Evangelisti, braccio destro di Andreotti, avrebbe voluto inserire anche il simbolo delle casse di risparmio). Un sistema pubblico travagliato da scandali, ai quali non rimaneva estraneo il piccolo sistema bancario privato, come testimoniano le vicende di Calvi e Sindona. Un sistema nel quale accanto ad oasi di "autonomia" dal potere politico (ma non da quello economico, come nel caso di Comit e Credit) le banche erano gestite con criteri unicamente politici, visto che i vertici bancari erano nominati direttamente dalla Dc che lasciava poche briciole agli alleati (i più combattivi erano i socialisti di Craxi).

Poi, qualcosa ha iniziato a muoversi, ma l'anomalia italiana resta: il sistema bancario italiano seguita a essere una strana galassia, nella quale la proprietà apparentemente rimane pubblica (le Fondazioni bancarie che controllano ancora larga parte delle principali banche). Ma si tratta di una proprietà oscura, nella quale vige il principio della cooptazione, ciò in un potere autogestito e protetto da possibili "interferenze" esterne.

Oltre all'eccessiva politicizzazione, la caratteristica principale del sistema bancario italiano è da sempre stata quella della frammentazione, la polverizzazione dell'attività in una miriade di banche. Accanto ai costi politici, quindi, sulle banche (meglio sarebbe dire, sui cittadini) si sono scaricati i costi di una rete creditizia inefficiente nella quale la libertà di credito non si è mai accompagnata a efficienza e riduzione dei costi. Un sistema bancario chiuso in tutti i sensi: chiuso verso l'esterno (grazie alla difficoltà per le banche estere di aprire sportelli in Italia), chiuso verso le esigenze di chi necessitava di credito. Chiuso all'innovazione, in quanto gli alti differenziali tra tassi attivi (quelli che le banche si fanno pagare per i prestiti concessi) e tassi passivi (quelli pagati dalle banche sui depositi) in un quadro generale di alta inflazione, garantiva alle banche ampi margini di sopravvivenza; e soprattutto consentivano di scaricare sulla collettività i costi dei crediti in sofferenza, delle situazioni incagliate frutto della politica clientelare di concessione del credito.

Il problema evidente (da una ventina d'anni) era che un sistema così fatto doveva essere scardinato, sottratto in primo luogo al controllo politico. Questo era chiaro anche a Guido Carli che parlò per primo della necessità di privatizzazioni, non tanto perché non credesse al ruolo della banca pubblica, ma in quanto convinto che la degenerazione del pubblico poteva essere eliminata solo riconsegnando le banche al loro ruolo, in un'ottica di controllo da parte dei privati del capitale bancario (anche se non bisogna dimenticare che Carli negli anni '70 propose di trasformare i debiti delle imprese verso le banche in capitale di rischio delle banche nelle imprese).

A premere per una razionalizzazione del sistema bancario era anche Bankitalia che sollecitava - facendo leva sulla sua moral suasion - concentrazioni per accrescere le dimensioni del frantumato sistema creditizio. Negli ultimi anni di concentrazioni ne sono state realizzate molte, ma il tutto appare ancora insufficiente. La vera novità si ebbe nel 1990: una legge da tutti conosciuta come "legge Amato" che favoriva la trasformazione in società per azioni degli istituti pubblici e che faceva cadere la tradizionale distinzione tra istituti di credito di diritto pubblico (in totale sei, tra i quali San Paolo di Torino e Banca Nazionale del lavoro); banche di interesse nazionale (le Bin, Credit, Comit e Banco di Roma, passate nel '33 sotto il controllo del'Iri); le casse di risparmio (un centinaio) e le banche di credito ordinario (le poche private presenti sul mercato).

A seguito della trasformazione in Spa, si realizzò una separazione tra proprietà delle banche e gestione dell'attività bancaria e si posero le basi per procedere a privatizzazioni e dismissioni del sistema bancario.

È a questo punto che inizia il balletto tra fautori del "nocciolo duro" e quelli della public company. In altre parole, tra chi credeva che le privatizzazioni dovessero essere una occasione per favorire l'ingresso di un'ampia platea di sottoscrittori (lasciando poi al mercato il compito di creare alleanze) e chi giudicava necessario che in ogni caso il controllo delle banche privatizzate rimanesse fin dall'inizio a un gruppo di controllo il quale avrebbe dovuto pagare un "premio di maggioranza" per esercitare tale diritto.

I primi scontri (pubblici) sono del 1993, quando si comincia a parlare della privatizzazione della Banca commerciale italiana e del Credito italiano (già quotate in borsa e controllate dall'Iri). Lo scontro è soprattutto tra Romano Prodi (tornato alla presidenza dell'Iri) ed Enrico Cuccia (presidente onorario di Mediobanca). Cuccia il 3 luglio del '93 scrive a Prodi e chiede per Credit e Comit (azionisti di Mediobanca) la crezione di " un noyau dur che dovrebbe controllare tra il 15 e il 20 per cento del capitale", cioè l'acquisto a prezzi stracciati del controllo delle due banche. E anche che il collocamento al pubblico delle restanti azioni sia accompagnato da un aumento di capitale "per rafforzare la struttura patrimoniale delle banche" fortemente penalizzata dalle vicende Ferruzzi, Federconsorzi, Efim.

Prodi, il 6 agosto, risponde picche alla proposta di Cuccia: il prezzo stracciato "può essere giustificato soltanto se tale vendita è fatta a un grandissimo numero di piccoli azionisti". È la teoria dell'underpricing per favorire la nascita di public company. Insomma, il nocciolo duro va bene, ma chi acquisisce il controllo di una società privatizzata deve pagare la posizione di privilegio.

Nuova lettera (il 20 agosto) di Cuccia a Prodi "mi rendo conto che i nostri punti di vista sono alquanto diversi. (…) Io sono convinto che l'Iri debba farsi carico di arricchire il mercato di imprese valide, che non riservino sorprese amare ai risparmiatori". Teoricamente la spunta Prodi (sono posti limiti al possesso azionario) ma Cuccia in gran segreto lavora per acchiappare Credit e Comit grazie ad alleanze tra grossi investitori a lui fedeli. Cominciano a circolare voci di scalate occulte a Comit e Credit. E questo contraddice quanto riferito a fine ottobre in parlamento dal presidente del consiglio Ciampi "la formazione di un nocciolo duro può assicurare stabilità di conduzione, ma può anche attribuire a chi ne sia partecipe, una posizione di relativa forza non acquisita sul mercato". Insomma Ciampi ripete che chi aspira al controllo deve pagare un sovrapprezzo.

La prima a essere privatizzata è il Credito italiano: l'Iri cede il 67% del capitale della banca in suo possesso; per gli acquirenti un limite preciso: non più del 3 per cento del capitale. Ma il limite (che avrebbe dovuto difendere il Credit dalle aggressioni) si dimostra una linea Maginot: Cuccia, infatti, mette insieme un gruppo di amici (o meglio, sudditi) che di fatto si impadroniscono con un limitato investimento (dalla privatizzazione l'Iri ricava meno di duemila miliardi, vista la politica di underpricing) della banca di Piazza Cordusio. Tra gli alleati spiccano la tedesca Allianz (in Italia controlla la Ras), Giampiero Pesenti (che allora era presidente di Gemina) e la Commercial Union. Credit è uno dei controllori di Mediobanca, ma Cuccia e Mediobanca controllano il Credit. Nessuno ha dubbi. Pochi mesi dopo la privatizzazione Credit lancia un aumento di capitale da 1.500 miliardi. Con i soldi ricavati lancia un'offerta di pubblico acquisto del Credito Romagnolo (il Rolo, una banca che assume questa denominazione nel 1996, dopo la fusione tra il Credito Romagnolo e la Carimonte Banca). L'offerta vale 3.700 miliardi, quasi il doppio di quanto l'Iri aveva incassato per la dismissione della più nobile delle banche italiane.

Ma il Credito italiano non si ferma. È storia del '98 la creazione di un polo creditizio ancora più vasto: Unicredito che si colloca al secondo posto - quanto a raccolta da clientela - nel panorama bancario italiano.

La seconda privatizzaione Iri riguarda la Banca commerciale italiana. La banca di Piazza della Scala è la preferita da Cuccia: non a caso Mediobanca nasce (nel 1946) proprio dalla Comit del mitico Mattioli. Una banca laica nella quale sono passati personaggi come Merzagora e Ugo La Malfa e che probabilmente ha custodito nella sua cassaforte anche i "quaderni dal carcere" di Gramsci, prima che fossero portati a Mosca e consegnati a Togliatti.

La privatizzazione avviene alla vigilia delle elezioni del '94 (quelle vinte da Berlusconi). Nelle settimane che precedono l'Opv (dalla quale l'Iri ricava quasi 2.900 miliardi) a Piazzaffari le azioni Comit vengono rastrellate (anche da Mediobanca) per precostituire un gruppo di controllo in grado di scavalcare il vincolo (inutile) del tre per cento al possesso azionario (in tempi successivi elevato al 5 per cento). Dopo la privatizzazione è evidente che Comit, più ancora del Credit, è una creatura di Cuccia. Ancora una volta la grande sconfitta si chiama public company. Tra gli azionisti di comando spiccano le Assicurazioni generali, Commerzbank, Paribas e, con quote minori, Luchini, Pirelli, Della Valle e Stefanel. I maggiori azionisti della Comit sono in generale gli stessi di quelli del Credito italiano o sono in vario modo legati a quella che viene definita "la galassia del Nord", il sistema industriale/finanziario che ruota attorno a Mediobanca.

Il grande sconfitto è il presidente di Comit, Sergio Siglienti, che crede nella public company e viene estromesso dal nuovo gruppo di controllo pilotato da Cuccia. In un libro, Siglienti ha dato un giudizio molto critico dell'intera operazione, sottolineando come "la public company era stata scalata ancor prima di nascere".

Ma Siglienti si rifà presto: passato alla guida dell'Ina, l'Istituto nazionale delle assicurazioni, (a sua volta privatizzato) crea un nocciolo duro (il Banco di Napoli Spa), al 49% della Bnl e al 51% dell'Ina) per rilevare dal Tesoro il 60 per cento del capitale del Banco di Napoli. Un polo banca-assicurazione con molte propettive. Il primo passo dell'espansione di questo futuro polo si è avuto con la privatizazzione della Bnl: a controllare la banca è un "nocciolo duro" composto dall'Ina (7,25% del capitale) dai baschi del Banco Bilbao Vizcaya (10%) e dalla Popolare vicentina (7,75%).

Dalla Comit sta per nascere un nuovo polo bancario grazie alla fusione con la Banca di Roma (nata a sua volta da fusioni successive tra Cassa di risparmio di Roma, Banco di Santo spirito e Banco di Roma, queste ultime controllate direttamente o indirettamente dall'Iri e cedute alla Cassa di risparmio di Roma).

Un altro polo bancario protagonista della ridefinizione degli assetti di potere in Italia (ma non solo) è quello che nasce dalla fusione tra l'Istituto mobiliare italiano (Imi, fino al 1991 un ente di diritto pubblico, dalla cui privatizzazione in tre tranche, l'ultima nel luglio del '96, il Tesoro incassa poco meno di 4mila miliardi) e l'Istituto San Paolo di Torino, controllato da una fondazione che ha proceduto ad una parziale dismissione della sua partecipazione senza tuttavia perdere il controllo della banca. E la stessa Fondazione, anche dopo la fusione, vale a dire l'annacquamento della proprietà, rimane il principale azionista del polo Imi-San Paolo che nel '98 sfiora una raccolta di 180 mila miliardi.

Insomma, molte privatizzaioni, alcune decisamente anomale e con immediata creazione di nuclei di controllo, i cui partecipanti sono molto spesso banche o assicurazioni, spesso pubbliche, mentre, nonostante le promesse, rimangono fuori dagli organismi amministrativi e di controllo i piccoli azionisti e, in particolare, i dipendenti azionisti. Il risultato finale è che attualmente il sistema bancario italiano ruota attorno a 4-5 poli: il maggiore che fa capo a Mediobanca e comprende Comit, Banca di Roma e Assicurazioni Generali, con Unicredito in posizione un po' più defilata; il polo Imi-San Paolo di Torino (molto vicino alla famiglia Agnelli); il polo Bnl-Ina (al quale dovrebbe aggregarsi in tempi brevi il Banco di Napoli); il polo Banca-Intesa (terzo gruppo italiano quanto a raccolta da clientela, nato attorno alla integrazione fra il Banco ambrosiano veneto, l'ex banca di Roberto Calvi e la Cariplo, la Cassa di Risparmio delle province lombarde).

Attorno a queste grandi realtà, vi sono poli in formazione, come, ad esempio, quello tra Mediocredito centrale e Banco di Sicilia. Ma anche grandi banche, tipo il Monte dei paschi di Siena, che potrebbero in tempi brevi entrare nel giro delle privatizzazioni o nella formazione di nuove alleanze. In aggiunta, vi è il sistema diffuso delle casse di risparmio (di proprietà di Fondazioni), presenti capillarmente su tutto il territorio nazionale, deboli singolarmente, ma appetibili per le grandi banche nazionali proprio per la loro diffusione capillare e quindi oggetto di possibili scalate o di accordi di fusione.

I processi di integrazione realizzati in questi anni hanno fatto crescere la dimensione media delle banche italiane che risulta, tuttavia, ancora modesta rispetto a quella delle grandi banche internazionali. Di qui la debolezza del sistema e la necessità di accordi (e di limiti al possesso azionario) per evitare scalate da parte di soggetti esteri. Anche se attualmente la presenza di istituti di credito stranieri è limitata (i soggetti esteri più rappresentativi presenti nei sindacati di controllo sono la Caisse Nationale de Crédit Agricole nella Banca Intesa; il Banco di Bilbao nella Bnl) soprattutto da parte di istituti tedeschi (Deutsche bank, Commerzbank, Commercial union) sta crescendo l'interesse per il controllo di banche italiane, in un'ottica di globalizzazione che vede coinvolte anche importanti compagnie di assicurazioni estere (un po' un ritorno al passato, visto che molte delle principali banche italiane furono create proprio con capitali di istituti bancari esteri).

In questo contesto, la capacità di controllo dei noccioli duri italiani è fragile, anche dal punto di vista giuridico, vista la forma ibrida delle fondazioni bancarie che detengono il controllo di molte banche con assenza di forme democratiche di rappresentatività (in molte fondazioni vige il principio della cooptazione dei soci). È stato scardinato il vecchio sistema che delegava ai grandi partiti nazionali la designazione degli organismi dirigenti delle banche (e delle casse di risparmio), tuttavia non è stato creato un nuovo sistema, ma solo decentrato a livello locale, spesso con gli stessi criteri clientelari, il potere di gestione e controllo.

Altra caratteristica (negativa) del sistema bancario appare la perdita del legame degli istituti con il territorio e la scomparsa dell'autonomia del sistema delle banche (e dei banchi) meridionali (anche a causa della gestione clientelare che in un cinquantennio ha portato queste banche ad accumulare passivi enormi che hanno distrutto il patrimonio delle banche stesse) come il Banco di Napoli, il Banco di Sicilia, la Sicilcassa, molte banche e casse di risparmio pugliesi finite nel paniere di grandi gruppi bancari nazionali che razionalizzano la gestione delle banche, secondo criteri, però, che non appaiono in grado di offrire supporti alle esigenze di sviluppo dell'area meridionale.

Il criterio che aveva ispirato molte privatizzazioni, doveva essere quello della public company, ovvero di una larga diffusione del capitale di rischio tra una molteplicità di soggetti: l'obiettivo è stato perseguito è realizzato non solo nelle imprese bancarie, ma anche in aziende tipo l'Eni o l'Ina. Il trasferimento della proprietà, tuttavia, non è stato accompagnato da una presenza del capitale diffuso negli organismi di gestione e controllo. Anche se in molte banche è prevista l'elezione degli organismi di amministrazione con voto di lista, ai piccoli azionisti (e in particolare ai dipendenti azionisti) non è stato finora concessa la possibilità di partecipare alla gestione. In altre parole, i gruppi di controllo (spesso detentori di quote risibili di capitale) hanno favorito liste di minoranza strettamente legate a loro (in particolare i fondi di investimento). Una nuova forma di cooptazione che non lascia alcuno spazio al capitalismo diffuso.